Koinonia Luglio 2023


ELOGIO DEL CONFLITTO COME KAIRÒS

 

Un tempo, Paolo resistette “in presenza di tutti” a Pietro e a coloro che, diceva, “non si comportano rettamente secondo la verità dell’evangelo” (Gal 2,14). La sua protesta viene da una coscienza più acuta della rivelazione: “L’uomo non è giustificato dalle opere della legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo” (Gal 2,16). Egli lo crede sin dalla conversione, e la sua esperienza apostolica presso i gentili gliel’ha ulteriormente mostrato; ma lo scopre in modo nuovo nel corso di questo dibattito. Il suo intervento è una testimonianza e un progresso della sua fede. Ed è anche un gesto profetico: percepire più vivamente qualcosa di essenziale all’evangelo significa per lui rendersi conto che l’evangelo è chiamato in causa, hic et nunc, dall’atteggiamento preso da Pietro. Poiché vede in questo fatto particolare il luogo preciso in cui è messa in questione la misericordia universale di Dio, egli vi si trova coinvolto sia come fedele sia come apostolo. Tacere equivarrebbe a tradire il Signore. Non tiene in serbo la verità, come se fosse un fatto privato. Non ritiene che certe concessioni pratiche lascerebbero intatta la dottrina, come se fosse “altra cosa”, estranea agli episodi della sua vita e alle circostanze diverse dell’apostolato, quindi indifferente alla realtà della sua esistenza. L’esperienza gli ha insegnato il contrario. È qui, nel presente, che si gioca la verità. Il non possumus è una rinnovata fedeltà da parte di un uomo che è afferrato dalla presenza concreta di Cristo e che aderisce attraverso le circostanze all’azione divina; e tuttavia l’atto profetico che radica Paolo nella propria storia e nel mistero di Gesù è il gesto di “tener testa” a Pietro in un conflitto.

Così anche nei disaccordi tra cattolici, i motivi religiosi che ciascuno adduce alla propria posizione devono essere presi sul serio. Non con una «carità» che attribuirebbe a un avversario delle buone intenzioni e gli conferirebbe l’aureola avventizia della generosità, ma perché una coscienza religiosa testimonia se stessa in quella reazione concreta, perché un credente vi afferma «il senso che egli ha di Cristo», perché la sua fede prende quel volto plasmato dalla creta della propria storia, modellato (come sempre) nello spessore del reale, con la carne e il sangue.

Egli è credente in quella maniera. Non agisce solamente, nel caso concreto, «in quanto credente» o «in nome dei propri princìpi», come se la sua decisione fosse semplicemente ripresa da un ruolo sociale o dedotta da convinzioni religiose. La sua parola e la sua azione costituiscono il linguaggio effettivo di una fede che lo fa vivere.

Dobbiamo dunque dare tutto il suo significato spirituale al rischio di un uomo e alla protesta della sua coscienza, vale a dire a ciò che è propriamente e fondamentalmente umano nel suo atto. Certo, nessun cristiano, fosse pure vescovo, potrebbe giustificare la propria decisione attribuendosi l’ispirazione, la santità o il genio dell’apostolo. Ma se è vero che le nostre divisioni devono farci percepire il nostro misconoscimento di Dio, la nostra mancanza di attenzione a colui che si rende presente nel gesto e nella parola di un altro, o l’egoismo che resta l’intollerabile segreto di ogni virtù e di ogni amore, è altrettanto certo che ogni presa di posizione fa riferimento al Verbo che si fa carne, all’Infinito che si dona nel sacramento dei nostri atti particolari, e allo Spirito che costruisce l’uomo risvegliando la sua libertà nel suo condizionamento. Il cristiano non ha semplicemente il permesso, ha l’obbligo di prendere posizione, se vuole vivere e scoprire di persona ciò che crede. Per questa ragione ha anche il dovere di farsi udire e il diritto di essere udito, chiunque egli sia. Il rendere ragione della propria fede apre dunque dei processi legittimi, simili a quello di Giobbe dinanzi a Dio, dinanzi ai propri fratelli e contro un’opinione pubblica. Il testimone non può confessare la propria fede se non affermando ciò che essa è per lui quando egli fa delle circostanze il linguaggio della propria vita spirituale, quando attesta di avere, qui o là, incontrato il Signore.

Questo legame tra il realismo di una testimonianza personale e il fatto delle divergenze, ce lo mostra già la vita di Gesù. Sotto questo duplice aspetto, le opzioni che oppongono dei cristiani prolungano in qualche modo quella che è stata la rivelazione di Dio: particolare perché effettiva, posta sotto il segno delle divisioni perché realmente inscritta nella storia. Cosa ci può essere di più «particolare», infatti, della vita di questo ebreo in Palestina, in quel minuscolo angolo della terra, in una porzione infima della storia multimillenaria? Il Figlio si mostra così: un uomo fra gli altri. Ogni suo gesto è rivelazione del Padre, ma inserita nei fraintendimenti e i sussulti di una conversazione con una donna incontrata al pozzo, o in un faccia a faccia con i farisei nella piazza di Gerusalemme. Dinanzi al paralitico, dinanzi ai venditori del tempio, Gesù si afferma in una risposta immediata a un evento. Le circostanze determinano i suoi appuntamenti con il Padre. Non agisce come se la verità fosse di un altro ordine rispetto alla presenza di un poveruomo o di un interlocutore sulla sua strada; come se, per annunciarla, dovesse elevarsi al di sopra di quegli incontri effimeri, astrarsi da quegli interrogativi oziosi o animosi, e scuotere la polvere degli eventi giornalieri allo scopo di concentrarsi sulla propria missione. Non si svincola da questa storia per realizzare un’opera che sia sua. L’intera sua vita è coinvolta in ciascuno dei suoi episodi. Nulla gli è indifferente. Le occasioni circoscrivono il luogo in cui riconosce colui di cui vive: è attraverso la sua reazione che egli lo rivela e che la sua coscienza di uomo partecipa all’infinita conoscenza che ha del Padre. Dio parla, Dio si comunica prendendo un posto nell’intreccio mobile delle tensioni, delle simpatie e degli scambi umani. Questo «annientamento» dell’Infinito in azioni particolari è il volto umano della sua passione per il reale: ciò che vi è di più reale al mondo, l’atto fragile di un uomo che afferma concretamente la legge della propria coscienza, ecco ciò che viene consacrato ad atto della presenza divina. Perciò Gesù misura nel suo giusto valore il gesto della vedova che getta la sua offerta nel tesoro del tempio o quello del samaritano che apre un credito per il ferito ricoverato: perché è attraverso dei gesti analoghi, proporzionati alle circostanze di ogni giorno, che egli stesso esprime il mistero di cui dà testimonianza; sa per esperienza che queste briciole della storia esprimono le scelte effettive dell’amore.

Ma questi atti prendono di mira qualcuno e qualcosa. Gesù protesta contro coloro che «non si comportano rettamente secondo la verità». Egli giudica. Loda. Condanna, anche. Si fa dei nemici che avrebbe senz’altro evitato se si fosse tenuto nell’ambito dei principi. Egli urta con il dettaglio stesso delle sue prese di posizione: esse infatti chiamano in causa certi interlocutori, toccano direttamente ciò che dicono e ciò che fanno, li sloggiano da discorsi su considerazioni generali.

Poiché le azioni dei suoi fratelli sono per lui qualcosa di serio, alla scelta che una parola comporta, allo spirito che si afferma in un atteggiamento egli oppone il gesto di un’altra preferenza e di un altro Spirito. Con i suoi discorsi egli indica il significato universale dei suoi atti; ma quelle parole destinate a tutti avrebbero una scarsa eco se non trovassero ogni volta spiegazione in un gesto che seduce, che disorienta, che indigna.

 

Michel de Certeau

In Mai senza l’altro, Ed. Qiqajon, 1993, pp. 62-67

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