Koinonia Maggio 2023


Nota conclusiva di Bruno Segre al libro di Bruno Hussar

L’ADDIO DI PADRE BRUNO

 

Era l’inizio degli anni Ottanta quando Shai decise di affiancare padre Bruno nel folle sogno di Neve Shalom - Wāhat as-Salām. Assieme alla sua compagna e a pochi altri giovani ebrei e palestinesi, uomini e donne, salì sulla collina a piantare la tenda accanto alla baracca in cui s’era accampato l’amato, carismatico fondatore del villaggio. Uomo di teatro e brillante storyteller, con la sua creatività prorompente Shai offrì per anni un mirabile sostegno al sistema educativo del villaggio: raccontando la pace a getto continuo, ai bambini e agli adulti.

Da quegli esordi pionieristici è trascorso ormai un quindicennio, siamo a metà degli anni Novanta. Shai siede ora in silenzio accanto al lettino nel quale padre Bruno sta vivendo la sua agonia. Il giovane amico vuole stare vicino, come un figlio, al vecchio compagno prima che costui affronti, in solitudine, la morte. Nella mente e nel cuore di Shai brulicano i ricordi più preziosi del magistero di padre Bruno. La pace si fa con il nemico, va costruita e ricostruita sempre, senza sosta, con i mezzi della pace, con gli atti e con le parole, giorno dopo giorno. La pace si può, si deve insegnare.

Quasi inconsapevolmente, Shai rompe il silenzio. Con un filo di voce, rivolto al maestro che sta morendo, gli sussurra: «Bruno, lascia che ti racconti ancora una volta una storia che forse ti piacerà». E prima ancora di chiedersi se Bruno sia in grado di ascoltarlo, inizia a narrargli una favola stupefacente, quella che si intitola «Il vecchio sapiente rabbino e l’abate del monastero».

In una landa desolata dell’Europa trans-carpatica c’era una volta, così dice la storia, un vecchio monastero. In passato, questa grande casa religiosa aveva goduto di una fama larga e meritata poiché tra le sue mura erano risuonate le voci di personalità eccelse, ricche di doti spirituali e di erudizione teologica. Ma da un po’ di tempo la vita dell’istituzione appare illanguidita, sono andate via via esaurendosi le vocazioni di giovani religiosi, e al suo interno sono rimasti, soli e negletti, l’abate e tre meschini monaci. Quale sarà mai la sorte del monastero dopo la loro morte? Con questo angoscioso interrogativo in fondo al cuore, l’abate decide di chiedere consiglio a un vecchio rabbino, noto per la sua saggezza, che vive in solitudine nel bosco, non lontano dal monastero. Lo rintraccia nella sua capanna e subito gli espone tutti i motivi del disagio che lo affligge assieme ai tre suoi amici monaci a cagione della situazione disperata della loro casa. Il’ rabbino lo ascolta a occhi socchiusi, lisciandosi con calma la lunghissima barba. E dopo una pausa dedicata alla riflessione, congeda l’abate dichiarando di non avere alcun consiglio utile da dargli. L’abate prende ad allontanarsi con animo deluso, ma proprio in quel mentre ha l’impressione che il rabbino, bofonchiando, pronunci a fior di labbra qualche parola incomprensibile. Ritorna allora sui suoi passi e, chiesti chiarimenti al rabbino, costui gli rivela d’avere avuto per un attimo un’idea assai curiosa: che l’abate stesso, o uno dei suoi tre monaci, possa essere il Messia. Per quanto stravagante gli appaia questo discorso, l’abate rientra rapidamente al monastero, desideroso di riferire ai tre monaci l’esito deludente del suo colloquio, ma anche soggiungendo che un vago bislacco indizio avrebbe suggerito al rabbino che uno di loro quattro potrebbe essere il Messia. Per i quattro poveri ospiti del monastero, la notte successiva trascorre in preda all’agitazione. Ognuno di loro è ben consapevole di non essere il Messia, ma come poter escludere che il Messia non sia uno degli altri tre? Nell’incertezza, quando il mattino seguente si levano dai loro giacigli, ciascuno saluta gli altri con un rispetto particolare, del tutto inusuale.

Il clima spirituale della casa appare d’improvviso cambiato. Tant’è che, proprio quel giorno, al monastero sostano per riposare e rifocillarsi alcuni giovani monaci che rimangono stupefatti nel cogliere l’atmosfera di rispetto e di amore che vi si respira. Qualcuno, addirittura, decide di stabilirsi per sempre in quel luogo di pace. Coloro che ne ripartono, vanno diffondendo ovunque l’immagine edificante che vi hanno percepito. Molti altri, ancora, incuriositi, vengono in visita al monastero fermandovisi, affascinati dal rispetto e dall’amore reciproco che vi regnano. E in tal modo l’antica casa religiosa si riempie nuovamente di giovani monaci, recuperando in breve tempo l’antico splendore.

Qui finisce il racconto di Shai, e attorno al lettino grava ora un silenzio profondo. Lo rompe all’improvviso proprio padre Bruno, che con voce soffocata dall’affanno dice: «Sei triste, Shai, lo sento. Ma perché sei triste?». «Sono triste, spiega Shai, perché proprio da te, Bruno, abbiamo appreso a guardarci l’un l’altro con considerazione, rispetto e amore [...] E che faremo quando non sarai più con noi?». «Ma io non vi abbandonerò mai». Furono queste le ultime parole che padre Bruno pronunziò prima di chiudere con la vita terrena.

 

Bruno Segre

in Quando la nube si alzava, pp.155.158

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