Koinonia Luglio 2023


Non è nostalgia ma speranza “contra spem”

UNA CHIESA PER I GENTILI! (II)

 

Quali sono, in sintesi, le modalità, le condizioni, le caratteristiche fondamentali di questo farsi chiesa di continuo, di questo accordarsi per chiedere al Padre qualcosa di importante e di comune interesse?

Vediamo di ricavarne alcune dal testo evangelico sopra citato.

        

a) dove sono due o tre... - Si stabilisce il piano in cui una chiesa deve aver luogo e costruirsi: quello puramente umano del rapporto personale dell’uno con l’altro, al di fuori di ogni ambito puramente cultuale o rituale, liturgico in senso ristretto. Ai simboli, alle formule espressive, alle strutture rappresentative e giuridiche va dato un senso reale nei termini della vita. La chiesa deve nascere e svilupparsi là dove la vita si svolge, in ogni ambiente ed in ogni situazione umana: non può mai essere un accessorio, qualcosa di sovrapposto o di collaterale alla vita degli uomini, qualcosa che ci vuole solo nei giorni di festa...

 

b) ... riuniti nel mio nome,... - In altre parole, quando due o tre sanno incontrarsi solo in forza di una convergenza nel Cristo e fanno di Lui il vero punto di incontro e di confronto. Il “mio nome” sta a significare tutto ciò che Gesù esprime e rappresenta come valore di vita, e quindi sta a significare il suo Vangelo e la sua stessa realtà personale.

La dimensione semplicemente umana della vita, quella in cui l’uomo è prima di tutto e soltanto uomo con tutta la sua povera umanità, viene recuperata e rivalutata per se stessa, nella sua povertà ed insufficienza, senza dover ricorrere al prestigio, alla ricchezza, all’autorità e al potere, o ad ogni sorta di discriminazione sociale, ai fini di una valorizzazione convenzionale ed illusoria. Nel Vangelo c’è uno spazio in cui l’uomo può essere e ritrovarsi semplicemente uomo nei confronti dei suoi simili, senza la necessità di una qualunque maschera difensiva...

 

c) ... io sono in mezzo a loro. - L’iniziale, occasionale e spontaneo incontro umano deve essere vissuto in modo aperto e non solo sotto forma di individualismo allargato: deve acquistare quella ampiezza universale che il Vangelo rivela, esige e produce. Un arricchimento ed approfondimento nel senso del cuore porterà inevitabilmente a scoprire e a realizzare la presenza viva di Gesù, di ciò che egli significa e di ciò che egli è per l’uomo. In altre parole, l’incontro umano matura e cresce nel senso del Cristo e nel senso della fede, unica garanzia di validità e di durata.

Proprio questo incontro nella fede diviene e produce la chiesa. Quindi è qualcosa che vale e si qualifica per se stesso, tanto da diventare uno scopo ed un punto d’arrivo, anteriormente a qualunque altra finalità possa essere stabilita. Come per una famiglia il primo scopo che può proporsi e deve perseguire è quello di essere famiglia in vera comunione di sangue e di vita, così è per la chiesa vivente; il resto può nascere di qui.

Del resto, il discorso è molto semplice e coerente: come si ammette che l’uomo-persona non può e non deve essere finalizzato (o strumentalizzato) a niente ed a nessuno, così si deve garantire che anche l’uomo-comunità non deve in nessun modo farsi finalizzare ad alcun altro scopo: deve avere valore di fine, di effettivo bene comune a cui contribuire ed a cui partecipare equamente.

La presenza della chiesa tra gli uomini dovrebbe proprio significare questo primato dell’uomo come persona e come insieme: la sua natura è l’essere assieme degli uomini nella forma e nei modi suggeriti e voluti dalla Parola di Dio - il suo compito è quello di mettere assieme gli uomini ad ogni livello, secondo le leggi inconfondibili della nuova alleanza.

La “fede” non è dunque un semplice presupposto dato spesso per scontato, ma è una fisionomia, uno scopo ed un compito, che ha di mira la comunità dei credenti - che non sia solo comunità senza essere dei credenti, e che non sia solo dei credenti senza essere comunità.

 

4) In pratica...

 

Lo sforzo di riflessione compiuto fino ad ora potrà forse risultare inutile per chi voglia lanciarsi avanti nell’azione, avendo già acquisiti certi presupposti come coscienza personale. Effettivamente, la rivendicazione di libertà a non farsi “circoncidere”, per essere chiesa in modo diverso, può sembrare a molti una questione del tutto superata. Ma il discorso va situato nel contesto di una chiesa chiusa in cui di fatto ci troviamo e con cui bisogna comunque fare i conti (si pensi ai “falsi fratelli” di cui parla S.Paolo!). Per chi voglia o senta di dover uscire all’aperto, il pericolo maggiore non viene dai “nemici”, ma da chi è pronto a colpire alle spalle dal di dentro. Cercando di mirare alla semplicità, c’è da evitare l’ingenuità e non bisogna dimenticare di essere circospetti come serpenti.

Tornando per un momento alla storia, abbiamo visto che S.Paolo aveva la chiara e sicura coscienza di quel che doveva fare e lo faceva liberamente; ma ad un certo punto ha dovuto difendere e garantirsene il diritto, opponendosi a Pietro ed andando a Gerusalemme per discutere e far valere le sue ragioni.

A rischio di allungare il discorso, vale la pena di riportare una testimonianza diretta della Lettera ai Galati, dove si parla del viaggio a Gerusalemme: “Vi andai - scrive Paolo - in seguito ad una rivelazione. Esposi loro il vangelo che io predico tra i Gentili, ma lo esposi privatamente alle persone più ragguardevoli, per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano... E questo proprio a causa dei falsi fratelli che si erano intromessi a spiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù, allo scopo di renderci schiavi. Ad essi però non cedemmo, per riguardo, neppure un istante, perché la verità del vangelo continuasse a rimanere salda tra di voi” (Gal 2,2-5).

A questo punto c’è da dire che le indicazioni e conclusioni teoriche concordano con le risultanze pratiche della esperienza di questi due anni a Querceto. Il progetto ideale potrebbe essere riesaminato nella sua fase di attuazione.

Grosso modo, i punti di convergenza sono questi: una chiesa come vita comunitaria aperta è e rimane sempre un punto di arrivo mai sufficientemente raggiunto; ed ogni altra azione o finalità pratica o parte da essa o è in vista di essa. Guardando a noi - e non certo con sguardo narcisistico - si può costatare che non abbiamo fatto niente di rilevante e di eccezionale, a risonanza pubblica. Ma nella maggior parte dei casi dei nostri incontri è stata messa alla prova la nostra capacità di apertura umana - è nata ed è cresciuta una amicizia vera - è maturata la fraternità - si è stabilita e approfondita una vera e propria comunione di fede - c’è stato posto per tutti. Evitiamo di dire o di credere che siamo una “comunità” così e così; si può dire soltanto che tra noi è in atto e sta nascostamente lavorando un certo spirito comunitario ad ispirazione evangelica. In prospettiva, si va formando un tipo di spiritualità cristiana fatta per la vita comune...

Con senso di povertà e di disponibilità, c’è da riconoscere che anche questo è un compito ed un lavoro, qualcosa da farsi; con tutta probabilità è forse il lavoro primario a carattere ecclesiale come servizio del Cristo e del suo Vangelo (e quindi come compito sacerdotale per eccellenza). Nella vita, infatti, è certo importante mirare ad un obiettivo comune e perseguirlo insieme, guardare a cosa va fatto fuori di noi ed intorno a noi: ma forse è altrettanto importante - se non di più - sapersi prima guardare in faccia e negli occhi - accorgersi di chi si ha accanto prima di fare attenzione a ciò che sta davanti.

Con questo non si è voluto e non si vuole escludere una qualunque azione pratica a carattere “temporale” o sociale; si è voluto solo riaffermare che ogni azione di questo tipo, per quanto indispensabile ed inevitabile, deve risultare per lo più la riprova pratica di quello che si vive o deve portarci a viverlo, ma mai dovrà essere determinante e qualificante della dimensione ecclesiale propriamente detta - altrimenti torneremmo a qualificarci per una nuova diversa “circoncisione” e non più per la libertà della fede!

È un po’ come l’anima sta al corpo (almeno secondo una certa concezione antropologica): non ne può fare a meno, pur godendo l’uno di una certa autonomia, specificità e complementarità rispetto all’altra. Così il corpo ecclesiale (corpus Christianorum) ha tutta una sua azione da svolgere nel temporale in piena autonomia, ma al tempo stesso va riconosciuta all’anima della chiesa - che è la fede nelle sue varie manifestazioni dirette - una sua funzione animatrice, anche se mai accentratrice e dispotica.

Applicando ancora a noi: sarebbe veramente illusorio, presuntuoso ed inesatto qualificarsi “comunità” costituita, da cui perciò pretendere un determinato comportamento ed un preciso intervento nel “temporale” - vale a dire nelle varie e complesse questioni che agitano il mondo e che si agitano intorno a noi, ed in cui tra l’altro siamo singolarmente coinvolti. Non è per lavarsene le mani o per rimanere estranei ed insensibili a questi grossi problemi; ma per un senso di misura, di onestà e di sincerità c’è da dire che quanto ci è dato e richiesto prima di tutto, come insieme, e quanto di fatto è possibile è di esercitare sempre più vitalmente una funzione comunitaria ad ogni livello, nel senso sopra chiarito.

Vera comunità può essere considerata quella umana (non per niente si parla di “famiglia umana”) o anche la chiesa in quanto dell’umanità esprima e realizzi proprio questo valore comunitario implicito. Parlare di comunità per quanto riguarda nuclei o settori particolari è alquanto improprio e può avere significato solo nel caso e nella misura in cui anche due o tre soltanto realizzino tra di loro il vero incontro universale in modo intensivo, se non in modo estensivo.

Altro aspetto da considerare e messo in luce dalla nostra esperienza è anche questo: uno spirito comunitario aperto nel senso della fede non investe solo le persone presenti e partecipi fisicamente all’incontro: può raggiungere ed interessare anche quanti sono a distanza, ma condividono con noi una medesima convinzione ed un medesimo orientamento di vita, un medesimo sforzo di bene ed una medesima ricerca dell’incontro ad ogni livello. Non per niente possiamo incontrare tutti nel Cristo e Cristo in tutti, anzi in ciascuno dei più piccoli dei suoi fratelli! Di fatto, si potrebbe facilmente provare che della funzione comunitaria di Querceto usufruiscono e contribuiscono, ne fanno veramente parte, persone che mai hanno avuto l’opportunità di stare tra noi, ma che con noi si sentono solidali in modo pieno.

Premesso questo, il vero problema viene a presentarsi praticamente così: come assolvere meglio, nelle nostre particolari circostanze ed in questo particolare momento, una funzione comunitaria aperta in senso autenticamente ecclesiale? E’ chiaro, infatti, che non si danno ricette bell’e pronte ed uguali per tutti e per tutti i momenti. Ci sono situazioni e momenti diversi a cui rispondere ed a cui adeguarsi, senza mai fare di una formula un tabù, e affinché rimanga vero che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato.

Riguardo a noi, in questa particolare fase della nostra esperienza sembra opportuno intensificare una funzione comunitaria seguendo prevalentemente tre direttrici:

- nel senso dell’incontro e dello scambio umano ad ogni livello ed in ogni settore della vita;

- nel senso di una ricerca religiosa critica;

- nel senso di una vita comunitaria di fede in chiave liturgica.

In base a queste direttrici si potranno stabilire dei momenti privilegiati di vita comunitaria, in cui ciascuno può inserirsi secondo le proprie particolari esigenze e disponibilità. Una cosa va tenuta costantemente presente: che la partecipazione a questi particolari momenti di incontro, da stabilire, non è la vita comunitaria, anche se da essi non si può prescindere completamente ai fini di una crescita d’insieme.

Sempre la breve esperienza di questi anni - fatta spesso di malintesi, di false attese e di deluso messianismo - suggerisce un’altra osservazione sul rapporto che deve stabilirsi tra una attività propriamente ecclesiale ed ogni altra possibile attività ed iniziativa di ordine più temporale.

È necessario conciliare l’autonomia e la complementarità dei due settori o dei due aspetti: l’uno non può escludere o sostituire l’altro per nessuna ragione, come l’anima non può escludere il corpo e il corpo non può fare a meno dell’anima. È chiaro, quindi, che anche all’attività specificamente ecclesiale deve essere attribuito e garantito un suo proprio ambito e momento, sia pure in stretta connessione con la vita. Inoltre si può dire che anche l’efficacia di una azione all’esterno da parte di un nucleo ecclesiale è sempre in proporzione diretta con la sua vitalità interna di fede, e non potrà mai essere un surrogato o un riempitivo di un vuoto di fede.

Un rapido sguardo alla storia ci dimostra che l’efficienza anche sociale ed umana della chiesa coincide con i periodi del suo maggiore sviluppo spirituale, mentre scade quando il vuoto “spirituale” viene ad essere riempito da ogni forma di potere temporale. Nei tempi più vicini a noi si è assistito al recupero o al puntellamento di una società o civiltà cristiana (in disfacimento) non rivitalizzando la “fede”, ma “cristianizzando” le varie forme del vivere sociale: così si è avuto un partito cristiano, un sindacato para-cristiano, i maestri cattolici, gli universitari cattolici, gli ingegneri cattolici, la classe operaia cattolica, ecc.... Nonostante tutti questi tamponamenti e stuccature, sembra però che si debba e si possa finalmente parlare della fine di una “civiltà cristiana” e di un “mondo cattolico”. Non a caso si è riproposto in termini gravi il problema della evangelizzazione.

La questione, quindi, consiste ormai nel saper ridare tutta la densità umana e storica ad una fede asfittica, che torni ad essere fede nel Vangelo. Il banco di prova è la capacità di dare un’anima al mondo.

Certo, non si trovano nel Vangelo soluzioni ed indicazioni tecniche o una teoria precisa dello sviluppo sociale. Ma c’è un fermento, una visione vasta del mondo e della storia dell’uomo nel quadro del Regno di Dio. Arrivare ad essere convinti e a mettere in conto che cercare il Regno di Dio e la sua giustizia produce e garantisce tutto il resto come sua naturale conseguenza, non è certo un permesso o un invito a starsene con le mani in mano, ma è incitamento ad adoperarsi con più slancio a far fruttare i talenti a disposizione a beneficio di tutti.

Un’applicazione conclusiva molto pratica di questo discorso può riguardare le iniziative ed attività di qualunque genere, che si ritengono in tono con l’impegno di fondo e che potrebbero rientrare perifericamente nel vivere comunitario: non deve essere necessariamente il “centro” o i responsabili dell’aspetto ecclesiale vero e proprio a promuoverle - come spesso ci si aspetterebbe o si pretenderebbe.

Tutti devono sentirsi in diritto di intraprendere qualunque iniziativa secondo il proprio genio e talento, per poi proporne la realizzazione e richiedere la collaborazione agli altri, usufruendo delle condizioni materiali che la Provvidenza mette a disposizione.

Questo va detto per i rispetto dei vari ruoli, che ciascuno deve sapersi assumere nel vivere comunitario; ed anche perché non si creino equivoci sulla natura e sulle finalità primarie del nostro incontro, che tende ad essere di un certo tipo. Un sacerdote ha il suo ruolo, ma non è l’unico, altrimenti si torna alla struttura dittatoriale e dispotica di molte parrocchie, dove il prete è l’accentratore delle mille attività, piuttosto che essere un fattore di unità ed il simbolo vivente della comunione.

 

Alberto B. Simoni op

Querceto, 9 ottobre 1974

(2. fine)

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