Koinonia Maggio 2023


È proponibile in Italia “l’utero samaritano”?

 

“L’utero in affitto” prevede, in sostanza, la stipula di un contratto che impegna una donna a lasciarsi fecondare, oppure lasciarsi impiantare un ovulo già fecondato, e, in ultimo, a consegnare ai committenti il bimbo partorito rinunciando ad ogni diritto di madre. “Utero in affitto” si mostra, a mio parere, una definizione insufficiente perché fissa il suo significato sul solo “organo incubatore”, trasformato in “oggetto commerciale” disponibile sul mercato globale, esulando dall’impegno prestato dall’interezza di mente e corpo della donna, anzi dalla persona-donna in ogni suo aspetto a partire dalla vita affettiva, sociale, valoriale...

Un contratto equiparabile ad una sorta di “prestazione professionale in vivo” che prevede addirittura, oltre al pagamento per la prestazione, il rimborso delle spese documentate, la totale assistenza medica prima, durante e dopo il parto, e un’assicurazione universale anche a distanza di tempo se i problemi dannosi insorti siano riconducibili al processo generativo e alla sua conclusione.

Dunque una stipula contrattuale in piena regola, equiparabile all’affitto concordato e al comodato d’uso, i cui attori sono i committenti, la donna surrogante, l’agenzia di intermediazione che gestisce e garantisce l’intera procedura, comprese le molteplici mobilità e permanenze all’estero, in collaborazione con studio legale e casa di cura che si fanno carico e garanti dell’elaborato contrattuale, della fecondazione artificiale e dell’assistenza più ampia possibile per ogni contraente.

Da notare che il contratto non prevede, anzi esclude, l’appellativo di “madre” mentre, nel contempo, afferma che la surrogante è informata pienamente dello scopo contrattuale e che accetta pienamente la clausola secondo cui mai potrà far valere alcun diritto genitoriale e che l’oggetto del contratto non consiste nell’acquisto di un bambino né nella sua adozione e che concluso l’intero iter diverrà attivo il principio inviolabile del “diritto all’oblio” per sempre e per ogni stipulante e parentato.

Ma, la materia trattata può legittimamente essere assimilata alla teoria sociale dei contratti e i contraenti, surrogante e committenti, possono assumere le vesti di “individui economici”, a parte le ragioni etiche e morali derivanti dall’evidente sfruttamento delle capacità riproduttive di donne povere che vivono in contesti poveri, per soddisfare esigenze e desideri individuali e di coppia?

A mio pare no!

In caso affermativo perderebbe di significato la legge del 20 febbraio 1958 n. 75: “L’esercizio della prostituzione è vietato in luoghi pubblici o aperti al pubblico…”.

E ancora: è lecito realizzare tutto quanto sia fattibile sul piano meramente biologico e clinico, sebbene regolamentabile nella nostra società liberale?

La risposta, a mio parere, è no!

Un esempio pregnante: la donazione di rene da vivente è consentita, non per ragioni biologiche e cliniche, soltanto tra consanguinei, fra persone affettivamente correlate e fra persone senza correlazioni se con atto del tutto libero, consapevole, informato e gratuito. In questo caso prende corpo e si attualizza la parabola del “buon samaritano” (Luca 10, 25-37).

Infatti, la donazione in Italia è regolamentata dalla Legge del 26 giugno 1967 n.458 e dai protocolli scaturiti dalla Conferenza Stato-Regioni del 31 Gennaio 2002.

La medesima legge sui trapianti potrebbe ispirare la regolamentazione della gravidanza a favore di terzi desiderosi di una figliolanza, ma impossibilitati, per varie ragioni, a poterne avere.

 

Francesco Domenico Capizzi

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