Koinonia Maggio 2023


QUALE SPERANZA OGGI PER IL MONDO?

 

Per rispondere a questa domanda non posso che partire dal punto di vista della fede, e la fede non spera semplicemente in un miglioramento del mondo, ma nella sua salvezza, poiché Dio è questo che ci ha promesso: Gesù è nulla di meno che “il salvatore del mondo” (Gv 4,42).

Ma la domanda che qui ci si pone, non può prescindere ormai, nemmeno dall’affermazione di Heidegger nella sua famosa intervista a Der Spiegel nel settembre del 1966: “Ormai solo un Dio ci può salvare”. Ed era uno che la sapeva lunga circa le possibilità che il mondo ha avuto sin qui di salvarsi, senza in nessun modo riuscirci. Ed è tanto più significativo questo se si pensa che quello da cui egli partiva era una sorta di convincimento post cristiano, pagano, attraverso il quale indicava la capacità di “preparare”, nel pensiero in particolare, una “disponibilità all’apparizione del Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo)”. Una possibilità estrema, che può scaturire soltanto dalla consapevolezza del nostro andare verso il tramonto dopo l’ennesimo fallimento. Molto simile al grido di Pietro a Gesù: “Signore, salvami!”, mentre affonda senza rimedio dopo avercela messa tutta per camminare da solo sull’acqua (Mt 14,30).

Dunque una possibilità di fede che può scaturire soltanto sperando “contro ogni speranza”, proprio come Abramo, che credette quando le possibilità di sperare erano ridotte all’osso (Rm 4,18-21). Non spera più nulla chi si riduce a star comodo nella sicurezza delle proprie ragioni e nemmeno in quella delle proprie convinzioni religiose: molto sicuri della propria religiosità erano coloro che hanno mandato a morte il Signore duemila anni fa. E il grande pericolo per noi oggi, evidenziato da Heidegger, è il sistematico  funzionare e andare avanti delle cose che siamo riusciti a costruire nel mondo: “Questo è appunto l’inquietante – diceva -, che funziona e che il funzionare rimanda sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra”. E, aggiungiamo noi, dal Dio di Gesù Cristo e dalla fede nella sua salvezza. Fede che sta oltretutto, paradossalmente, alla base della spinta che ha portato al funzionamento stesso della tecnica e di quelle tendenze che hanno condotto l’umanità alla pretesa di salvarsi da sola.

Ma vi è, alla luce di quanto stiamo dicendo, una deriva tra le peggiori per la fede, quella di avere abbandonato non soltanto l’attesa della salvezza promessa da Dio, e dunque la fede, ma persino la forza di pensare queste cose, di porci domande attorno al significato profondo di quanto sta accadendo durante questi nostri giorni. Ed è una deriva che coinvolge credenti e non credenti, poiché la speranza di uscire dal gorgo riguarda tutti: se cade la bomba tutti si finisce annientati.

Anche autorevolissimi uomini di Chiesa, hanno da tempo evidenziato come il vero problema oggi sia quello del venir meno di una fede che sia adulta e capace di senso critico espresso con libertà, con la forza di scandalizzarsi di fronte a quanto accade. Un problema, questo, certo dovuto alla stanchezza e alla delusione di chi ha ormai rinunciato da tempo ad attendere quella salvezza che soltanto Dio può portare.

Ma, per quanto riguarda lo specifico della fede, che non ha nulla a che fare con l’impegno politico e morale, si percepisce forse un eccessivo rimboccarsi le maniche quasi fosse ormai tutto finito in mano nostra il miglioramento di questo mondo, dopo avere del tutto rinunciato all’attesa della salvezza del mondo da parte di Dio. Facile è imbattersi in uomini di Chiesa che con il loro impegnarsi finiscono più o meno esplicitamente per dire: ‘Diamoci da fare perché se non lo facciamo noi nessun miracolo ci verrà dal cielo!’. E questo con le migliori intenzioni naturalmente, citando magari il Vangelo che dice che ciò che si fa a un povero è come se lo si facesse a Dio stesso, poiché in quel momento nessun’altro, nemmeno Dio può fare quello che noi siamo chiamati a fare. Ed è verità sacrosanta, intendiamoci, che però può portarci a quella deriva a cui facilmente si arriva, quella di considerare “‘dio nostro’ l’opera delle nostre mani” (Os 14,4), sostituendo col nostro operare l’annuncio della salvezza che solamente da Dio può venire.

Il compiaciuto compiere il proprio dovere può condurci nelle grinfie di quel “mistero dell’iniquità”che era “già in atto” fin dai giorni di Paolo e che è da allora certo aumentato nella sua potenza di seduzione e di male, potenza che non può essere affrontata se non restando fedeli all’attesa del ritorno di Gesù, che “lo annienterà con lo splendore della sua venuta” (2Ts 2,7-8). Una fede che per noi dovrebbe costituire l’unico “fondamento” (Eb 11,1) capace di farci giungere alla salvezza eterna, una fede che proprio riducendosi al minimo e in pochissimi, riuscirà alla fine, dice Agostino, “con l’aiuto della grazia di Dio e mediante la riflessione sulle Scritture, ove si trova fra l’altro anche il preannuncio della fine di cui avvertono ormai l’avvento” a renderli “ancora più determinati a credere” (La città di Dio XX 8,3).

Il mondo che non attende più la salvezza promessa da Dio, è un mondo destinato a perdizione eterna. Dio vorrebbe salvare tutti, ma non riuscirà a salvare chi nemmeno più conosce e dunque nemmeno desidera di essere salvato. “Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi” (Gv 17,9). Una verità questa che deve da noi essere accolta con la massima serietà, soprattutto al pensiero che a dirla è quello stesso Dio che “ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio” (Gv 3, 16-18).

Dio alla fine potrà soltanto soffrire, forse in eterno, per quella gran fetta d’umanità dalla quale non riesce assolutamente a farsi comprendere e amare. Il peccato del mondo non consiste nel nostro essere ciechi, ma nella nostra pretesa di vedere e di salvarci da soli (Gv 9,41). I veri nemici non sono tanto quelli che, mentre quell’uomo “di nobile famiglia” si assenta “per ricevere il titolo di re e poi tornare”, nascondono la moneta da lui ricevuta “in un fazzoletto”, ma coloro che anziché attenderne il ritorno mandano a dirgli: “Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi” (Lc 19,11-22).  

Per noi deve assolutamente restare valido l’antico invito a non ritrovarci con un “cuore perverso e senza fede che si allontani dal Dio vivente”. Una battaglia dunque di “ogni giorno, finché dura questo oggi”, diventando “partecipi di Cristo a condizione di mantenere salda fino alla fine la fiducia che abbiamo avuto fin dall’inizio” (Eb 3,12-14). La salvezza che sta davanti a noi oggi, da attendere in ogni momento fino all’ultimo giorno, necessità della fedeltà a una promessa che ci è stata fatta fin da principio: fede è fedeltà a quanto è venuto prima di noi, quando ancora noi non c’eravamo. Qualcosa a cui restare fedeli col cuore prima di tutto, un cuore tenero e docile a quanto Dio riesce ancora a dirci nel nostro oggi attraverso la testimonianza di coloro che ci hanno preceduti.

La pretesa di autonomia della “coscienza moderna”, ha finito per coinvolgere profondamente anche i credenti. “Le realtà religiose, Dio e il suo Regno, esperite, accettate e rese contenuto del proprio agire, sta sotto il suo influsso”, ha detto già da tempo Romano Guardini. E “questo è in grado di distruggere ogni atteggiamento positivo verso la Rivelazione cristiana”. Fino a farsi addirittura “sentire anche là dove la fede resta salda”, fino a influire “nel pensiero e nel sentimento del credente deciso a credere e genera le difficoltà religiose specifiche di questa età moderna, che si assommano nella domanda: possono ancora sussistere la Chiesa, l’Incarnazione, la Rivelazione, e insomma il Dio santo e personale in esse implicito, se il mondo è così come viene pensato nell’età moderna?” (Mondo e persona).

La potenza di seduzione che circola oggi nel mondo non s’è mai vista prima sulla faccia della terra, abbiamo ormai strumenti che diffondono ogni genere di messaggi e immagini a continua portata di orecchie e di occhi, anche dei nostri bambini. Ma se è per questo anche gli strumenti di distruzione di massa hanno raggiunto livelli mai visti, tanto che le atomiche di Hiroshima e Nagasaki potremmo ormai considerarle come cosa da poco. Ma quel ch’è peggio è che alla fine ci si abitua a tutto, come davanti a questa guerra mondiale che si sta combattendo da tempo in questo nostro oggi.

Nei cristiani non può esserci il disprezzo del mondo, come lo avevano per esempio gli gnostici; e nemmeno quel distacco che porta all’indifferenza, come in certe spiritualità che ci vengono dall’oriente. No, essi vivono invece nel mondo come tutti gli altri, considerando come un dono la vita e le cose che sono in questo mondo, che vengono da Dio e che sono destinate a essere salvate da Dio.

E tuttavia essi non si rivolgono al buon funzionamento di questo mondo come se non ci fosse altra possibilità oltre a quella che ci viene offerta qui e ora dalla scienza e dalla tecnica. Il loro cuore è invece tutto rivolto a Dio e alla vita di quel mondo che verrà e che è stato promesso da Dio in Cristo, colui per mezzo del quale tutto è stato fatto, come ci dice nel suo inizio il vangelo di Giovanni. Perciò essi vivono ogni cosa di questo mondo e in questo mondo “come se non” (1Cor 7,29-31) la vivessero,essendo essi nel mondo come “lievito” affinché tutto lieviti (Mt 13,33), introducendovi sì potenza, ma una potenza che viene da Dio, che tutto alla fine compirà con la venuta del suo Regno. Una potenza che il credente vive con umiltà dentro di sé e che a volte è persino costretto a nascondere vivendola in solitudine per riuscire a custodirla fino alla fine, di fronte a chi perseguita, o a chi fa orecchie da mercante dando tutto per scontato, senza più attendere nulla da Dio, senza avere compreso nulla di Dio e della sua salvezza. Ritrovo un pensiero che Alberto Gallas espresse già oltre vent’anni fa poco prima di morire: “Perché nella cristianità torni a sussistere la possibilità di credere, bisogna prima riconoscere che in essa non si crede più” (Fine della cristianità?).

Vero dramma per la fede è quando le cose dette da Gesù e dal Nuovo Testamento duemila anni fa, vengono del tutto dimenticate e nemmeno vedute proprio quando si fanno sempre più evidenti davanti ai nostri occhi, proprio quando la ricerca di “pace e sicurezza!” (1Ts 5,3) avviene in mezzo a quelle grandi ingiustizie di cui tutti sanno ma tutti fanno finta di non sapere, quando proprio quel voler rassicurarci a ogni costo può come non mai contribuire al disastro e alla perdizione, anziché alla salvezza promessa da Dio.

 

Daniele Garota

.