Koinonia Maggio 2023


Articolo di Mario Pomilio pubblicato su “Il Tempo”  (8/12/ 1975)

A DIECI ANNI DAL VATICANO II

UNA VENTATA INNOVATRICE

 

Non deve allarmare se, affrontando un tema come quello del Concilio a dieci anni dalla sua chiusura, io parto da me: ne dirò presto la ragione, ma si legga fin d’ora la mia come una confessione.

Nel 1954, poco più che trentenne, pubblicai il mio primo libro, L’uccello nella cupola, un romanzo che si poneva nel solco della narrativa del caso di coscienza, anzi un “romanzo cattolico”, come venne subito definito. Ed effettivamente, quanto a temi e sensibilità, non solo poteva letterariamente essere ascritto alla linea del romanzo cattolico europeo del Novecento, ma portava anche nell’intimo gli stampi di una complessa e contrastata formazione svoltasi all’ombra del cattolicesimo preconciliare.

Vi dominavano i temi della perfezione e della salvezza individuali, dell’esame di coscienza, della colpa, della grazia, del pentimento e ne sortiva una visione essenzialmente intimistica e moralistica della esperienza religiosa, con un senso vigile e intransigente del divieto e del “peccato”, con una sottigliezza quasi casistica nella condotta dell’analisi psicologica e un gusto spiccato per i moduli del ripiegamento interiore, in una vicenda che si svolgeva tutta all’ombra del confessionale o, come dice il titolo stesso, della “cupola”, e non escludeva - al contrario! - una cifra di malessere, quel tipico sentimento della clausura morale, o della gabbia spirituale, e quella larga parte data al cosiddetto pessimismo cristiano che erano ancora eredità del cattolicesimo controriformistico e non escludevano, per chi li vivesse, uno stato di disagio e di dissenso con se stesso. Ricordo che Primo Mazzolari rimproverava a quel libro la mancanza del senso della parrocchia. E in realtà nel protagonista, un sacerdote, prevaleva il rigorismo del direttore di coscienze, e quasi del giudice.

Beninteso, non rinnego quella mia prima esperienza, che ritengo tuttora letterariamente valida. Ma chi leggesse, al confronto, il più recente mio romanzo, Il quinto evangelio, avrebbe certo l’impressione che quanto a sensibilità religiosa siano passati molto di più dei vent’anni che intercorrono tra l’uno e l’altro, talmente nell’ultimo l’ottica appare mutata e alle penombre e all’intimismo si è sostituita la predilezione per la grand’aria e gli spazi esterni, e ne risulta estromesso ogni residuo casistico, e ridotta la originaria sottigliezza moralistica e certo sentimento umbratile e introverso dell’esperienza religiosa, e attenuata la vigilanza sul tema del “peccato”, e in particolare di quel tale “peccato della carne” su cui per secoli si è spossata la coscienza cattolica. Il “male”, il “peccato ne Il quinto evangelio, sono semmai altrove, sono nell’aridità, nella assenza di carità, nell’oppressione e diniego di libertà, nell’assenza di tensione spirituale e in tutto ciò che provoca arresto e chiusura e blocca una vita morale creativa e fervida.

Ma non è comunque il “peccato” nel convenzionale senso cattolico il centro tematico del libro, il quale anzi segna il rifiuto d’ogni contrazione rigoristica e perfino del tradizionale “pessimismo cristiano” in nome d’una franca nozione della speranza e di un modo diverso, non più umbratile ma “societario” (“comunitario”, suol dirsi ormai) di vivere il cristianesimo. È quello del confronto del Vangelo col mondo, e del cristiano con la storia, il tema dominante del libro: è quello della ricerca, e dell’impazienza, della inquietudine, perfino del rischio della ricerca, è soprattutto quello della testimonianza: del Vangelo da recuperarsi di continuo alle radice, se non da rivivere, da riproporre di continuo. Era inevitabile che un libro cosiffatto accogliesse l’eco di quanto fermenta oggi, in questa età postconciliare, incluse le voci del dissenso: accoglie infatti l’istinto ecumenico, l’esigenza libertaria, il bisogno di essere nel mondo e col mondo, mette all’attivo della storia del cristianesimo certi movimenti innovatori o pauperistici e perfino certe istanze ereticali del passato, vagheggia un nuovo modo di vivere il sacerdozio, dà un posto di spicco all’universalità dei credenti e in ogni caso rompe con la tradizionale distinzione tra “clero” e “laicato” e quant’altro era connesso alla vecchia distinzione tra “pastore” e “gregge dei fedeli”.

Sarà parso molto immodesto, lo ripeto, che in un discorso intorno al Concilio io abbia esordito parlando così a lungo di me. Ma ne sarò, spero, scusato se appena si considera che non c’è da parte mia alcuna esplicita vanità, ma solo l’intenzione di propormi come una specie di test, come una prova, sia pure al minimo, di quanto profondamente il Concilio ha operato nella nostra visuale religiosa e nella nostra stessa sensibilità. Si sa, voglio dire, quanto i tempi della letteratura siano lunghi rispetto a quelli della cronaca e della stessa storia. Ora, che uno stesso scrittore, nell’arco di così pochi anni, sia potuto approdare a una revisione così radicale delle sue tematiche, della sua sensibilità e, in qualche misura, delle sue stesse attitudini letterarie, che in altri termini egli abbia potuto offrire (valgano quel che valgano) due romanzi, di cui l’uno ancora lontanamente “controriformista” e l’altro tutto francamente postconciliare dimostra, credo a sufficienza, quale ventata innovatrice sia stata il Concilio, come cioè esso non sia rimasto un fatto istituzionale, una specie di grossa costituente della Chiesa, e sia andato invece a fondo, trasformando anche gli uomini.

Il discorso dovrebbe giustamente allargarsi ad altri che a me e percorrere l’intero universo post-conciliare alla ricerca di esempi che mettano in evidenza la nuova anima del cristianesimo. E di sicuro non scarseggerebbero. Dovrebbe anche, giustamente, lumeggiarne altri aspetti. Ma su queste stesse colonne appena alcuni giorni fa Svidercoschi ha offerto un panorama così esauriente di tutti i mutamenti introdotti dal Concilio da esimermi dal battere la sua stessa strada se non al massimo per aggiungere che s’è trattato d’una delle più straordinarie - e inaspettate - rivoluzioni spirituali del nostro tempo, certo la più coraggiosa e profonda visto il fervore che ha suscitato, i lieviti che ha messo in circolazione, l’aria di nuova giovinezza penetrata nel mondo cattolico nonostante, e, talora in virtù, degli stessi elementi sconcertanti o contraddittori che ha fatto emergere e la radicalità dell’esame di coscienza e del rigetto di vecchi errori.

Basti pensare, al confronto, a quanto più frenato, più guidato, più svogliato, più parziale, meno libero e persuasivo è stato negli stessi anni, a partire dalla destalinizzazione, l’esame di coscienza e il processo di revisione all’interno dei vari marxismi. Certo è che il revisionismo non ha fatto emergere un tipo di marxista sostanzialmente nuovo: mentre dal Concilio è scaturita non solo un’altra Chiesa ma un altro tipo di cristiano. E si potrà, naturalmente, essere turbati dalle contraddizioni, che attraversano il mondo cattolico e restare stupiti del venir meno della sua tradizionale compattezza; si potrà inoltre restare sconcertati, per restare al solo settore intellettuale, di fronte alle proposte delle cosiddette nuove teologie e a certi loro esiti. Ma è assai probabile che, quando si farà la storia del pensiero dei nostri anni, si dovrà riconoscere che, di fronte alla tranquilla scolasticità delle altre filosofie, quella cristiana è l’unica veramente in movimento. Riflettendoci bene, le tranquille certezze ideologiche e filosofiche sono tutte altrove, presso i settori non cristiani, presso i quali la cancellazione delle esigenze metafisiche comporta un curioso dommatismo della negazione, un agnosticismo tutto in orizzontale, un rifiuto dei rischi speculativi e al limite un mare di coscienze pacificate.

Al contrario quello cattolico è tutto mosso e fermentante e, sì, tutto rischi, ma anche tutto aperture. O altrimenti, in un tempo d’angustie ideologiche, di parole d’ordine, di slogan, di semplificazioni, di fanatismi, resta l’unico luogo dove l’uomo continui a interrogarsi secondo una prospettiva che non ne deprime la complessità. Ciò per limitarmi, ripeto, al solo settore intellettuale. Ma come ignorare la straordinaria “invenzione” di vita cristiana (in poche altre epoche se n’è veduta l’uguale) che si registra oggi in tante direzioni e a tanti livelli?

Inevitabilmente un simile quadro, che ho di proposito tratteggiato al positivo, ha anche i suoi risvolti e le sue molte ombre, a cominciare (mi limito anche qui a un solo caso) da certi febbrili aggiornamenti che senza dubbio sono la conseguenza del fermo di troppi anni e rispondono a una benefica urgenza d’uscire dai ghetti culturali in cui il cattolicesimo si era barricato, ma comportano sovente una vera e propria perdita d’identità. Il cristiano si aggiorna, si allinea ad altre culture e spesso ad altre ideologie, ne sposa umilmente le ragioni e il linguaggio, ma capita spesso che, indipendentemente da una immutata e sicuramente sincera professione di fede, debba segnare in perdita proprio la sua fisionomia di cristiano. È il pericolo maggiore, in quanto lungi dall’assomigliare a una delle operazioni sincretistiche cui il passato ci ha fatto assistere, denunzia in più casi una condizione di minorità, da cultura subalterna.

Il discorso tocca in particolare i cosiddetti cattolici del dissenso, il cui problema non è certamente quello politico della milizia in partiti diversi da quello tradizionale dei cattolici (decisione a mio parere altamente rispettabile e che fa parte delle libertà statuite dal Concilio), ma quello spirituale di quanto essi sono destinati a portare ovvero a perdere all’interno di tali partiti. E cioè: il cattolico vi aderisce con la speranza di permearli dei valori nei quali crede, e propriamente di “cristianizzarli”? E si spende in tale direzione, si adopera a “convertire”? Non so se accada spesso. Solitamente egli entra in quelle tali formazioni politiche con l’entusiasmo tutto cristiano dell’operaio della terra che vuol cooperare a cambiare il mondo. Ma per ora non gli si domanda tanto: basta che dia la propria anima. Ed eccolo spesso, infatti, cambiare linguaggio, mentalità, prospettive spirituali, filosofia, eccolo insensibilmente lui “convertito” ad altre visioni del mondo, addirittura con quel tanto di ardore in più che gli proviene dalla sua fondamentale religiosità e che rende di nuovo “religiosi” il suo impegno politico e la sua testimonianza.

 

Mario Pomilio

in Il quinto evangelio, Bompiani 2022, pp. 443-48

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