Koinonia Aprile 2023


FUNZIONE SPECIFICA DELLE COMUNITÀ CRISTIANE NEL MONDO

 

La funzione specifica delle comunità cristiane: potrei dire che adesso parlo unicamente per i cristiani, ma non lo credo, perché viviamo in una società pluralista in cui siamo molto mescolati; è finito il tempo in cui le persone vivevano secondo affinità - i cristiani tra di loro, i capitalisti tra di loro ecc. -, tutti sono mescolati e ciò che conta una comunità tocca chiunque. Lo vediamo bene sui giornali, nelle pagine di informazioni religiose ci si rende conto che vedere ciò che diventa la chiesa cristiana è un problema anche per i non-cristiani, la cosa non li lascia per nulla indifferenti. Così, anche se in questo momento parlo all’interno di una comunità cristiana, parlo per tutti, e vorrei usare un linguaggio che sia comprensibile a tutti. Credo che la funzione di una comunità cristiana si comprenda nel mantenimento di un senso, da una parte, e nel mantenimento di una convinzione, di un senso come progetto razionale, di una convinzione come linea di impegno, dall’altra parte. Ciò che giustificherà la sopravvivenza del cristianesimo è la sua capacità di rendere servizio agli esseri umani qui, di fornire qualche cosa che sia loro comprensibile, che possa essere capito da tutti, e che non sarà più solamente come la gestione di un negozio, costi quel che costi, ma un servizio di tutti e per tutti. La cristianità, o i cristiani, o le comunità che si rifanno al cristianesimo, interesseranno allora gli altri, smetteranno di essere aneddotiche, smetteranno di essere una sorta di discorso particolare che si fa tra certe persone...

Ora vorrei dire un certo numero di cose in questo senso, in cui gli aspetti sociologici e teologici saranno strettamente legati, anche se li presenterò separatamente. Sul piano sociologico, abbiamo bisogno di una comunità che porti la testimonianza di un senso, sotto forma di speranza per tutti gli esseri umani. Era la parola di Paolo VI davanti all’ONU: «Mi presento a voi come un esperto in umanità». Coloro che non saranno degli esperti in umanità non sopravvivranno, ed è questa la nostra capacità, di dire qualche cosa che sia, in questa carestia di senso, portatore di senso. Il che vuol dire che la funzione di una comunità ecclesiale, di cui non definisco la struttura propria - le nostre parrocchie, i nostri partiti, così come li conosciamo, non ricoprono per forza questa funzione, ma nulla ci dice che non lo faranno - sarà di mantenere questa tensione tra una vita interiore, che la mantiene come comunità, e una vita esteriore che la espone a tutti gli sguardi. Sopravviverà solamente la comunità che sarà capace di realizzare questo equilibrio tra una circolazione interna di servizio, ciò che Paolo chiamava i doni dello spirito, i carismi, e un’attività esteriore. Poiché c’è una vista interiore, c’è organismo; ma questo organismo ha il diritto di avere una vita interiore solo se la lotta è esteriore. Si tratta dell’articolazione tra il servizio interno della comunità e il servizio degli esseri umani che regolerà l’avvenire e i destini di queste società.

Se le nostre comunità sono soltanto delle cellule sociali isolate, che si proteggono contro l’esterno, esse diventeranno puramente marginali e smetteranno di avere qualunque efficacia sul corso delle cose e delle persone. Di conseguenza, l’arte di articolare l’ecclesiale e il sociale sarà decisiva per l’avvenire di tali comunità. Vedremo qui di seguito ciò che questo significa per il linguaggio, poiché la comunità religiosa deve avere non due linguaggi ma due livelli di linguaggio: uno che sarà come una liturgia, che sarà il dono della funzione interna dell’organismo, e l’altro una prosa, un linguaggio profano preso nei concetti e negli usi di tutti gli esseri umani. Ed è l’arte di tenere insieme poesia della vita interna e prosa del rapporto al mondo di una comunità che deciderà di questa sopravvivenza. Tutte le tensioni di cui ho parlato prima: ragione e intelletto, o senso e intelligenza calcolatrice, convinzione e responsabilità, prospettiva e pianificazione, direi che una comunità ecclesiale deve essere il luogo in cui tutte queste tensioni sono vissute a un livello estremo di incandescenza e di intensità.

Se, al contrario, le comunità religiose, come in effetti sono secondo me troppo spesso, diventano un modo di proteggersi dai colpi della vita e dalla riflessione critica, di evitare la messa in questione per indurirsi, per impietrirsi, come una sorta di isola protetta, esse saranno insignificanti e faranno parte dell’insignificanza del mondo. È per questo motivo che vorrei unire osservazioni sociologiche a osservazioni teologiche (e qui bisogna farlo, perché i motivi di queste comunità sono appunto una certa predicazione e un contenuto di predicazione). Mi domando allora che cos’è che qualifica e destina la comunità ecclesiale cristiana a giocare questo ruolo.

 

Paul Ricoer

in Per una utopia ecclesiale, Claudiana 2018, pp.34-36

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