Koinonia Giugno 2023


LA COMPASSIONE E I SUOI LIMITI

 

In mezzo al moltiplicarsi di opinioni e interpretazioni su quel che accade o non accade, rese ancor più confuse dalla rete mediatica che costringe a distorsioni quotidiane, val la pena chiedersi: cosa davvero possiamo fare di fronte alla valanga di poveri che sempre più ci arriva sulle nostre coste? La parabola evangelica che tutti conosciamo è chiarissima: il nostro prossimo da amare come noi stessi è il povero, il bisognoso che incontriamo e del quale siamo tenuti ad avere “compassione” (Lc 10,37). Ma oggi ci imbattiamo, rispetto al tempo di Gesù, in una condizione paradossale, quella di essere molto a contatto con immagini e filmati che mostrano i poveri, ma non con il povero in carne e ossa, con quel contatto diretto e immediato che invece ebbe il “samaritano” col disgraziato, che i briganti lasciarono lì “mezzo morto” in mezzo alla strada che stava in quel momento percorrendo (Lc 10,29-33).

Ho dovuto tempo fa trascorrere un paio di notti in una corsia di Pronto Soccorso d’ospedale, con accanto a me una donna anziana, sola, che per tutta la notte si lamentava dicendo “Mamma mia aiutami, mamma mia aiutami! …” incessantemente. E i nervi mi andavano a pezzi senza poter chiudere occhio e senza potere fare qualcosa per lei. Nulla di meno che questo significa compassione, e magari dovendo di lì a poco assistere all’agonia e alla morte di quella creatura che in quel momento altro non era che il prossimo che dovevo amare come me stesso. Del resto una compassione che non passa attraverso il dolore, soprattutto quello di non riuscire a fare nulla per chi in quel momento sta soffrendo, è “bronzo che rimbomba”, dice Paolo, “cembalo che strepita”, perché l’amore di carità “tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,1-7). Dunque più che amore di chi fa qualcosa, è amore di chi soffre con chi soffre.

Uno vorrebbe magari precipitarsi (chi ha davvero compassione rischia, si espone a tutto), ma non si ama che a partire dalla giusta discrezione, da quel certo distacco che ci rende capaci d’accorgerci delle necessità più intime e nascoste di chi in quel momento ha tanto bisogno di noi, mentre noi non possiamo fare più di tanto. Forse, oltre al fatto che nella nostra mente siamo già assillati dagli impegni che in quel momento ci aspettano, è anche questo uno dei motivi per cui, passando accanto al bisognoso, tendiamo a guardare da un’altra parte, a tirare dritto. Mentre lì il bisognoso patisce più che della fame e della sete di non essere nemmeno notato da qualcuno che si possa prendere cura di lui in quel momento. E mai dimenticarsi che lì, in quel bisognoso, c’è il bisogno stesso del Signore Gesù, che ci giudicherà tutti nell’ultimo giorno (Mt 25, 35-41). E non è una semplice similitudine, è realtà. Blaise Pascal lo comprese come pochi: “Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo: durante questo tempo non bisogna dormire” (Pensieri, 806). Fino a quel giorno guai a lasciarlo solo a soffrire, là dove “siede alla destra del Padre”, ma anche con la sua presenza in ogni creatura che soffre qui sulla terra.

 

Ma c’è anche da dire che la compassione deve pure avere dei limiti, quando si ha a che fare con un colpevole che non sa nemmeno cosa significhi chiedere perdono per esempio, e si vuol rimanere fedeli sia alla verità che al desiderio di giustizia nei confronti della vittima. È soltanto la verità alla fine a renderci liberi di perdonare, ma anche di condannare, se non si vuole che rimangano sullo stesso piano la vittima e il suo assassino. La fede che Gesù teme di non trovare più sulla terra, quando di nuovo verrà nell’ultimo giorno, è quella di una povera “vedova” che con instancabile insistenza chiede al giudice ultimo: “Fammi giustizia contro il mio avversario” (Lc 18,1-8).

Anche per questo Dio, dice la tradizione ebraica, è di fronte alle vicende umane ogni volta costretto a oscillare tra il trono della giustizia e quello della misericordia: qui e ora nella storia del mondo, né la giustizia, né la misericordia, riescono ad arginare il male che si presenta con le sue mille facce di ambiguità oltre che con la sua potenza.

Si deve intanto essere affamati e assetati di “giustizia” (Mt 5,6) certo, ma la battaglia contro l’ingiustizia non basta, anche alle più grandi spinte rivoluzionarie può infatti mancare, come ha fatto notare Hanna Arendt, la più potente delle passioni: “La passione della compassione” (Sulla rivoluzione). Se non c’è compassione infatti, è la stessa fame e sete di giustizia a venire meno. Che la visione del povero, il contatto diretto col suo corpo, spingano a pietà è questione tutt’altro che scontata, e nulla è più lontano dalla compassione di quel facile sentimentalismo che può condurre non solo alla falsità ma persino alla crudeltà. Di questo pare fossero affetti persino gente come Robespierre e Hitler, ci ha fatto notare Berdjaev, che metteva in guardia su come la crudeltà stessa possa facilmente “essere l’altra faccia del sentimentalismo” (Schiavitù e libertà dell’uomo). Così come può del resto esserlo l’indifferenza, in queste nostre società ridanciane della banalità, dell’opulenza e del tutto si equivale. C’è nella Ghemarà, una messa in guardia riguardo a una compassione di cui non si riconosce il limite, ed è questa: “chi è pietoso nei confronti dei malvagi, finisce per essere colpevole nei confronti degli innocenti”.

Dostoevskij, che ha sondato come pochi l’animo umano, riporta nel suo Diario di uno scrittore questo fatto: “Un muzìk picchia la moglie, la sevizia per lunghi anni, la maltratta peggio di un cane. Disperata, decisa al suicidio, ella va, quasi folle al tribunale del suo paese. E lì la rimandano via, biascicandone con indifferenza: ‘Andate più d’accordo’”. Una superficialità questa di non prendere sul serio il male e la nostra incapacità di affrontarlo come sarebbe necessario, che arriva a nascondere la verità che tutti ci coinvolge e che è stata messa in luce dallo stesso Dostoevskij, che è arrivato a dirci come alla fine tutti siamo colpevoli di tutto: “No, il popolo non nega il delitto e sa che il delinquente è colpevole. Il popolo sa soltanto che anch’esso è colpevole insieme con ogni delinquente”.

Compassione è perciò condividere, col proprio sentimento e più che si può, lo stesso dolore, mettendosi negli stessi panni del disgraziato, cercando di provare cosa proveremmo noi al suo posto. Ma questo è quanto più difficile ci sia da mettere in pratica, soltanto i grandi santi, pare, ci siano un poco riusciti. Si dice che san Francesco, a chi gli chiedeva, “poco tempo dopo la conversione”, perché stesse piangendo e gemendo “ad alta voce” per le vie d’Assisi, rispose di non riuscire a sopportare il pensiero di quanto Gesù, suo Signore, avesse dovuto soffrire durante la sua “passione” (Specchio di perfezione, 92).

La compassione ci rende capaci di cogliere che la stessa miseria che affligge noi alla fine affligge anche gli altri, anche la “creazione” tutta “che geme e soffre” (Rm 8,22) come tutti noi, in attesa di redenzione. Così che, alla fine, altro non siamo che dei mendicanti, come diceva Lutero, mendicanti della salvezza promessa da Dio e della quale Dio stesso ha tanto bisogno.

C’è un racconto di Isaac B. Singer, Lo scannatore rituale, in cui è detto che il protagonista, “da quando aveva cominciato a scannare, aveva i pensieri ossessionati dalle creature viventi… L’uomo non può e non deve avere più pietà del Signore dell’universo. Tuttavia lui, Yoineh Meir, era malato di pietà… Pensava che lo stesso Messia non avrebbe potuto redimere il mondo finché si fossero commesse ingiustizie nei confronti degli animali. Di diritto ogni cosa avrebbe dovuto risorgere dalla morte… Persino nel verme che striscia nella terra brilla una scintilla divina. Quando si scanna una creatura, si scanna Dio”.

E si deve poi avere compassione per gli altri perché prima di tutto ognuno di noi ha bisogno della compassione di Dio, di Dio che si accorga della nostra miseria e del nostro dolore, del nostro bisogno di essere salvati. Senza però dimenticare quanto messo in rilievo da Nietzsche: “Dove al mondo furono fatte più stoltezze se non presso i misericordiosi?”. E aggiungeva: “Guai a coloro che amano e non sanno elevarsi al di sopra della loro pietà!”. Riprendendo di seguito quanto gli disse “un giorno il diavolo: ‘Anche Dio ha il suo inferno, ed è il suo amore per gli uomini”. E se “Dio è morto, è morto a causa della sua pietà per gli uomini” (Così parlò Zarathustra).

 

Ma vi è un ulteriore elemento di cui tenere assolutamente conto, quello per cui l’avvicinarsi al bisognoso che soffre può far gustare, magari inconsciamente e a piccole dosi, la propria superiorità, e così offendere, anche soltanto per questo suo trovarsi in posizione più elevata, colui che magari con tutte le migliori intenzioni, ci accingiamo ad aiutare.

La compassione non è un sentimento da poco, soprattutto per chi ne è oggetto: far compassione agli altri può essere umiliante come poco altro. La carità è pesante, per questo – come insegnava san Vincenzo alla novizia – chi davvero ama il bisognoso sa che prima di tutto deve farsi perdonare di quell’aiuto che sta per offrirgli. “La compassione - diceva Simone Weil - è il riconoscimento della propria miseria negli altri. Il riconoscimento della propria miseria nella sventura degli altri”. E tuttavia “non è facile dare con la stessa umiltà che occorre avere quando si riceve. Dare con l’atteggiamento di un mendicante” (Quaderni IV).  Anche soltanto per questo mai la compassione dovrebbe prescindere dall’umiltà, dal proprio sentirci a nostra volta bisognosi. Orgoglio e vanità sono sempre lì a due passi e un vero e proprio guaio potrebbe essere quello che ci fa sentire meritevoli di qualcosa e dunque desiderosi che “tutti gli uomini” giungano a parlare bene di noi (Lc 6,26), quasi fossimo noi gli autori di quello che riusciamo a fare, e non Dio che sta prima di ogni cosa e che è in grado di fare quello che noi non riusciamo nemmeno a immaginare.

Sebbene il contrario della compassione sia la durezza di cuore, a impedirla spesso è la peggiore tra le debolezze umane, quella che cova e agisce molto in profondità: l’invidia. Mai dimenticarsi del resto che lo stesso Pilato ben sapeva come i capi religiosi avessero a lui consegnato Gesù “per invidia” (Mt 27,18), per il bene che riusciva a fare e trasmettere. La stessa morte, che “Dio non ha creato, è entrata nel mondo “per l’invidia del diavolo” (Sap 1,13. 2,24). Ed è forse proprio questa subdola forza a scatenarsi in ognuno di noi cadendo nel bisogno, vedendo qualcuno accanto a noi che può permettersi di aiutarci mentre noi siamo lì a terra bisognosi di tutto. Più potente di quanto s’immagini è quella forza di cui lo stesso Paolo faceva cenno: “In me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”. E che lo portava a chiedersi: “Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rm 7, 18-19.24).

 

Daniele Garota

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