Koinonia Febbraio 2024


UN PADRE, UN FRATELLO, UN MAESTRO

 

Ci conoscemmo in treno, il primo maggio del 1966, quando ero in attesa della mia seconda figlia. Indossava l’abito da domenicano e leggeva una rivista di filosofia, Aut Aut. Lo apostrofai così: “Padre, è filosofo lei?”.  Rimase interdetto e rispose sorridendo: “... in un certo senso…”. Mi resi conto della vacuità della domanda. La motivai spiegando che ero un’insegnante di filosofia e che mi aveva attratto il titolo della rivista. Gli chiesi quali fossero i suoi interessi in quel momento e mi rispose che si stava occupando della Fenomenologia. Gli dissi che ero amica di una studiosa molto competente in quella corrente filosofica (Angela Ales Bello) e gli diedi anche il  numero telefonico di lei.

Ripensando, a distanza di tanti anni, a quell’insolito incontro, mi stupisce ancora che io mi sia rivolta a quel frate sconosciuto, convinta, fin dall’inizio, che avrei trovato in lui una risposta assolutamente non convenzionale, una risposta che non si sarebbe celata dietro un formale intellettualismo, ma sarebbe andata dritta all’essenziale, disposta anche ad essere messa in discussione. Non ricordo che cosa ci dicemmo in seguito (non avemmo molto tempo a disposizione), ma, per quel poco che durò, quell’incontro fu importante proprio per la sua assoluta apertura e sincerità.

Qualche giorno dopo, mi telefonò Angela (che io avevo reso partecipe del fatto) dicendomi che il frate incontrato in treno l’aveva chiamata e che sarebbe andato a trovarla, se volevo essere presente anch’io. Accolsi con gioia l’invito e, così, padre Alberto entrò nella mia vita.

 

Prese pian piano confidenza non soltanto con tutta la mia numerosa famiglia, ma anche con moltissimi amici e conoscenti, si fece partecipe di tutti gli eventi, felici e non, fu presente in tutti i momenti importanti della nostra esistenza. Seppe stabilire rapporti discreti, ma insieme profondi, con persone diversissime, dai bambini agli intellettuali, dalle persone più semplici a quelle più paludate, insomma diventò la “pietra angolare” della nostra casa.

Un dialogo particolarmente intenso ebbe con mio marito che, di tutta la famiglia, era il più religioso e si dichiarava seguace di sant’Ignazio. Nelle loro animate conversazioni, san Tommaso e il santo di Loyola furono spesso messi a confronto.

Scelse casa nostra come sua dimora romana: in tutte le nostre abitazioni c’è sempre stata una “stanza di padre Alberto”. La sua presenza non era mai invadente, anche se molto partecipe dei problemi del momento, grandi o piccoli che fossero.

Quando veniva per qualche giorno nella nostra casa di campagna, destinavo a lui una stanza aperta all’esterno. Al mattino presto si faceva da solo il caffè e poi camminava lungo il viale alberato leggendo il breviario. Si riaffacciava solo quando sentiva che eravamo svegli anche noi.

Improntato alla discrezione e al rispetto era anche il suo modo di essere sacerdote in un ambiente come il nostro, dove non tutti erano osservanti e nemmeno credenti, o perlomeno, lo erano in fasi alterne con posizioni che definirei “fluide”. Ove richiesto, ha celebrato matrimoni, battesimi e funerali, partecipando sempre anche emotivamente agli eventi, ma non si è mai dimostrato contrariato quando qualche componente della nostra famiglia decideva di non sposarsi con rito cattolico o non battezzare i figli.  Pur non celando la sua appartenenza alla Chiesa, era rispettoso di ogni posizione e non ha mai fatto opera di proselitismo.

Il dialogo con me, sempre più intenso coll’avanzare degli anni, verteva su tutto: difficoltà familiari, preoccupazioni personali, ma anche questioni filosofiche complesse che lui sapeva mettere sotto la limpida luce tomistica traducendo in latino il mio quesito, in modi che mi sorprendevano ogni volta. Come se avesse avuto sempre presente la struttura portante dell’Essere, una struttura insieme logica e realistica, chiara e inconfutabile. Questa struttura rinveniva anche in quesiti che nulla avevano a che fare con la Summa Theologica, come quelli, a me più familiari, del mondo greco arcaico.

Mi ha seguito nella stesura del mio ultimo libro con un interesse genuino e generoso, mostrandosi sempre meravigliato per le mie scoperte relative alle religioni orientali, sempre incoraggiandomi ad andare avanti.

Da parte mia, seguivo i progressi di Koinonia alla quale lui dedicava moltissimo impegno. A partire dalla fondazione a Querceto (1976), il periodico è immensamente cresciuto per livello culturale, ampiezza d’orizzonti e verve polemica. Pur accogliendo contributi di studiosi insigni, non ha però mai perduto il suo spirito di “strumento di comunione in fieri”,  comunione che spesso si traduceva in contrasto.

Non era raro che mi commissionasse la recensione di un libro o, semplicemente, una riflessione su temi che gli stavano a cuore in quel momento. Più spesso ero io ad offrirgli qualche paginetta su argomenti che erano oggetto dei miei studi e che credevo potessero interessare ai lettori di Koinonia

Da quando è mancato mio marito (sono trascorsi quasi sette anni) non è passata una sera senza che ci sentissimo per telefono, un breve resoconto della giornata, una buonanotte. Quando gli esprimevo la mia angoscia per il clima di odio che si andava sempre più diffondendo (guerre, efferatezze di ogni genere, respingimento dei migranti, femminicidi, rigurgiti di antisemitismo) sembrava incapace di trovare una giustificazione, rimaneva silenzioso e aspettava da me una parola di speranza.

Quando invece gli raccontavo esempi di spontanea generosità, ne godeva come se ne fosse stato lui il destinatario.

 

Al di là della nostra amicizia affettuosa, non posso qui tralasciare il messaggio che padre Alberto ha trasmesso a tutti coloro che lo hanno conosciuto.

Parallelamente a questa immagine discreta, presente senza mai essere invadente, aperta al dialogo con persone tanto diverse, esisteva infatti l’altra sua faccia, quella dell’instancabile contestatore. In maniera sempre più intensa ed esplicita, attraverso Koinonia, combatteva una indefessa battaglia contro la Chiesa quale è oggi, una battaglia che lo fece anche soffrire nella misura in cui si sentiva incompreso e inascoltato. Arrivava a dire che la Chiesa aveva tradito il Vaticano II, che si era allontanata dal Vangelo, che non aveva più presa sulla gente, che era morta.

Non è facile capire quale fosse la Chiesa che padre Alberto auspicava, forse è più semplice dire come non voleva che la Chiesa fosse: non struttura gerarchica e autoritaria, non mera custode di principi intangibili, non chiusa entro ideologie oggettivamente desuete, non incline a liturgie sfarzose seguite da folle oceaniche, ma neppure ridotta alla sola pratica di opere caritatevoli (“… quelle possono essere attuate anche da non credenti”) e tanto meno vista come un effimero trasporto emotivo, come spesso viene intesa la fede.

Papa Francesco, seppure intenzionato ad attuare trasformazioni importanti, era, secondo lui, osteggiato da forti correnti di ecclesiastici a lui ostili e quindi non riusciva mai a portare a termine i suoi propositi.

Quale Chiesa, quindi, vagheggiava padre Alberto? La risposta si trova nel Vangelo: “… dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20). La Chiesa non ha bisogno di steccati ed esclusioni, non di divieti o imposizioni: essendo fondata sulla fede in Cristo,  inteso non soltanto come “saggio” alla stregua di un Socrate o di un Gandhi, ma come Figlio di Dio, Dio in sembianze umane, è aperta ad accogliere e comprendere tutti. La fede è sì un dono, ma un dono che può non essere recepito o addirittura respinto da chi non riesce a disporsi ad accoglierlo.

 

Parlando con padre Alberto di questi argomenti, una volta mi ricordò la definizione tomistica di “verità”: adaequatio rei et intellectus (Summa Th. I, Q. XVI, art. 1 e 2), dove il termine adaequatio sta per “farsi uguale”, “corrispondere” della cosa e dell’intelletto (e non dell’intelletto alla  cosa o viceversa), perché i due termini, res e intellectus, quasi si vengono incontro e si identificano l’uno nell’altro. Non quindi un mero idealismo, ma neppure un piatto realismo: la “cosa” non è un’astratta idea di realtà oggettiva, ma è quella realtà con la quale il mio o il tuo intelletto si è identificato. La verità non è un muro contro il quale il soggetto va a sbattere a seguito di un’incontestabile sperimentazione o di un procedimento logico, ma è una rispondenza, quasi un abbraccio.

Dice ancora san Tommaso: «cognitum est in cognoscente per modum cognoscentis» (il conosciuto si presenta in chi conosce attraverso modalità particolari di chi conosce), dove è ancor più esplicitato il fatto che ciascuno ha il suo modo, il suo tempo, la sua intensità di fede. Pensiero che non deve essere inteso come soggettivismo (che degenererebbe nella negazione del concetto stesso di verità), ma piuttosto con l’idea che il percorso che ciascuno compie per accostarsi al vero non può che essere assolutamente personale.

A ben riflettere, questa è la lezione che mi ha trasmesso padre Alberto sin dal primo incontro in treno: non si tratta di accettare o respingere una verità precostituita, ma di mettersi in cammino per ricercare quella che meglio si avvicina alla nostra capacità di comprendere, disposti a perdersi e ritrovarsi e, soprattutto, incontrarsi.

 

Anna Marina Storoni Piazza

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