Koinonia Maggio 2023


“IN CERCA DI RISURREZIONE” CON VITO MANCUSO

 

Ancora una volta un articolo di Vito Mancuso attira l’attenzione ed offre la possibilità di un confronto di riflessione, anche se impari sul piano mediatico e di autorevolezza: si tratta di “In cerca di risurrezione” apparso su La Stampa dell’8 aprile, certamente con riferimento implicito alla Pasqua cristiana dell’indomani. Il primo lungo paragrafo dell’articolo merita leggerlo per intero, in quanto offre il quadro di ciò che sta morendo, senza intravedere almeno per ora qualche via di fuga o di risurrezione, che peraltro si vuole cercare

Scrive Vito Mancuso: Il punto decisivo consiste nel chiarire che cosa dentro di noi sta morendo, per comprendere se esiste almeno un po’ la possibilità che un giorno possa risorgere. Sul fatto che qualcosa dentro di noi stia morendo, nessuno, penso, ha più dubbi: lo sentiamo perfettamente, è un rumore sordo e persistente, una specie di basso continuo che ritma funereo le nostre giornate e che deriva dalla consapevolezza delle sempre più incombenti minacce: la guerra nucleare, l’emergenza climatica, lo scollamento tra generazioni mai così profondo nella storia dell’umanità, le abissali sperequazioni tra i pochi superricchi e le masse di diseredati, le migrazioni così massicce di popoli da generare una “deriva dei continenti” di tipo sociale, l’uso dell’intelligenza artificiale assai facilmente trasformabile in abuso, l’ingegneria genetica che corre esattamente lo stesso rischio. E poi c’è quel processo di crescente «infantilizzazione delle masse», per dirla con Amos Oz, che cancella il confine tra politica e spettacolo per cui la gente non vota più chi può governare meglio, ma chi emoziona e diverte, perché questo oggi desiderano i più: essere emozionati, come bambini viziati nel paese dei balocchi. Tutte insieme queste ombre che gravano su di noi costituiscono una tale oscura densità da portarci a dire: «Basta, voglio andarmene da questa via crucis». Ma di fronte a minacce così globali non è possibile scappare da nessuna parte. Perciò torna la domanda: che cosa precisamente dentro di noi sta morendo?

Faremmo bene a rispecchiarci in questo stato di cose e a prendere coscienza del clima culturale che respiriamo, per non subirlo passivamente. Mancuso infatti descrive la situazione storica in cui ci troviamo, delinea anche i tratti di un modo di essere e di pensare in cui ci troviamo coinvolti: lo fa quando parla di quel processo di crescente ‘infantilizzazione delle masse’,  dove conta essere emozionati, come bambini viziati nel paese dei balocchi. Dunque, l’emozione al potere, con la spettacolarità e il sensazionalismo a fare da ancelle. Di qui la cultura consumistica dell’immediato, dell’epidermico, del piacere o meno come criterio ultimo. E quindi la cultura dello scontro più che del confronto, del prevalere più che dell’intendersi, dell’esclusione più che della inclusione ecc…

Dopo una diagnosi così puntuale, ci sarebbe da aspettarsi qualche correttivo a questa deriva di civiltà e di mentalità corrente, visto che si tratta addirittura di distruzione dell’anima e del pericolo mortale che corre. Ma qui si fa avanti lo studioso, che insorge a difesa della esistenza dell’anima, per sottolineare la peculiarità umana, la differenza dell’uomo, dimenticando che di anima si parla in genere come principio di vita ad ogni livello, lasciando intendere che in fondo se ne parla in senso di spirito, di coscienza, di libertà, e cioè come differenza specifica dell’essere umano. Basta intendersi!

Ma sembra che sia proprio questa risorsa di interiorità ad agonizzare, ad essere posseduta o “hackerata”, a perdere la sua creatività e la sua autonomia e quindi ad essere schiava dell’effimero, del funzionale, della gratificazione a buon mercato! Saremmo insomma spettatori impotenti della perdita della nostra umanità, fino a parlare della nostra via crucis di post-umani.

Ma ecco, dopo altre citazioni erudite, il riferimento ad una possibile inversione di rotta rispetto a questa tendenza inarrestabile, non a caso alla vigilia della celebrazione della Pasqua. Ma lo fa in questi precisi termini: Si può credere o no alla risurrezione di Cristo che la Chiesa cattolica celebra domani, ma il simbolo che essa rappresenta va al di là della fede teologica perché rimanda alla speranza e alla visione positiva del processo vitale. E se la malattia di cui soffriamo è la sfiducia in noi stessi, il farmaco che ci potrà curare si chiama fiducia. Quindi basterebbe generare in noi quella fiducia che ci manca e che va  via via scemando. Ma a parte le parole di manzoniana memoria sulla bocca di don Abbondio (“Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”), è evidente che qui siamo ad un cortocircuito difficilmente superabile.

Sì, si fa leva sulle parole veramente risolutive di  Etty Hillesum, che camminando lungo il filo spinato di Westerbork dentro una miseria terribile, confessa che “allora dal mio cuore si innalza sempre una voce - non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare -, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un frammento di amore e di bontà che bisognerà conquistare in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere”. Ma se queste parole dimostrano la possibilità quasi sovrumana di salvezza e di resurrezione quotidiana, questo avviene per una rottura della propria condizione umana, che certamente non può assurgere a principio per arginare il decadimento dell’umano.

Dal punto di vista cristiano c’è da dire che questa possibilità di resurrezione supera il livello personale del Cristo crocifisso, per diventare chance concreta per tutti. Ma mentre Mancuso è pronto a dare valore reale ed efficace alle parole della Hillesum da prendere a modello, alla resurrezione di Cristo è disposto a riconoscere un valore simbolico, al di là del fatto che si creda o meno in lui e al di là della stessa fede teologica, per affidarci “alla speranza e alla visione positiva del processo vitale”. D’accordo che alla resurrezione di Cristo nella carne si può credere o meno: e come “teologo” Mancuso potrebbe spiegarci che è in base a questo che la fede cristiana sta o cade. Ma se non vuole spiegarci questo, si capisce male che si incarichi di prospettare una riduzione simbolica del Cristo risorto, quasi a volerlo accreditare verso l’opinione pubblica che si affida alla sua autorevolezza di teologo ed alla plausibilità del suo discorso.

Dal mio punto di vista, a buttare giù queste annotazioni mi ha spinto una contraddizione  che mi è apparsa a prima vista: Mancuso denuncia lo scadimento  di una cultura ridotta a fatto emozionale e simbolico (estetico in senso lato), ma invece di dirci come rimediare a questo appiattimento mortifero, eccolo applicare alla fede cristiana questo modo di pensare (o di non pensare!) ormai trasversale, riducendola appunto ad immagine e ritenendo di renderla così più comprensibile e condivisibile.

Purtroppo c’è da dire che Vito Mancuso sfonda così una porta aperta, nel senso che ormai anche dentro la chiesa è dominante la tendenza a percepire e comunicare la fede nelle sue variazioni “sensibili” più che nella sua profondità e ricchezza di mistero, che sembra fare solo da sfondo. E questo spiegherebbe come mai il pensiero teologico di Mancuso passi come l’interpretazione più attendibile della fede stessa della chiesa nelle sue manifestazioni pubbliche e nei suoi pronunciamenti formali. Se dunque vogliamo parlare di crisi della fede ai nostri giorni, prima di dire della sua mancanza o rifiuto, c’è da considerare il successo di una fede iconica o iconografica, che soddisfa l’immaginario collettivo  della residua massa religiosa e il senso critico di intellettuali che vogliono salvarla rendendola funzionale al “modo di pensare” in cui siamo immersi: un modo di sentire e di vedere che non compromette soltanto l’”essere umani”, ma che mimetizza il “credere al vangelo”!

 

Alberto B.Simoni op

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