Koinonia Giugno 2023


ANTIFASCISMO OGGI: QUALE?

 

Nel 2023 la Presidenza del Consiglio a Giorgia Meloni ha riaperto il conflitto fascisti/antifascisti: una guerra prima culturale che politica, se la “marcia su Roma” ha compiuto cent’anni nel 2022 e non c’è più nessuno che abbia marciato. Tutti nati dopo: la storia archivia in fretta e a quindici anni oggi se ne sa qualcosa solo se piace studiare o si sta su qualche sito non sempre ineccepibile.

Il pedagogista constata che anche i paesi germanico-nordici finiscono irretiti dalle rievocazioni naziste naziste (è stato nell’isola di Utoya in Norvegia che il neonazi Anders Breivik sterminò un gruppo di giovani socialisti), ma constata che gli insegnanti italiani non posseggono un documento analogo agli atti del Processo di Norimberga: all’Italia manca una condanna formalizzata del fascismo a fornire le prove della dottrina perversa e delle stragi, dei delitti, delle violazioni di tutti i diritti umani perpetrati dal regime di Mussolini. Il giudizio documentale della storia è il sigillo che manca all’Italia pronta alla vendetta. Il lavoro culturale oggi, in presenza di tendenze neofasciste del tutto inattuali, deve tenere conto che la memoria è stata trasmessa come narrazione e, a seconda del contesto personale, può essere diventata una citazione di fatti lontani o un mito.

Faccio parte della generazione che ha avuto i padri direttamente coinvolti negli anni Venti del secolo scorso. In questi giorni di discussione mi sono scoperta “antifascista a prescindere”, nel senso che, anche se non conoscessi la storia del mio paese dalla “marcia su Roma” alla Liberazione - essendo anch’io nata dopo - mi ritrovo antifascista per reazione e discernimento “istintivi”. Mentre chi sono i miei concittadini attuali che - compreso l’un terzo che non è andato a votare - hanno eletto Giorgia Meloni - Fratelli d’Italia, ex Alleanza Nazionale, ex Msi - e la mantengono al 30% del consenso? È tornato il fascismo? Sicuramente no (nelle elezioni precedenti FdI aveva il 4,35 %), anzi i neofascisti di Casa Pound e dei Dodici Raggi sono preoccupati per la perdita identitaria del governo meloniano che rende il fascismo storico fluido quanto a ideologia (della prassi meglio non parlare). D’altra parte la confusione mentale di un Ignazio La Russa, attuale presidente del Senato, che ha dato ai tre figli maschi i nomi degli indiani: Lorenzo Kociss, Geronimo e Leonardo Apache rivela la stranezza di un fascista duro e puro che, almeno nei film western, stava dalla parte giusta. Uno così il busto di Mussolini non l’ha comperato al mercatino di Predappio: ce l’aveva in casa il suo babbo.

Siamo dunque in presenza di elementi culturali noti, passati subdolamente nel limbo sociale: dopo il 1945 dietro la divisione fascisti/antifascisti, destra/sinistra, reazionari/democratici sono rimaste opacità, disattenzioni, qualunquismi, indifferenze che risalgono agli ambienti domestici, di nonni e genitori che, nati dopo la fine della seconda guerra mondiale, in un paese ormai democratico, avevano  avuto altri genitori che potevano essere stati gerarchi di Salò, ma la più parte era anonima e aveva indossato la divisa da balilla, salutava romanamente e aveva nella pagella il voto in “mistica fascista”. Si erano adeguati e avevano trovato normale che il lavoro dipendesse dall’iscrizione al PNF; che il sindaco elettivo fosse stato sostituito dal podestà nominato; che l’informazione fosse eterodiretta, che il governo fosse proprietà dell’uomo della Provvidenza. I figli di persone così - lasciando da parte i gerarchi che subivano la sconfitta con tensioni vendicative - si erano abituati alla democrazia, anche all’antifascismo, voce libera di chi infine aveva vinto, senza dimenticare gli orrori della guerra e la shoah. Molti erano anticomunisti, criticavano il governo ma per abitudine ne accettavano l’assistenzialismo democristiano, affrontavano il pluralismo politico stando con i moderati o i protestatari, di destra ma anche di sinistra: di fatto non ripudiavano il Movimento Sociale, che stava nel pluralismo voluto dalla democrazia. Il mondo “nuovo” conservava tracce dell’eredità del regime sconfitto mentre gli antifascisti riscattavano la società dall’impoverimento e dall’arretratezza recuperando l’espansione industriale e le dialettiche di potere. Negli anni Ottanta andai in Corea del Nord: vedendo i bambini andare a scuola in un paese già da trent’anni congelato dal potere e separato dal mondo, mi chiedevo quanta fatica sarebbe stata necessaria per perdere quella che per loro era normalità. Da noi la generazione successiva, quella dei nostri figli, oggi ormai adulti, ha frequentato scuole in cui non bastava la scomparsa dei ritratti del Duce e del re, ma non aveva attuato il risarcimento culturale nello spirito - antifascista - della Costituzione che pure era oggetto dell’ora di educazione civica..

Invece io - la prima generazione - ricordo l’ingresso in prima elementare per aver memorizzato uno scontro tra i miei genitori che normalmente andavano d’amore e d’accordo: il babbo non voleva comperarmi la divisa di “piccola italiana”. La mamma diceva che “la bambina non capiva” e sarebbe stata malvista dalle compagne: a me la divisa piaceva, comportava il mantello, che, anche se nero, indossavo per avvolgermici quando ci recitavo davanti allo specchio. Ero già più grande il 21 aprile ‘45, quando ci precipitammo a vedere l’ingresso a Bologna dei “liberatori” inglesi, polacchi e neozelandesi (i partigiani seguivano e già si dividevano): il babbo, fiero del distintivo del CLN, se ne andò ai suoi appuntamenti: l’antifascismo aveva vinto, ma al rientro il distintivo stava in tasca: lo portavano i voltagabbana. Era l’uomo che aveva scelto a vent’anni di battersi contro il fascismo insorgente (e vincente), aveva sofferto il regime persecutorio in una vita da precario, regolarmente licenziato perché non iscritto e sottoposto a controllo perché oppositore. Aveva sperato nella perdita di consenso al tempo della crisi economica e del taglio degli stipendi e, poi, della guerra all’Africa per “la conquista dell’Impero”; quando fu dichiarata la guerra alla Francia e alla Gran Bretagna in alleanza con la Germania di Hitler tra gli applausi delle masse, fu sicuro che sarebbe costata milioni di morti, ma era la fine. Aveva 23 anni nel 1922, ne aveva 47 alla fine della guerra: irrecuperabile la carriera a cui avrebbe avuto diritto, ma il ragazzo che aveva letto Gobetti, era stato fiduciario di Giustizia e Libertà, aveva preso la tessera del Psi clandestino nel’26, non era cambiato. Impegnato in una sinistra che si componeva e scomponeva cadendo infine nelle complicità e corruzioni. Quando intendeva abbandonare il partito, la continuità dell’antifascismo come cultura mi suggerì di ricordargli: “sei tu che mi hai insegnato che i segretari passano, restano le idee”.

Oggi, per la verità, faccio un po’ fatica: se la destra del governo Meloni si fa fluida nella vecchia tradizione, ma deve osservare il giuramento di fedeltà alla Costituzione, la sinistra si è persa in opportunismi per governare secondo vecchie tradizioni spartitorie ed è altrettanto fluida: se un terzo del paese ha rinunciato al voto, significa che ignora il valore della rappresentanza e delle istituzioni.

Resta la necessità che la sinistra, comunque organizzata, punti tutti i riflettori sull’educazione: l’antifascismo naviga nel tempo e la sua evoluzione va rinnovata in un’Italia che non è riuscita ad avere né una destra liberale, né una sinistra riformista entrambe europee, mentre nel mondo sono riprese le violenze e le guerre ostili prima di tutto alla libertà.

 

Giancarla Codrignani

 

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