Koinonia Giugno 2023


I TERMINI REALI DEL PROBLEMA SECONDO YVES CONGAR

 

Il Popolo di Dio positivamente istituito e pienamente, visibilmente, costituito come tale nella storia a partire dagli avvenimenti dell’Incarnazione e della Pentecoste, è inviato dappertutto a questo popolo di Dio diffuso, imperfetto e virtuale, che rappresenta l’umanità intera, tutta chiamata; già acquistata nel e dal Cristo, già pervasa di grazia. Il Popolo di Dio formato è inviato al popolo di Dio in formazione, il Popolo di Dio cosciente al popolo di Dio non ancora cosciente. Questa è l’idea dinamica del capitolo XI della Costituzione Lumen gentium. Anche per questo, due volte, in tale capitolo, la Chiesa è chiamata ‘popolo messianico’ (Cf. n. 9). Si è voluto mettere in questa espressione l’idea di un popolo contrassegnato da una vocazione di portata universale, portatore di una speranza per il mondo intero. Lo ripetiamo: una speranza che sorpassa il semplice compiersi delle aspirazioni del mondo stesso, considerato nel suoi limiti di mondo, ma che va fino alla comunicazione di Dio alla sua creatura..

Se il popolo di Dio porta questa speranza, la porta, come dice s. Paolo, in vasi d’argilla (cfr. 2 Cor. 4, 7). Come è inadeguato a tale missione! Da ogni parte: in alto, rispetto all’assoluto di Dio e delle missioni di Cristo e dello Spirito che bisogna continuare; a destra, a sinistra, rispetto agli uomini e ai popoli cui bisogna ‘rivelare il mistero di Cristo’;  in avanti,  rispetto ai richiami  della storia, alle sue necessità, alle esigenze di una crescita del Corpo di Cristo verso la sua statura perfetta (Cf. Ef. 4, 13) e verso la pienezza escatologica... Da una parte, come rendere `credibile’ agli uomini la nostra pretesa di portare loro la speranza assoluta?  Si conoscono molte espressioni del rifiuto opposto dagli uomini alle nostre pretese, che ritengono non credibili, dalla celebre frase di Nietzsche («bisognerebbe, perché io credessi alla loro salvezza, che essi avessero prima l’aria di essere salvati!») fino ai giudizi espressi dagli indiani sulla nostra mancanza di spiritualità, la nostra inferiorità reale nell’ordine stesso in cui pretendiamo rivelare il Tutto e portare l’Assoluto. D’altra parte, come vincere incessantemente il peso della carne, o semplicemente dell’umano, che appesantisce il Corpo della Chiesa e impedisce l’esercizio della sua missione? Molte volte, spiegando quale compito attendeva il Concilio, Giovanni XXIII si è riferito all’esempio del primo sinodo di Gerusalemme. Egli notava che la Chiesa aveva conosciuto allora il suo primo problema missionario, il più grave della sua storia, nella questione riguardante ciò che conveniva imporre o non imporre ai pagani perché essi potessero entrare nel Popolo di Dio e formare, essi pure, il Corpo di Cristo, il Tempio dello Spirito Santo. Giovanni XXIII vedeva, nella risposta data allora, il tipo di risposta che la Chiesa è chiamata a dare oggi, nelle condizioni in cui essa deve esercitare la missione ereditata dagli Apostoli: «quod tempus requirit.

«Quod tempus requirit, ciò che il tempo richiede», è una parola di s. Bernardo che riprendemmo qualche mese prima dell’apertura del Concilio, in relazione ad un’altra parola di s. Bernardo che parlava della Chiesa “ante et retro oculata”, che ha o deve avere nello stesso tempo uno sguardo al passato, alle sue origini e alla sua tradizione, e uno sguardo al futuro, al suo avvenire, alla frontiera non ancora raggiunta e che si sposta continuamente. Tutto questo la riguarda in quanto essa è e deve essere il sacramento universale della salvezza, segno e strumento del dono assoluto e universale fatto da Dio al mondo in Gesù Cristo.

 

Yves Congar  op

(Ai miei fratelli, Queriniana 1969, pp.40-42)

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