Koinonia Giugno 2023


Non è nostalgia ma speranza “contra spem”

UNA CHIESA PER I GENTILI! (I)

 

1) Una pagina di storia: il concilio di Gerusalemme.

 

Per ragioni  di carattere generale, come per motivi che ci riguardano più da vicino, siamo al punto di poter avanzare l’ipotesi e la proposta di una chiesa per i Gentili, o, per usare una espressione più moderna, per i “lontani”.

Per capire meglio il senso di questa espressione, è bene rifarsi ad una pagina fondamentale della storia della chiesa nascente: la controversia tra i  giudaizzanti e i pagani convertiti sorta ad Antiochia e culminata con il concilio di Gerusalemme.

Certamente, l’apertura e la destinazione universale del Vangelo non potevano essere messe in discussione da nessuno. Rimaneva però da vedere come e quando soddisfare in pratica queste esigenze di universalità, poiché di fatto la prima comunità dei discepoli era costituita da persone della tradizione religiosa giudaica.

Determinante, in proposito, è l’episodio della conversione dal paganesimo del centurione Cornelio (cap. 10 degli Atti degli Apostoli). Dal valore universale del racconto emergono due insegnamenti di fondamentale importanza: 1) Dio stesso indica che i pagani devono essere ammessi alla chiesa, senza venir sottoposti alle prescrizioni della legge giudaica e mosaica; 2) Dio stesso ha ordinato a Pietro di accettare l’ospitalità di un non-circonciso.

Il problema dei rapporti fra i cristiani di estrazione giudaica e quelli di estrazione pagana sembra quindi risolto. Ma ciò non evita a Pietro di essere messo sotto accusa per essere“entrato in casa di uomini non circoncisi” e per aver “mangiato insieme con loro” (At 11,3); per cui il capo degli Apostoli è costretto a giustificarsi, concludendo il suo discorso con queste parole: “Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?” (At 11,17).

E proprio questo tentativo di apertura provocherà le più grosse tensioni all’interno della chiesa di Antiochia, dove fanno la loro apparizione alcuni cristiani della Giudea, che cercano di seminare discordia, quando dicono ai fratelli convertiti dal paganesimo: “Se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè, non potete essere salvi” (At 15,1). Con questa affermazione sconvolgente essi mostrano che, ai loro occhi, la fede cristiana non sostituisce la Legge mosaica, ma semplicemente vi si aggiunge; che l’antica Legge resta indispensabile; che bisogna dapprima farsi giudei per aver diritto al titolo di cristiano...

Di conseguenza, la comunità di Antiochia si agita: c’è chi sostiene che l’apertura è stata eccessiva e chi si rifiuta di passare attraverso la “circoncisione” e le osservanze giudaiche per credere in Cristo Signore.

Il pericolo è grave: la chiesa rischia di essere ridotta a setta giudaica. Paolo e Barnaba, che erano stati gli apostoli dei Gentili, vedono messi in discussione la loro azione missionaria ed il loro metodo di evangelizzazione. Mantenere il silenzio, da parte loro, equivarrebbe ad una approvazione. Si impegnano quindi in una accesa discussione con i nuovi venuti dalla Giudea.

La disputa però non approda a nulla e la controversia si dimostrerà insanabile. Per cui si ritiene opportuno fare appello a Gerusalemme, perché gli Apostoli e gli Anziani decidano e si pronunzino su tale questione di capitale importanza. Tanto più perché, all’arrivo dei perturbatori, anche Pietro dimostra un comportamento abbastanza ambiguo: si tiene volutamente in disparte dai convertiti dal paganesimo, non perché abbia cambiato opinione, ma perché ha paura di urtare il risentimento dei giudaizzanti, di cui conosce la violenza del pregiudizio.

Paolo non si arrende per questo e non esita a rimproverare apertamente a Pietro l’incoerenza di cui dà prova. Capisce che per risolvere la questione alla radice bisogna agire sui giudaizzanti rigoristi di Palestina, che si valgono della autorità di Giacomo loro vescovo. Per questo la comunità di Antiochia prende l’iniziativa di inviare una delegazione alla città santa: e a tale scopo vengono designati lo stesso Paolo, Barnaba e Tito.

A Gerusalemme, dopo le discussioni preliminari e gli interventi dei capi, l’assemblea formula le sue decisioni davanti a tutta la comunità riunita: e lo farà con tanta chiarezza, che ai perturbatori non rimarrà nessuna scappatoia. Viene redatta una lettera, il cui contenuto è molto chiaro: i pagani che si convertono sono tenuti solo a rispettare quattro prescrizioni rituali espressamente indicate e non debbono essere loro imposti altri pesi ed obblighi, a cominciare dalla circoncisione.

Il messaggio del concilio di Gerusalemme resta dunque un vero decreto di liberazione, attenuato da un compromesso provvisorio per la buona armonia delle comunità a maggioranza giudeo-cristiana. La durata del compromesso dipenderà dal risvegliarsi delle coscienze a un più giusto   apprezzamento del cristianesimo e delle esigenze universali del Vangelo.

La finale stretta di mano tra Paolo e Barnaba da una parte e Pietro, Giacomo e Giovanni dall’altra rinsalda gli animi e sancisce l’apertura universale ed ufficiale della Chiesa al mondo.

        

2) La situazione attuale: il dopo-Concilio

        

Questa preziosa pagina di storia fa da fonte luminosa per proiettare sulla scena del mondo attuale l’ultimo Concilio, il Vaticano II, e per interpretare la controversia che da esso sembra risolta su un piano di principio, ma che insorge più aspra su un piano di fatto. Si pensi all’atmosfera del dopo-Concilio.

C’è stata infatti l’apertura ufficiale ed universale della Chiesa al mondo moderno, in vista della evangelizzazione del “mondo pagano” di oggi. Ma proprio di qui nasce il problema pratico in cui si dibatte la Chiesa intera, con una violenza polemica che non ha nulla da invidiare alla controversia del primo secolo: come introdurre e far rientrare i “lontani” nella Chiesa? In quale Chiesa essi dovrebbero entrare e a quali condizioni?

È necessaria una risposta, perché dopo i pronunciamenti ufficiali di vertice, all’atto pratico la chiesa si dimostra più che “giudaizzante”: disposta agli altri solo a determinate condizioni e senza rinunciare a nulla di se stessa, per commisurarsi e modellarsi sugli uomini. Si dimostra troppo appesantita di usi e costumi e chiusa nelle sue abitudini mentali, che inconsciamente pretenderebbe di imporre agli altri come via e condizione per aderire al Vangelo...

In effetti la chiesa, così com’è intorno a noi, non sa concepirsi, non sa farsi, non può essere una chiesa adatta per i Gentili: volendo fare aderire al Vangelo, essa deve rinunciare che aderiscano a se stessa nella sua espressione e forma storica, perché altrimenti, invece di fare da tramite farebbe da schermo al Cristo!

La chiesa deve saper rinunciare a quello che può significare oggi la “circoncisione”, per mirare alle esigenze e al contenuto essenziale della fede e della confessione di fede. E se proprio non sa essere una chiesa per gli uomini, deve saper accettare che accanto ad una forma di chiesa adatta per i “giudaizzanti”, ne esista una rispondente ai “lontani”. Questo, in fondo, il senso dell’ipotesi e della proposta fatta in apertura.

 

Per avviare un tentativo di verifica pratica di tale ipotesi e di tale proposta, possiamo cominciare a chiarire in che termini, più precisamente, si pone oggi l’antica controversia tra circoncisione e fede.

C’è da dire che dal punto di vista di chi si trova all’interno di un certo sistema e di una certa prassi tradizionale, la controversia si pone oggi nei termini istituzione-carisma. Infatti, ci troviamo spesso di fronte ad un tipo di appartenenza alla chiesa a carattere istituzionale, solo in forza di una “circoncisione”, che può vanificare il Cristo e la fede in Lui, secondo l’ammonizione di Paolo ai Galati: “Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla” (Gal 5,2). S.Paolo invita a non sottostare di nuovo alla schiavitù della Legge; altrimenti si va incontro al rischio di rimanere separati dal Cristo, poiché in Lui ha valore solo la fede operante per la carità, ad esclusione di ogni altro motivo esteriore.

Questa ardita rivendicazione di libertà, naturalmente, non ha lo scopo di far valere se stessi e di imporre il proprio arbitrio; tende a riconoscere e consentire al Cristo della fede e alla fede nel Cristo la massima estensione umana, quale del resto le compete. In tal caso, una chiesa verrebbe ad esistere non solo per i “circoncisi” - per quelli cioè che ne fanno parte più che altro per motivi istituzionali -, ma esisterebbe e avrebbe un altro significato anche e soprattutto per gli “incirconcisi” - per quanti non rientrano in certi schemi mentali e tradizionali, ma cercano ugualmente la vera via di accesso alla verità che salva per le vie dello spirito e della libertà.

Non è giusto, insomma, che esista una chiesa solo in quanto realtà storicamente costituita, e quindi come istituzione umana. In quanto realtà istituita e costituita da Cristo, essa deve dimostrarsi capace di esistere anche in quanto si fa giorno per giorno, anno per anno, secolo per secolo, in quanto nella sua fisionomia umana essa rinasce sempre di nuovo e dall’alto, dall’acqua che lava e purifica e dallo Spirito che vivifica.

 

Tutto questo per quanto riguarda un lavoro di apertura della chiesa a partire dall’interno e ai fini di un assetto diverso delle sue stesse strutture. Se poi ci mettiamo dal punto di vista di chi è al di fuori, il problema è quello delle reciproche attese: bisogna che la chiesa sappia cosa gli altri si aspettano e cosa essa deve aspettarsi, cosa deve offrire e cosa può richiedere, allo scopo di esercitare sugli uomini un vero influsso di salvezza e non influenze di altro genere. È qui che il problema diventa di estrema delicatezza e responsabilità per tutti.

Ed è anche qui che si innesta un nostro tentativo di capire e soddisfare il problema della domanda e della offerta, quando come unico valore di scambio è posto il Vangelo.

Difficile dare una qualunque soluzione concreta, senza prima averla sperimentata e messa alla prova. Il prospettiva c’è la visione di una chiesa per gli incirconcisi, in cui si possa prescindere dalla “circoncisione” - vale a dire da un certo tipo di adesione e di appartenenza e di partecipazione alla chiesa, che in realtà ne fanno un posto adatto solo per alcuni, per quanti vi si ritrovano dentro quasi per caso e vanno avanti quasi per forza d’inerzia. Agli altri - ai Gentili appunto - l’accesso non è impedito, ma è praticamente precluso.

Come può configurarsi una chiesa per i Gentili? È chiaro, infatti, che l’ipotesi avanzata non può rimanere in sospeso, ma deve essere tradotta e verificata in qualche concretizzazione umana, storica e sociale, per potersi trasformare in proposta. Ci sono indicazioni pratiche, in proposito?

 

Nella scena della Chiesa di oggi, dominata dall’ombra del Vaticano II, c’è chi si ritiene soddisfatto della nuova verniciatura che la Chiesa ha ricevuto al Concilio, per cui tutto sembra fatto e predisposto per l’apertura al mondo (si pensi al rinnovamento liturgico); c’è chi continua ad interpretare questa apertura come il motivo (o il pretesto) per una identificazione o equivalenza della chiesa col “mondo” (si pensi ai vari movimenti di “politicizzazione” della fede e al “primato del temporale” se male intesi...); c’è anche chi si richiama al Concilio polemicamente, per dichiarare il fallimento della “contestazione” e dello sforzo innovatore, e per invocare la restaurazione più completa (si pensi al clima di repressione attuale: “Il Concilio deve essere cancellato fino all’ultima virgola, come si esprime spudoratamente un monsignore di Curia).

Il vecchio organismo ecclesiastico sta trionfalmente vivendo il momento di rigetto di un trapianto mal riuscito; e non si accorge che di qui verrà la sua morte!

 

Questo è, a grandi linee, il quadro della situazione attuale della Chiesa intorno a noi: non sembra che ci sia spazio per una concretizzazione storica di una chiesa aperta, in cui ci sia posto anche per i non-circoncisi, i Gentili, gli uomini tutti di questo mondo. Sembra cioè che una fede nel Cristo non possa essere intesa, presentata, vissuta, al di fuori o indipendentemente dalle forme tradizionali o dalle strutture mentali e giuridiche collaudate da secoli. D’altra parte, non si accredita ai credenti in Cristo la forza e la capacità di costituirsi in chiesa in forme e modi diversi da quelli di una chiesa storicamente costituita.

 

Ma proprio questa situazione di fatto, più che eliminarlo, rende ancora più acuto il problema di una chiesa aperta ai Gentili ed ancora più urgente e indilazionabile il tentativo di progettazione e sperimentazione.

Dopo questi preliminari, abbozziamo una progettazione ideale di questa chiesa, per vedere poi se ha riscontro e come deve avere riscontro in fase di attuazione pratica.

 

3) Una chiesa-funzione-comunitaria nel mondo!

 

Un punto di partenza, per ideare questo progetto, potrebbe essere la domanda di Pietro, che la Chiesa dovrebbe saper proporre a se stessa: “Se dunque Dio ha dato a loro (i pagani) lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?”. Fino ad ammettere: “Dunque Dio ha dato il pentimento anche ai Gentili, affinché abbiano la vita!” (At 11,17).

Ma oltre che la Chiesa in generale, anche ogni chiesa locale e particolare, ogni singola comunità ecclesiale dovrebbe rispondere a questa coscienza e a questi requisiti. Anzi, solo nella concretezza delle comunità particolari può essere provato e sperimentato questo carattere di apertura universale della chiesa - che è poi la vera “nota” della cattolicità, che prima d’essere un fatto geografico ed organizzativo è un contrassegno dello Spirito.

Certo, non si potrà pretendere che ogni singola comunità ecclesiale o parrocchiale acquisti di colpo questa apertura universale dopo secoli e secoli di chiusura e di separazione, quasi studiata e voluta. Ma di qui ad ammettere almeno la possibilità e la ricerca di comunità o nuclei ecclesiali diversi il passo deve essere fatto.

 

Siamo a riproporci la medesima domanda centrale. messa ancora più a fuoco: come va intesa ed impiantata una chiesa aperta, buona anche per i Gentili - una chiesa che abbia la massima estensione umana nella massima intensità della fede - che eviti di restringere la sua espressione sociale e di coartare la propria fede al momento cultuale o al fatto puramente rituale?

Quello che è possibile dire in proposito per ora è molto poco; ma è il risultato e la sintesi di due anni circa di sperimentazione umana ed ecclesiale, fatta di incontri, di scambi di idee, di ricerca e di preghiera comune, di collaborazione e di corresponsabilità - sperimentazione portata pazientemente avanti (e quanta altra pazienza ci vorrebbe ancora!) sulla falsariga di questa semplice ispirazione e convinzione di fondo: tentare di vivere e testimoniare assieme la propria comune fede nel Vangelo, assunto o proposto quale punto di incontro tra gli uomini di ogni latitudine umana.

Per la verità, niente di più semplice e di più scontato; il difficile semmai viene quando si cerca di passare da una convinzione o convenzione di massima ad una attuazione e verifica pratica - nel vivo delle coscienze e all’interno della vita di ciascuno - di questa ipotesi, che spesso risulta una vera e propria sfida al tipo e alle forme della normale convivenza tra gli uomini.

 

Al di là di ogni preoccupazione organizzativa e di ogni efficientismo, ci siamo resi conto prima di tutto che una espressione aperta di chiesa non può essere intesa come fatto assembleare anonimo ed impersonale in forza di “funzioni” religiose e nemmeno come comunità precostituita in forza di schemi associativi, di fattori geografici o di strutture giuridiche: deve essere invece una vera e propria funzione vitale, da assolvere nei modi e nelle forme in cui le condizioni concrete e le circostanze ambientali richiedono e consentono, in vista di quell’incontro personale e profondo nella comune fede, che rimane sempre un fatto del tutto originale della spontaneità e della generosità e libertà umana, al di là di ogni programmazione o di ogni accorgimento proselitistico.

Si potrebbe anche dire: il fatto umano deve essere messo al primo posto e deve mantenere sempre il suo primato; non potrà mai essere surrogato o sostituito e rimane per tutti il vero banco di prova per ogni valore religioso ed evangelico, come anche di ogni forma organizzativa (il sabato è fatto per l’uomo...).

Il tentativo da operare e l’intento da perseguire, infatti, è sempre quello di coordinarci e strutturarci dall’interno e all’interno, sulla base del rapporto personale dell’uno  con l’altro e quindi di tutti con ciascuno e di ciascuno con tutti. Va evitato in tutte le maniere il pericolo di organizzarci e di costituire un gruppo in forza di formule e schemi predisposti ed applicati dall’esterno o in forza di una adesione o appartenenza solo materiale e transitoria al fatto associativo, che si vorrebbe spesso modellato a nostro uso e consumo, fatto su misura per la nostra indole e per la nostra personalità. È il facile pericolo di un falso e malinteso “messianismo”, che ci porta ad aspettare e pretendere una “salvezza” di comodo, fatta apposta per noi...

 

Naturalmente, ciò non toglie che, come fatto essenzialmente sociale, anche un incontro all’interno e dall’interno richieda una certa configurazione esterna, che lo esprima e lo concretizzi, che lo renda visibile e sensibile, per confermarlo a chi lo vive e per testimoniarlo a chi non lo vive ancora. Ci sono e ci devono essere, per materializzare una vita d’assieme a livello di fede, momenti e gesti di comunicazione e di scambio, che facciano da “segno” dell’incontro comunitario.

Magari, c’è da fare attenzione sempre che questi momenti e gesti non vengano presi come la vera vita comunitaria in se stessa; essi vanno piuttosto intesi come il minimo indispensabile di condizioni, perché si produca una vera vita comunitaria, che, se non è prima di tutto negli animi e nella impostazione di vita di ciascuno, è praticamente nulla.

 

In questa linea si potrebbe parlare della chiesa in concreto come il luogo (o l’insieme delle condizioni) per l’incontro umano all’interno e dall’interno nel rapporto interpersonale, in funzione comunitaria, sulla base del Vangelo ed in vista di una comune fede nel Cristo.

Così, forse, potrebbe aver luogo una chiesa per i Gentili: non in quanto comunità od organismo comunitario già costituiti in un determinato modo - ma in quanto centro di vita comunitaria, dove assolvere, in modo anche visibile, la funzione vitale dell’incontro, della partecipazione e della collaborazione in chiave di corresponsabilità per la “salvezza del mondo”.

Ci sarebbe forse tutta una ecclesiologia (vale a dire un modo di intendere e di “praticare” la chiesa) da enucleare e soprattutto da sperimentare, vivendola, a partire dalla semplice affermazione di Gesù: “In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,19). Tradotta in termini pratici, questa affermazione trova riscontro nelle altre parole di Gesù: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).

In sostanza, si tratta di rinunciare alla comodità o all’abitudine di avere una chiesa prefabbricata, per farsi chiesa giorno per giorno con chi capita, sulla base o in vista della comune fede: “Ma voi, carissimi, costruite il vostro edificio spirituale sopra la vostra santissima fede, pregate mediante lo Spirito Santo, conservatevi nell’amore di Dio, attendendo la misericordia del Signore nostro Gesù Cristo per la vita eterna” (Giuda 20).

 

P.Alberto B.Simoni op

Querceto 1974

(1. continua)

        

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