Koinonia Aprile 2023


COSA RESTA DA DIRE E DA FARE PER UNA DIVERSA ESISTENZA CRISTIANA

 

In un incontro organizzato da Francesco Domenico Capizzi a San Lazzaro di Savena per conto della SMIPS, la conversazione si è sviluppata a partire dalla lettura della Postilla del volume di Giancarlo Gaeta “In attesa del Regno. Il cristianesimo alla svolta dei tempi” (Quodlibet 2022), postilla che riportiamo in IV di copertina. Interlocutore del dialogo era l’autore del libro. Ho avuto modo di seguire a distanza questo incontro, e mi viene spontaneo riallacciarmi a questo momento per riprendere le fila del discorso, in quanto segna l’orizzonte in cui ci stiamo muovendo verso la necessaria metamorfosi del Crisianesimo, della Chiesa, e in ultima analisi della stessa fede. Come già ho avuto modo di dire, il testo di Giancarlo Gaeta - insieme ad altre sue opere - è sì di uno studioso e storico del cristianesimo come categoria “accademica”, ma non si chiude in se stesso come ricerca compiuta: rimane teoricamente aperto ad ulteriori approfondimenti, e soprattutto si offre come testata di ponte per delle scelte di vita. È sulla stessa lunghezza d’onda sulla quale possiamo sintonizzarci nel nostro  tentativo di essere embrioni di un modo diverso di essere cristiani e chiesa in modo “secolare”. Non basta continuare a citare Bonhoeffer, se poi si rimane al palo di partenza!

Una ipotesi di lavoro che nasce dagli spunti e dagli stimoli del volume è che un “cristianesimo secolare” non va inteso come residuo della secolarizzazione del credere o come conformazione ad essa delle sue forme storiche da dismettere o da assumere: semmai come generazione di una fede che ritrovi la sua forza di credere al vangelo, quale cioè il vangelo genera e richiede, al di là di apparati e di mediazioni che devono restare tali e funzionali. Prima di fare qualche considerazione sulla “Postilla”, nell’insieme degli scritti di G.Gaeta il nucleo vitale ed originario del Cristianesimo trova la sua risoluzione nella sostanza della fede evangelica, da cui possono ripartire un discernimento e una ricostruzione  dell’esistenza credente nel mondo: operazione non accademica o a tavolino, ma frutto di esperienza condivisa di fede. Non bastano più proiezioni, ideazioni, dichiarazioni di intenti, progettazioni avveniristiche, se mancano una base e un riscontro di ricadute comunitarie. Non è da escludere che queste manchino perché impedite, ma anche in questo caso non ci si può esimere dal maturare una impostazione mentale di vita e di azione  nelle condizioni date.

Più che di esplorazioni e approfondimenti settoriali, è il momento della sintesi e delle convergenze. Sì, per quanto riguarda le mete sognate siamo dei naufraghi aggrappati a rottami come a zattere dopo ripetuti naufragi che hanno richiesto continue ripartenze in un esodo inevitabilmente accidentato. Le pure e semplici idealità  iniziali non sono state più sufficienti per riprendere via via la rotta: non c’è più un ipotetico orizzonte ideale verso cui incamminarsi, quando invece è richiesto l’impegno  finale di approdo al porto della speranza.

Non sono mancate in questi anni mappe e bussole per la navigazione, e magari descrizioni di terre promesse, ma quello che dovremmo vedere sono le realizzazioni che ci sono state qua e là, che però son diventati piccoli orticelli per culture speciali, mentre il campo comune è rimasto incolto e privo di operai: mentre tutto il sistema  rimaneva uguale a se stesso, a parte modificazioni esterne non incisive nelle coscienze, sono nate oasi di spiritualità che hanno  prosciugato  il corso del fiume  per diventare riserve o nicchie di spiritualità specifiche. D’altra parte, proposte sistemiche alternative si sono infrante sulla realtà esistente costituita, capace di assimilare le novità esterne di quelle proposte: è stato come contrapporre a solidi blocchi soluzioni liquide.

L’icona biblica della via percorribile rimane quella di David e Golia, che trova in queste parole di Paolo la sua didascalia: “Ma Dio ha scelto le cose pazze del mondo per svergognare i savî; e Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti; e Dio ha scelto le cose ignobili del mondo, e le cose sprezzate, anzi le cose che non sono, per ridurre al niente le cose che sono” (1Cor 1,27-28). Sempre Paolo ci dice quale è l’armatura di Dio da assumere in questa lotta, perché di lotta si tratta, non ”contro”  ma ”per”: “State dunque saldi, avendo presa la verità a cintura dei fianchi, essendovi rivestiti della corazza della giustizia e calzati i piedi della prontezza che dà l’Evangelo della pace; prendendo oltre a tutto ciò lo scudo della fede, col quale potrete spegnere tutti i dardi infocati del maligno. Prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la Parola di Dio” (Ef 6 14-17).

Volendo dunque vedere “cosa resta” nel confronto tra cristianesimo solidificato e cristianesimo nascente, non possiamo disattendere che “queste dunque (sono) le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!” (1Cor 13,13). Ed è da qui che è necessario ripartire, da quella che chiamiamo “vita teologale” o esperienza di fede. Ma questo non vuol dire che tutto si consumi in fatto interiore, quando invece è proprio in una nuova emanazione e incarnazione storica del credere della chiesa che la fede acquista una sua visibilità e una capacità di comunione e di trasmissione. Ma bisogna che questo “credere” di Popolo di Dio ci sia e sia coltivato come tale, prima che come fatto cultuale, rituale, devozionale o confessionale a sfondo individualistico. Dove il credere ha una sua novità e irriducibilità nel fatto che Dio “in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato i mondi” (Eb 1,2). Niente di più inaudito e grandioso! Ed è ciò che bisognerebbe ritrovare “sotto le macerie di una grande costruzione religiosa  nella società che non ne vuol più sapere”.

È un’operazione di destrutturazione e di ricostruzione alla quale dedicarsi a tempo pieno e a lungo. Stando alla “Postilla” di Giancarlo Gaeta, ciò che resta del Cristianesimo in questa cernita - “Egli ha in mano il suo ventilabro per ripulire interamente la sua aia…” (Lc 3,17) - è in primo luogo “ciò da cui esso ha preso origine, la fede in un mutamento”. E il primo mutamento è il salto di qualità che avviene quando all’orizzonte appare la fede stessa come nuova chance e grandezza di vita! E in questo orizzonte è possibile uno “sguardo che redime nel presente l’immane cumulo di dolore del passato”: è come soffrire le doglie di un nuovo parto di tutta la creazione nella libertà dei figli di Dio.

Riemerge inoltre il punto di sutura tra cielo e terra, tra sacro e profano, in cui il mondo della grazia e della verità  si sposa con l’esistenza quotidiana e non è più un mondo separato a sé: questo non annulla la distinzione reale  dei due mondi, che però sono insieme una “nuova creazione”. È quel di più “insospettato” che però non è soltanto patrimonio naturale ereditato passivamente, ma è appannaggio dei violenti che si impadroniscono del regno dei cieli (cfr. Mt 11,12), dove quindi interviene una cooperazione natura-grazia.

Tutto questo per quanto attiene ad un nuovo soggetto di fede - singolo o ecclesiale che sia.  Se poi guardiamo al nodo cruciale della trasmissione della fede, “a chi officia il Vangelo resta il compito di renderlo palese agli ultimi della terra”:  il Vangelo c’è da farlo risuonare  in modo che raggiunga tutti a partire dagli ultimi della terra, ed in modo tale che i poveri diventino l’anima del Popolo di Dio e siano essi a sfidare l’arroganza di una civiltà “superiore” nel  segno e con la forza dell’Agnello immolato: quindi attraverso  una esperienza e comunicazione di fede estremamente esigenti.

Tutto questo grazie alla potente invocazione “insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro” (1Cor 1,2).  E che in ultima analisi è il compimento della storia, quando sarà manifesto il giudizio di chi ci dice “sì, verrò presto!”.  E a noi non rimane che dire: “Amen. Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20).

 

Alberto B.Simoni op

.