Koinonia Aprile 2023


DIECI ANNI DI SOLITUDINE

 

Per i dieci anni di pontificato “francescano” sembra che tutti si siano fatti un dovere di dire la propria da punti di vista contrapposti, anche se è mancato l’abituale “santo subito”. Da parte nostra non c’era nessuna intenzione  di entrare nel coro o della esaltazione o della denigrazione, per il semplice fatto che abbiamo seguito anno per anno Papa Francesco nel suo magistero pastorale, e non ci rimane che accompagnarlo nel suo cammino ecclesiale, nella costatazione di uno scollamento tra lui e la sua chiesa. Potendo anche dire che a segnali e pronunciamenti non ha fatto seguito una vera e propria strategia di riforma, che rimane da gestire e da partorire nel grembo del Vaticano II come profezia.

Il quadro che emerge dagli interventi è l’enfasi di una riforma del tutto inedita e promettente, salvo poi ammettere che tutto è rimasto inattuato o disatteso, per cui saremmo punto e a capo: evidentemente si guarda alle novità di comportamento e di linguaggio rispetto a pontificati precedenti, o si tiene conto di immagini di chiesa evocate in stile con i tempi, che però restano il sogno di sempre, per cui la frattura tra immagine ideale e chiesa reale lascia tutto nel suo immobilismo immodificabile. Pertanto non sarebbe proprio il caso di addentrarsi nella ridda di valutazioni e di giudizi funzionali a schematismi preconcetti di segno diverso sulla figura del Papa in versione Francesco. Come se tutto fosse lì, in un rigurgito di “papolatria”.

Quello che invece  rimane opportuno fare è dirci come noi abbiamo vissuto e accompagnato questo pontificato ancora del tutto aperto, nella speranza di fare passi avanti verso una “Chiesa fatta Popolo” e non più soltanto Chiesa per il popolo, considerando anche la provenienza di Bergoglio dall’America latina. E per la verità questa speranza nasce dalla Esortazione apostolica che Papa Francesco ha promulgato dopo il Sinodo sulla evangelizzazione  il 24 novembre del 2013: l’Evangelii gaudium. Avevamo puntato su questo documento come possibilità di ripresa organica del cammino conciliare e di trasformazione del tessuto base della chiesa esistente. Era l’operazione sottesa alla formula di “conversione pastorale” lanciata da papa Francesco proprio in questo testo, ma rimasta formula.

La sordità e la resistenza a questa chiamata di ripresa globale del Vaticano II  ci sono state  su tutta la  linea, e la presa di distanza dell’episcopato italiano era macroscopica. Ma sembra che ci sia stata una rinuncia dello stesso Papa Francesco a questo programma pastorale del suo pontificato, per cui l’esortazione è diventata ancora per un po’ di tempo oggetto di studio e di tematizzazione  ideale ma non di prassi effettiva. Si direbbe quasi che papa Francesco si sia rassegnato a mettere in pratica lui quanto proponeva alla chiesa intera. Ma a questo punto la sua diventava più una testimonianza che azione di governo, per portare il corpo ecclesiale a modellarsi secondo il vangelo per il servizio del vangelo. Tutto appare opzionale e magari originale, per non vedere il vero problema di fondo.

Date anche le situazioni storiche via via emergenti, sembra che la preoccupazione del Papa sia andata di preferenza a problematiche umanitarie, sociali e all’urgenza della pace, certamente dietro ispirazione evangelica e di fede, ma senza partecipazione e condivisione di una chiesa ripiegata più che mai su se stessa e avvolta nei suoi incensi. Di fatto questa indefessa testimonianza  di Papa Francesco è stata colta dall’opinione pubblica con favore nelle sue dimensioni storiche, mentre ha trovato un certo fastidio nel contesto ecclesiale concentrato sempre più nel suo cultualismo e nella sua autosufficienza. Per cui la frattura tra fede e storia è solo apparentemente risolta, ideologicamente per un verso, spiritualisticamente dall’altro, attraverso un accostamento fattuale, ma non unitario. Questo spiega come egli sia espressione di vertice di una “chiesa in uscita” dentro una chiesa di base rintanata sulle proprie abitudini grazie alle sue rassicuranti strutture di sempre, che la irretiscono. Papa Francesco ha espresso una chiesa proiettata idealmente in avanti, ma di fatto bloccata dentro, là dove  una “conversione pastorale” dovrebbe aver luogo “in capite et in membris”.

Stando così le cose, non abbiamo sentito la spinta a fare nostre in tutto e per tutto le scelte pratiche di Papa Francesco, né a rassegnarsi alla giustapposizione tra la sfera della fede e quella  del mondo. Per questo rimaniamo sospesi all’istanza conciliare di una fede che sappia essere “politica” in quanto fede e non sia accreditata come fede per le sua ricadute politiche. Questo vuol dire rimanere aperti ad una risoluzione unitaria e globale della “chiesa nel mondo”, non posticcia e non pasticciata, dove un nuovo soggetto di fede sia intrinsecamente messianico, profetico e sacerdotale, e non solo sacerdotale con addentellati accessori di messianismo e di profezia. Non importa se questo “nuovo Popolo di Dio” ha sempre da nascere, ma non si può far finta che sia già nato o che in fondo non sia necessario. È questo l’aratro a cui abbiamo messo mano e non ci rimane che spingerlo in avanti.

Questo vuol dire che non abbiamo alternative  da affiancare all’esistente, progetti avveniristici di facile ma transitorio consenso, né guardiamo a formazioni di gruppi a finalità aggregative, ma abbiamo solo la disponibilità di noi stessi, con la convinzione e la passione di “afferrarci saldamente alla speranza che ci è posta davanti” (Eb 6,18). Se è vero che tutte le nostre iniziative e azioni esteriori mirano a creare in noi l’uomo nuovo - “creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,24) - allora è anche vero che possiamo parlare di un “corpo spirituale” nella comunione, così come giuridicamente si parla di corpo morale. Infatti, “se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale” (1Cor 15,44). E noi siamo come in un crogiuolo per divenire questo corpo!

Non abbiamo parametri e modelli esteriori a cui conformarci per essere accreditati; non abbiamo obblighi e ruoli istituzionali da rispettare. Ma non possiamo nasconderci che una crescita interna di comunione sia sempre possibile e in atto, nella fede, nella fraternità, nell’amicizia e nell’impegno nel mondo, in reciprocità. Rimane questo l’orizzonte in cui muoverci, in applicazione della consegna di Gesù quando ci ordina di dire “pace a questa casa”: pace che scenderà sui figli della pace se ci sono in quella casa. Senz’altro un rapporto interpersonale che non compromette ma avvalora la dimensione universale dell’incontro, “perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20).

Se vogliamo essere in linea con gli intenti di Papa Francesco, guardiamo allora ad una chiesa come riproduzione e moltiplicazione di queste cellule vive che vivono di vita propria  e non solo di riflesso a strutture e sovrastrutture  che hanno preso il sopravvento nel nostro immaginario ecclesiale e condizionano i nostri comportamenti. Passiamo pure al vaglio questo pontificato, ma senza cadere di nuovo in una variante di storica “papolatria”: mettiamo pure al centro il Papa e il suo magistero pastorale, ma senza neutralizzare la fede della chiesa che è ben altra cosa!

 

Alberto B.Simoni op

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