Koinonia Luglio 2023


INVOCAZIONE DALL’ABISSO

 

Secondo quanto detto “in piedi e a voce alta” da “Pietro con gli Undici”, a “tutti gli abitanti di Gerusalemme” nel giorno di Pentecoste, Dio avrebbe parlato così, “per mezzo del profeta Gioele: negli ultimi giorni…, farò prodigi nel cielo e sulla terra. E avverrà: chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato” (Gl 3,5; At 2,14.21). E l’invocazione a Dio diventa davvero potente, quando sale dall’abisso in cui il credente sente di essere irrimediabilmente affondato, fino a rasentare la disperazione, così com’è del resto accaduto a Dio stesso, nel Figlio, quand’è giunto a gridare al Padre dalla croce poco prima di morire: “Perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Mc 15,34).

Numerosi sono stati i tentativi di idealizzare la storia fino a oggi, confidando con un certo ottimismo sulla sua evoluzione, persino rasentando la pretesa di salvarsi da soli, magari cercando, come Hegel con le sue Lezioni sulla filosofia della storia, di non vedere o addirittura di eliminare, quei grandi abissi nei quali da sempre l’umanità continua ad affondare “senza più rimedio” (Ger 14,19). Abissi vissuti in prima persona da credenti come Dostoevskij per esempio, in mezzo alle terribili sofferenze da deportato in Siberia, luogo che chiamerà, per ricordarlo anche a tutti noi, Casa dei morti. E che lo porteranno a grandi crisi di dolore proprio leggendo in quegli stessi giorni le tesi di Hegel.

Ne ha parlato anni fa László Földényi in un libretto densissimo: Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere. Vi è messo in luce il dramma dello scrittore russo quando s’accorse di come proprio lo “spirito europeo” - per le cui idee era stato tra l’altro prima condannato e poi esiliato - cercava, dall’alto della sua ‘ragione’, di espellere dalla storia quella gran massa di dolore che si era da poco trovato a vivere in prima persona, in mezzo ai condannati e deportati in Siberia, e questo semplicemente perché impediva a far tornare a un filosofo come Hegel i suoi conti. Dunque come trovandosi scacciato nella “non esistenza, dove solo un miracolo poteva redimerlo, un miracolo la cui possibilità veniva esclusa non solo da Hegel, ma da tutto lo spirito europeo contemporaneo. Quello spirito che riconosceva ad alta voce l’esistenza di Dio, ma rifiutava l’idea che Dio potesse dare ordini non solo generali, bensì particolari, relativi alle singole persone”. Come se tutto quel che accade accada di forza propria e ineluttabile e alle vittime altro non resti che piegare il capo e per sempre.

Di qui la necessità di “uscire, per poter vedere i confini e i limiti dell’esistenza nella storia”. Avendo soltanto così la possibilità di aprirsi al miracolo, a quell’impossibile rimasto solo a Dio possibile. E così comprendere come alla fine soltanto nella “sofferenza e nel pianto, la speranza e la fede nel miracolo crescono in pari misura con la crescita della disperazione”. Il credente non si accontenta di un futuro in cui tutti si diventi più buoni e umanamente felici attraverso ecologia, marce per la pace o cose di questo genere. Tutto ciò è cosa buona naturalmente, ma assolutamente non sufficiente alla salvezza, e di questo il credente deve per primo esserne consapevole.

L’orrore del male che sembra inesorabilmente aumentare ogni giorno sulla faccia della terra, è situazione su cui può ancora reggere la fede, ma soltanto se diventa grido d’invocazione estrema, simile a quello di Gesù sulla croce poco prima di morire, e che sarà la fede degli ultimi, poco prima che il mondo stesso giungerà alla sua fine nell’ultimo giorno, come già annunciato nella seconda Lettera di Pietro, con “i cieli in fiamme” che si dissolveranno e gli “elementi incendiati” che si fonderanno, prima che “nuovi cieli e una terra nuova nei quali abita la giustizia” si diano (3,12-13). Chi ha fede non soltanto non vede, ma nemmeno conosce le cose come stanno davvero, vedendole ora soltanto “in modo confuso, come in uno specchio” sia pure desiderando vederle “faccia a faccia” e “perfettamente”, come ci è stato promesso (1Cor 13,12).

Quando è dono di Dio, la speranza più luminosa può sbucare improvvisa anche dal cuore delle tenebre più fitte. Quando, con la venuta del “Verbo”, la luce ha sfolgorato “nelle tenebre”, “le tenebre” non l’hanno catelavèn, ‘compresa’, ‘accolta’; ma nemmeno ‘vinta’, soffocata’, ‘soppressa’. Il Figlio è stato crocifisso, ucciso, è vero, ma non è finita lì. Poiché poi è risorto, dando a noi l’inimmaginabile, incredibile speranza che anche noi risorgeremo, nell’ultimo giorno, “al suono della tromba di Dio”, così che “per sempre saremo con il Signore” (1Ts 4,16-17).

Più profondo e sentito è il dolore, più la preghiera si fa intensa. E anche se ormai muta e senza più parole in grado d’esprimerla, a renderla potente è proprio la sofferenza e l’impotenza di chi invoca, che è la stessa sofferenza e impotenza di Dio, che non ha ancora potuto fare di più, e per questo ci chiede di resistere ancora, di credere ancora nella sua venuta e nella sua potenza di salvezza, una potenza diventata impotenza per amore e che, anche grazie alla nostra fede e alla nostra apertura di cuore, permetterà a Dio di recuperarla, in un attimo, quando “di nuovo verrà nella gloria… e il suo regno non avrà fine” dice la fede della Chiesa. 

Quello della salvezza del resto, non potrà essere che un totale e improvviso capovolgimento delle cose: la “piccola porta” da cui può in ogni momento entrare il messia, è raffigurata da “ogni secondo” che passa, secondo l’intuizione messianica dell’ebreo Benjamin (Tesi 18,b). Altro che i miliardi di anni delle galassie in cui confidano egli evoluzionisti di sempre. Soltanto là dove c’e disponibilità a morire, come l’aveva Cristo angosciato e solo nel Getsemani,  e ce l’ha il “chicco di grano caduto in terra” (Gv 12,24), potrà venire “d’improvviso …, come le doglie una donna incinta” (1Ts 5,3), “la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”, come concludiamo ogni volta professando la nostra fede fatta di desiderio e attesa.

Soltanto chi ha fede riesce a vedere le cose del mondo come le vede Dio, a guardarle per quello che sono, con tutto l’orrore che questo comporta, fino a disperare e invocare, come ha fatto Dio stesso in Cristo sulla croce prima di morire, indicandoci la via. Dunque un restar saldi pur continuando a guardare in faccia l’orrore, come sentiamo fortemente espresso in una intuizione di Franz Kafka: “Forte scroscio di pioggia. Mettiti contro la pioggia, lasciati compenetrare dai ferrei getti, scivola nell’acqua che ti vuol trascinare via, ma resta fermo e attendi, ritto, il sole che irraggia improvviso e infinito” (Diari – 1914).

Fede è sempre una strenua lotta contro le forze dell’incredulità e della disperazione. Non è a seguito di riuscita e successo che il credente è indotto a perseverare nell’attesa, ma dal fondo della delusione e della smentita, del tradimento di chi ha intorno. Così è accaduto a Gesù quand’era tra noi. Restare saldi nel credere richiede la forza di ricominciare ogni giorno a combattere, fino a restare soli. C’è un momento nel quale soltanto il “vuoto intimo può essere ‘fede’ davanti a Dio, deserto che chiama” (R. Guardini, La visione cattolica del mondo).

Da quando sono entrate in Dio attraverso il Cristo, morte e risurrezione non possono che restare indissolubilmente legate anche per noi, tanto che non potrà darsi ormai l’una senza l’altra: non può davvero soffrire la morte chi non ha speranza nella risurrezione, così come non potrà davvero aprirsi all’attesa della risurrezione chi non patisce fino in fondo la realtà della morte, a cominciare da quella di chi più abbiamo amato e visto soffrire ingiustamente, a cominciare da quella del nostro Dio crocifisso.

Se c’è un contributo umano decisivo alla salvezza, non è certo quello dato dalle nostre buone opere volte a costruire un mondo migliore, fino al raggiungimento corale di un punto d’arrivo molto simile a quello dei tempi della Torre di Babele, ma quello della condivisione del dolore con Dio, che non è ancora riuscito a salvarci nonostante l’invocazione dei tanti crocifissi della storia che, come Giobbe e come Gesù, non hanno ancora ricevuto la risposta decisiva con la risurrezione dei morti nell’ultimo giorno.

Vi sono passaggi nei vangeli che, a saperli notare, mostrano ciò di cui davvero Dio ha bisogno, in Cristo, fin dai giorni del suo essersi fatto “carne” (Gv 1,14). Perché, chiediamoci, proprio quando riesce a sfamare miracolosamente “cinquemila uomini” con “cinque pani d’orzo e due pesci”, lasciando che alla fine persino si raccogliessero “dodici canestri” d’avanzi lasciando stupita la gente che arriva a riconoscerlo come “‘il profeta, colui che viene nel mondo!’, Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo” (Gv 6,1-15)? A proporgli di diventare re per riscuotere il consenso dei “regni del mondo e la loro gloria” era del resto già stato “il diavolo”, portandolo  “sopra un monte altissimo” (Mt 4,8). Lui sì da tempo “principe di questo mondo” (Gv 12,30).

Gesù dunque, dopo avere miracolosamente moltiplicato i pani, a quanti gli chiedevano cosa fare “per compiere le opere di Dio” risponde così: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato” (Gv 28,29).

Anche Jacques Ellul, ne ha sottolineato la differenza: “La speranza è l’atto con cui si prende coscienza della distanza del regno e ci si aggrappa ad un pensiero apocalittico. Se il regno è a portata di mano, se il regno è naturalmente in noi, in mezzo a noi, non c’è bisogno di speranza … Ora, quando c’è confusione tra regno di Dio e sistema politico sociale (giusto, pacifico, ecc.), non c’è più speranza perché si cammina attraverso ciò che si vede, le realizzazioni concrete, le evidenze … Proprio perché il cristiano è chiamato a vivere nella speranza, è anche chiamato ad affermare che il regno di Cristo non è presente … Se c’è continuità senza crisi tra la storia di questo mondo e il regno, se c’è preparazione di quello attraverso l’azione politica, tecnica, scientifica, allora abbiamo a che fare con un Dio oggetto, immobile, un Dio nemmeno più tappabuchi ma soprammobile, che si mette in un angolo come dicendogli: ‘Adesso aspettaci e lascia fare a noi’” (La speranza dimenticata). Non dunque un non credere più in Dio, ma un credere semplicemente mettendolo da parte, come quei tali che, nella parabola raccontata da Gesù, mandarono a dire a quell’“uomo di nobile famiglia” partito “per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi tornare …: ‘Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi’” (Lc 19,11-14).

Così come la parola evangelica è quando ci scandalizza che diventa in noi potenza di Dio, e non certo quando l’accogliamo come un’ovvietà, così la fede: è quando la si vive nella disperazione dell’abisso, che la sentiamo diventare in noi davvero viva, intensa, capace d’invocare quella salvezza che soltanto da Dio può venire.

 

Daniele Garota

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