Koinonia Giugno 2023


QUASI UNA CONFESSIONE DOVUTA…

 

Se è necessario vantarsi, mi vanterò

di quanto si riferisce alla mia debolezza”

(2Corinti 11,30)

 

         5OO volte Koinonia: invece di ricacciarci nel lontano passato, questo dato numerico induce ad immergersi più che mai nel presente, al tempo stesso in cui proietta nel futuro il problema di cui ci siamo fatti sommessamente ma insistentemente voce: il problema epocale che la chiesa si è posta col Vaticano II e che è stato eluso nella sua radicalità. E questo perché, se Koinonia-periodico mensile è il dito, la luna da guardare è altrove, la luna di sempre o il “mysterium lunae”: “Noi cristiani paragoniamo Gesù Cristo con il sole, e la luna con la Chiesa, la comunità; nessuno, eccetto Gesù, brilla di luce propria” (Papa Francesco). A parte il dito e la luna, siamo noi però a guardarla!

E se il discorso è inevitabilmente soggettivo - trattandosi di esperienza vissuta e condivisa e non di adempimenti  formali - lo è solo in quanto interpreta istanze evangeliche ed ecclesiali dominanti, non in quanto rispondente a qualche schema preordinato o ad orientamenti pastorali “corretti”: c’è sì una vocazione personale, ma in quanto risposta alla vocazione storica che rimane per la chiesa intera il Concilio Vaticano II come emersione di un problema carsico ed epocale, lo si voglia ammettere o meno. Problema evocato di continuo, ma mai passato al primo posto nella estimazione e nella sollecitudine comune. Il Vaticano II o è diventato bersaglio o bandiera, per noi  è e rimane vocazione.

Una vocazione, quella del Concilio a cui ci siamo ispirati, da vivere non con interesse meramente storico e teologico, e neanche come applicazione pratica di norme in campo liturgico o in campo sociale, ma in quanto chiama la chiesa ad essere nuovo soggetto della fede come Popolo di Dio: e quindi più come emergenza ed impostazione di un problema epocale che come prontuario di soluzioni. E cioè, come ritrovamento del nucleo di fede generativo della comunità cristiana e come sfida di rigenerazione di questa comunità nelle condizioni sociali e storiche del momento, al di fuori di visioni ideali generaliste e al di là di aggiustamenti di facciata. È una colpa sentire e riproporre questo problema come se fossimo alla prima evangelizzazione?

Per quanto ci riguarda, quindi, nel nostro tentativo di risposta a questa istanza non abbiamo avuto nessun progetto importante da realizzare, né a carattere istituzionale né in senso alternativo, nessuna restaurazione da fare, ma solo disponibilità per la nascita e crescita della comunione nell’incontro, nell’amicizia, nella ricerca e nella maturazione di fede, appunto come nuovo soggetto “Popolo di Dio” in diaspora. Si trattava semplicemente di una semina e coltivazione di relazioni interpersonali vissute in questa prospettiva: di mettersi alla prova sia nella comprensione che nella “incarnazione” di una vita evangelica nel quotidiano, “come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale” (1Pietro 2,5). Sempre nella consapevolezza che sentirsi chiamati in causa in prima persona, senza l’offerta di qualche etichetta attrattiva ed identitaria, poteva smontare i facili entusiasmi di chi voleva soluzioni a portata di mano, senza prendere atto delle situazioni reali e senza tener conto del prezzo da pagare!

Tornando a noi, c’è da dire che, per quanto ai margini sia istituzionali che logistici, la partecipazione all’iniziativa è stata aperta e indifferenziata, quali che fossero le spinte e le motivazioni del momento per ciascuno (eravamo nei primi anni ’70!): nessuna carta di identità richiesta o rilasciata, ma tutto animato da un sentimento di amicizia, di solidarietà, di aiuto reciproco, di fraternità in fieri in campo aperto in chiave evangelica! Naturalmente, provenendo da condizioni e situazioni diverse, ciascuno aveva legittimamente una sua percezione dell’intento di fondo, per cui nel tempo non sempre e non tutti hanno tenuto presente che in gioco c’era una “vocazione” personale e collettiva, piuttosto che la ricerca di accomodamenti ad effetto immediato in tono con la sensibilità del momento, quando ancora sensibilità collettive erano nell’aria. Per noi però non era questione di diversivo o di capriccio, di “dissenso”  o di contestazione, anche se ha fatto comodo a qualcuno inquadrarci come meglio ha creduto: era solo questione dell’inevitabile conflitto esistente nelle cose e risolto per lo più con emarginazioni o prese di posizione. Di questo conflitto del tutto inevitabile  nel dopo-Concilio bisognava soltanto prendere atto e farsene carico senza infingimenti! Ma senza che un confronto di merito sia stato possibile, per cui nella nostra pochezza e debolezza era facile ritrovarsi alla mercè di posizioni di forza ufficiali, ferme alla difesa indolore dello status quo.

Stando così le cose, nessuna volontà di schierarsi e di contrapporsi, ma solo passione di rispondere agli appelli del momento, in fedeltà alle istanze di fondo che si imponevano, anche in forza della ispirazione e tradizione domenicana di provenienza: come non pensare alla passione per i Cumani di Domenico? Bastava parlarne all’interno di conventi autoreferenziali? Sembra di poter dire che conta meno quanto abbiamo potuto fare di quanto invece è avvenuto di noi! Naturalemnte, allo scopo di essere pronti a rendere ragione della speranza che ci animava, non è mancato un lavoro di ricerca, di riflessione e di presa di coscienza, perché il cammino in corso fosse nella linea e nelle prospettive del Concilio, con lo sguardo dentro le situazioni sociali ed ecclesiali che via via si presentavano! Assicurare una dimensione di pensiero ad una esperienza informe è stato sempre un impegno irrinunciabile, anche se poco compreso e condiviso, se non addirittura snobbato. Ripartendo in qualche modo da zero e mancando di una collocazione istituzionale pubblica, era necessario darsi una struttura mentale, spirituale, teologica che assicurasse relazioni interpersonali significative e comunicative - ecclesiali in senso stretto - oltre ogni personalismo, leaderismo o spirito di corpo e di nicchia.

Come sappiamo, erano anni di tensione, di rottura, di contrapposizione, e sembrava impossibile non essere apertamente schierati da una parte o dall’altra, ma la vera necessità era sbloccare questa polarizzazione, tutto sommato funzionale alle parti in causa, al tempo stesso in cui favoriva una situazione di stallo. Mancava una giusta dialettica interna e il confronto era in realtà un dialogo tra sordi, fino a quando il dialogo non è stato più neanche cercato, lasciando pensare che tutto fosse risolto e appianato, mentre nelle zone alte del riformismo si continuava a fare accademia e ad agitare bandiere. Se siamo rimasti sulla breccia è perché i conflitti non si risolvono né per vie di fatto né con rapporti di forza, ma devono essere riconosciuti, per trovare risoluzioni di merito bipartisan. Chi oserebbe negare che nella chiesa di oggi ci siano tensioni e rapporti di forza, mentre è assente un dibattito  che definisca almeno i termini dei problemi sul tappeto, per poterne discutere e venirne a capo? Basta fare orecchi da mercante o gli struzzi? Come mai di una chiesa in crisi si interessano la stampa e l’opinione pubblica mentre non se ne fa parola in sedi ufficiali, tutte intente ad approntare soluzioni a tavolino?

In ogni caso, per quanto sconosciuto o disconosciuto, il nostro impegno rimaneva comunque quello di trovare una via di uscita esistenziale e “pastorale” da questa impasse, non solo per accomodamenti di fatto ma in linea di principio. E tutto questo sul piano di una fede vissuta tra persone dove e come era dato. Andando all’origine della disavventura, c’è da dire che sono bastate l’esperienza e la riflessione di qualche anno per arrivare alla consapevolezza e alla convinzione che una chiesa-comunione - quale la si proclamava e la si voleva - non poteva essere monolitica ed uniforme, ma doveva avere in sé forme e modalità intrinseche radicalmente differenziate, in modo da consentire un vitale rapporto dialettico, e questo proprio grazie ad una unità di fondo e prioritaria da non travisare e da non tradire, una unità che nessuno poteva rivendicare in esclusiva, né l’istituzione né la profezia, perché “data” e solo da far valere anche nella diversità. Sta di fatto che l’appropriazione esclusiva del ”bene unità” da parte dei vertici ha prodotto sì emarginazioni ed epurazioni, ma mai “scomuniche” dichiarate! Si è creduto di mettere a tacere voci libere soltanto per via disciplinare a fondo perduto!

A questo punto, è stato decisivo il ricorso all’evento fondativo del Concilio di Gerusalemme, di cui ci parlano gli Atti degli Apostoli, che ci ha portati a riscoprire la “Chiesa dei Gentili”, non solo come episodio storico della chiesa primitiva, ma come dimensione costitutiva della chiesa stessa nella sua indole dialettica: perché, se c’è un vangelo di Pietro e uno di Paolo, ci sono anche una chiesa di Pietro e una chiesa di Paolo. E se la chiesa di Pietro è l’organismo dei battezzati sotto un capo, quella di Paolo è delle “genti”, di persone e tra persone, nella obbedienza della fede prima che di pratiche da osservare, di comunicazione prima che di ossequio, di libertà prima che di sottomissione.

Il problema oggi non è più naturalmente in rapporto ai “giudaizzanti”, ma ad una chiesa della legge canonica dominante, delle tradizioni religiose di ritorno, dell’appartenenza comunitaria e della prassi abitudinaria rispetto ad un vangelo come regola prima: altra è insomma una chiesa esistente costituita (o condita) e altra una chiesa in fieri da edificare (o condenda). E questo appunto attraverso un radicamento nella e della fede, in sostanza nella verità del vangelo che “è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (Romani 1,16). Ammesso dunque che la salvezza viene dal “credere al vangelo”, e non da qualche tipo di circoncisione o di identità aggiuntiva ed esclusiva, c’è da dire che questa possibilità è offerta indistintamente al Giudeo e al Greco, a mondi a dir poco diversi: per cui una chiesa costituita solo per praticanti, e magari anche “missionaria” in seconda battuta, è una chiesa a metà, buona per se stessa ma non per il mondo. È una chiesa “separata” dal mondo, mentre proprio la destinazione a tutte le genti ne definisce la ragion d’essere primaria e il modo di essere: ad una chiesa a dominio cultuale dovrebbe corrispondere una chiesa a carattere culturale.

Ed ecco allora, dopo i primi anni di azione libera a servizio del vangelo a tu per tu, maturare l’ipotesi di lavoro “Una chiesa dei Gentili” come riflessione ponte tra l’esperienza fatta e l’orientamento futuro da avere, che porterà poi ad uno sviluppo del tema attraverso uno studio e un opuscolo reso di pubblico dominio. Eravamo nel 1977, un anno dopo la nascita di Koinonia-periodico, che è stato lo strumento per dare voce e spazio a questa chiesa invisibile e “nascente”, dove il primato fosse delle persone in ordine al vangelo, al di fuori di confessionalismi convenzionali, e lontano da identità ecclesiali di ripiego. E questo non come presa di posizione ideologica, ma come esigenza di comunicazione umana in evoluzione evangelica. Il fatto è che la forza di attrazione centripeta del maxi-sistema chiesa non lascia neanche sospettare la chance di una chiesa diversa da sé a tutti gli effetti, ed anche se oggi si fa spesso riferimento qua e là ai “Gentili”, non si rivendica alla maniera di Paolo il diritto di predicare un Vangelo diverso di libertà, ma ci si contenta di appiattirsi sul vangelo della chiesa esistente. C’è insomma da dare vita ad una chiesa del vangelo, non però in maniera satellitare o di contorno rispetto ad una chiesa ritenuta “unica”, ma anch’essa parte viva ed espressione della chiesa “una”.

Ebbene, dopo 500 numeri di Koinonia, tra indifferenza, diffidenza ed ostilità intorno, e dopo la diffusa tendenza a dissimulare differenze reali e ad omologare ogni cosa sotto l’etichetta di comodo dell’esistente, eccoci a riproporre  quanto rimane sì convinzione personale, ma debitamente comprovata e sofferta nella sua valenza ecclesiale e storica, a scanso di surrogazioni di maniera o di successo: non è questione di collateralismi e fiancheggiamenti rispetto al sistema vigente, ma è responsabilità da assolvere e da far valere, anche tra le strettoie pastorali autoreferenziali, almeno come idea e come criterio di discernimento. Appunto idea di una chiesa di “pietre vive”, tutta da costruire: la messe è molta ma gli operai scarseggiano.

Che senso ha riproporre dopo circa 50 anni questa visione e sogno di chiesa, che peraltro non è all’orizzonte, quando abbiamo una chiesa che si è risistemata al suo interno? È facile rispondere che ad essere riproposto non è altro che il Concilio di Gerusalemme di 2000 anni fa, che sembrava avere avuto una ripresa col Concilio Vaticano II, ma che proprio grazie a questo - e ai conflitti in corso - non fa che riproporre la questione seria di una “Chiesa dei gentili” in termini radicali, dove la fede è centrale e primaria rispetto ad accessori religiosi tradizionali. Non si parla tanto di “chiesa in uscita” e di “conversione pastorale”? Diciamoci francamente che questo non è possibile attraverso una trasformazione dell’esistente, se non si riparte da un punto nuovo e diverso, che poi è quello della fede, “fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (Ebrei 11,1). Qualcosa che non può rimanere astratta definizione, ma deve diventare base di una nuova esistenza di credenti, sapendo che “Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Corinti 1,28). La scelta di Dio dovrebbe diventare anche la nostra, nella debolezza!

Se abbiamo ricordato la funzione di Koinonia nel tenere presente e viva questa prospettiva di chiesa, cosa può voler dire rimetterla in gioco oggi, quando le acque sembrano scorrere tranquille in percorsi sinodali, o appaiono calme almeno in superficie? A parte che questa istanza di fondo non è congiunturale e non può essere affatto disattesa, c’è anche una ragione di attualità per non abbandonre questo orizzonte: se ieri c’era da decifrare un conflitto per trovarne una risoluzione dialettica, oggi il problema è addirittura quello di fare emergere il conflitto sommerso tenuto in sordina, per cui abbiamo una chiesa narcisistica che si compiace di se stessa e delle sue manifestazioni: ma dov’è una chiesa degli “altri” oltre che per gli altri? Se qualcuno prestasse ascolto, probabilmente sentirebbe la voce del Macedone che in visione supplicava Paolo: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (Atti 16,9).

 

Alberto B. Simoni op

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