Koinonia Maggio 2023


LA SCOMMESSA DI PASCAL

 

Il Pensiero 233 di Pascal è quello del “pari” (scommessa), tanto discusso perché apparentemente avulso non solo dall’opera del suo Autore, ma dal pensiero cristiano in genere. Semplificando, la tesi è la seguente: visto che non è possibile provare con argomenti razionali né l’esistenza né la non esistenza di Dio (perché Dio sfugge, per definizione, alla conoscenza umana) e quindi non è possibile assumere un comportamento conseguente ad un dato certo, positivo o negativo che sia, si tratta di decidere se vivere “come se” Dio esistesse o “come se” non esistesse.

Il Pensiero è espresso in forma dialogica. Uno dei due interlocutori sostiene l’opportunità di scommettere se comportarsi da credente o da ateo. Egli adduce argomenti che sono basati sul calcolo delle probabilità: per ognuna delle due scelte esistono 50 possibilità su 100 di errore, ma la “posta in gioco” non è uguale. Da un lato si guadagna il finito (una vita spesa alla ricerca del piacere) e si perde l’infinito (la felicità eterna), dall’altro lato si realizza l’opposto. Anche se, delle due opzioni, la prima sembra essere a portata di mano e quindi garantita, mentre l’altra appare incerta, vale la pena di rischiare perché tra esse c’è sproporzione, un divario infinito. Non solo, ma è impossibile sottrarsi alla scommessa perché anche chi si rifiuta di scegliere, in fondo una scelta la fa: “scommettere è una necessità - dice - non un atto volontario, siamo costretti … forzati a giocare.”

I termini usati sono quelli del mondo ludico: si parla del pegno, dell’azzardo, del rischio, della vincita e della perdita. Si parla anche delle regole del gioco: in entrambi i casi bisogna fingere di essere convinti della scelta fatta (“… fare tutto come se si fosse credenti, prendere l’acqua benedetta, far dire le messe, ecc.). Perfino quegli eventi che sono considerati miracolosi e quindi passano per essere la prova evidente dell’esistenza di un Potere ultraterreno, sono definiti da Pascal “quel che sta sotto al gioco”, la sua sostanza. 

Anche se l’interlocutore che propone la scommessa sembra attenersi ad una logica ferrea, la convinzione di fondo è che, facendo finta di credere, si finisce col credere veramente e, allo stesso modo, fingendo di essere atei si finisce col diventarlo. Un’adesione volontaria ne provoca una psicologica: l’immaginazione finisce col plasmare il soggetto, connaturarlo, identificare l’io presunto con l’io vero. “Il costume è la nostra natura” dice il filosofo, mostrando così di stimare ben poco non solo la ragione, ma anche la volontà dell’uomo. Quello che, alla luce della ragione, era apparso come un salto nel buio, con l’abitudine diventa una seconda pelle, l’attore finisce per identificarsi con il personaggio che rappresenta.

Il Pensiero 82 è tutto un inno all’immaginazione, la facoltà demiurgica dell’uomo che rende bello ciò che è brutto, forte quel che è debole e debole quel che è forte. La scommessa proposta all’incredulo è quindi un invito a farsi guidare dall’immaginazione nel viaggio del quale la ragione si riconosce incapace e che conduce a Dio: “questa straordinaria potenza nemica della ragione che gode nel controllarla e dominarla per dimostrare quanto forte sia il suo ascendente su tutte le cose, è capace di creare nell’uomo una seconda natura… di credere, dubitare, negare quello che la ragione afferma.”

Ne consegue che, mentre la ragione è in grado al massimo di autorizzare, caldeggiare il viaggio che conduce a Dio, le arti seduttrici dell’immaginazione sanno come condurre l’uomo a destinazione. La fede  finisce per essere soltanto un’assuefazione, un habitus tessuto nel tempo con il filo della consuetudine.

Una ragione impotente contro una fede fittizia: a questo si riduce la scommessa.

A ben riflettere, dietro al pari di Pascal si svolge un vero e proprio dramma: la scommessa  è evidentemente un paradosso, soprattutto se si tiene conto che, a proporla, è uno dei più grandi scienziati illuministi, in aperta sfida non tanto del pensiero laico, ma anche di quello ortodosso. Egli sembra non dare affidamento né a coloro che ritengono di poter dimostrare con la ragione il loro ateismo, né a coloro che si sentono chiamati direttamente da Dio. 

La ragione confessa la sua impotenza: “ho le mani legate e la bocca ammutolita, mi sento forzato a scommettere e non mi sento libero, mi sento costretto anche se sono fatto in maniera tale che non riesco a credere. Cosa posso farci?”. Quanto alla fede essa sembra somigliare più ad una illusione che a un autentico convincimento.

Verrebbe da pensare che il Pensiero 233, più che una scommessa contenga una confessione, che i due interlocutori siano due aspetti dello stesso Pascal che attraversano un momento difficile e si tolgono la maschera.

C’è però anche da chiedersi se questo Pensiero possa, proprio in forza della sua paradossalità, costituire una denuncia rivolta a quanti si professano credenti o non credenti e che si affannano a comportarsi in modo da esibire la posizione dichiarata. Sia i primi che i secondi, infatti, spesso, sembrano più preoccupati di persuadere chi li osserva dall’esterno che di rispondere ad esigenze proprie. Le folle oceaniche che aderiscono agli appelli della Chiesa, le marce, le ostentate flagellazioni, l’esibizione gratuita di spiritualità, spesso suonano forzate. Altrettanto esagerate sono le professioni di ateismo, i processi all’operato di Dio, la pretesa di poter guardare l’universo dall’alto e denunciarne l’immoralità o addirittura l’assurdità. Quello che sorprende e spesso disturba è la comune volontà di fare proseliti, di convincere gli altri della validità della propria posizione, impegno che sembra tradire il bisogno di convincere  più se stessi che gli altri. L’immaginazione deve faticare per trionfare e trasformare la finzione in convincimento.

Le due posizioni così forzatamente “esibite” somigliano molto ai due interlocutori del Pensiero 233: per entrambi conta più quello che dicono, sia a parole che a gesti, che quello che realmente sentono. 

 

Anna Marina Storoni Piazza

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