Koinonia Aprile 2023


PAROLE PROFETICHE SU PAPA PIETRO II

 

Se fosse ancora il tempo di narrare, un racconto potrebbe cominciare così: “Quomodo vocaberis? Vocabor Petrus”. Sarebbe la storia dell’ultimo papa, un ebreo convertito che nel suo stemma cardinalizio aveva scritto: “Usquequo, Domine?”, fiino a quando, Signore, santo e fedele, non giudichi e non vendichi il nostro sangue sugli abitatori della terra? E ai martiri che nella visione dell’Apocalisse sotto l’altare del cielo gridano a Dio la loro impazienza veniva risposto - duemila anni fa - di pazientare ancora per poco tempo, finché non fosse stato completato il numero di coloro che dovevano essere messi a morte come loro (Ap 6, 9-11).

Secondo la profezia del monaco medioevale Malachia - alla quale obbligatoriamente le gazzette si riferiscono ogni volta che viene eletto un nuovo papa - l’ultimo si chiamerà Pietro come il primo, e con lui si concluderà nella catastrofe apocalittica la storia della Chiesa e del mondo. Di Pietro II, dunque, si parla con un vago e subito eluso senso d’angoscia, mentre la fine del secondo millennio si avvicina tra segni minacciosi. Cessato il clamore, presto un clima d’incertezza e di precarietà circonda il nuovo pontificato, che è segnato dalla povertà dei gesti e delle parole, da una dolorosa perplessità circa la via da percorrere alla sequela di un Signore che non si mostra e che tace, da una lontananza dalle proclamate certezze di facciata del proprio tempo, tempo del quale Pietro II sembra far propria la nascosta, silenziosa disperazione.

Il papa vive al chiuso del Laterano, la sede episcopale romana dove ha trasferito la propria residenza. Il papa sparisce dalla televisione e dai giornali. Alla sua messa quotidiana i fedeli si contano prima a migliaia, poi a centinaia, e infine a decine. Nessuno ode da lui altre parole che non siano, all’omelia, il commento delle Scritture. Appare ormai separato dalla stessa Chiesa, e inerte. La Chiesa intanto continua a offrire di sé la solita immagine: meccanismi curiali, nunziature apostoliche, sinodi e conferenze episcopali, cerimonie solenni. Ma è divisa ormai in tante chiese diverse quanti sono i paesi del mondo, anzi in più chiese diverse per ogni paese del mondo, e di tutte il papa simboleggia un’unità sempre più irriconoscibile, metafora di una possibilità ormai illusoria. Le parole di Pietro II suonano come sopravvivenze arcaiche, non solo non piacciono, ma non significano, né a destra né a sinistra. Il papa non crede né al rilancio istituzionale della Chiesa per il terzo millennio, né alle da sempre smentite speranze della reformatio ecclesiae. Precipita velocemente nel passato il Concilio Vaticano II, e un nuovo concilio non potrebbe che sanzionare la consumazione dell’orizzonte teologico cristiano, con la proliferazione di tanti cristianesimi dai contenuti sempre più vaghi e contraddittori.

Si fa strada in Pietro II una visione radicalmente tragica della storia della Chiesa. Troppi secoli hanno inesorabilmente portato la Chiesa a strutture di potere e a trionfali ruoli mondani, e non è nelle mani dell’uomo, forse nemmeno  in quelle di Dio, ridisegnare il corso della storia. L’idea di una Chiesa povera e pura gli appare sempre più come un mito stanco, vecchio di almeno un millennio. Ma anche un mito ambiguo, lungo la china, all’apparenza così ovviamente seducente, di una verità cristiana immediatamente comprensibile e accettabile agli occhi del mondo. Come se le buone intenzioni potessero - abolendo gli scandali, moralizzando i monsignori, riformando la curia, esortando gli uomini al bene - capovolgere il terribile mistero di una storia della salvezza che dalla colpa di Adamo giunge, attraverso la morte di Cristo sulla croce, ad Auschwitz.

Quando il suo isolamento è completo anche all’interno delle mura ecclesiastiche, Pietro Il si chiede se esiste ancora una possibilità di riconoscersi cristiani in un nucleo essenziale di cose in cui sperare e credere. Esiste ancora la verità cristiana nel mondo, o è giunto il momento profetizzato in cui, ritornando, il Signore non avrebbe più trovato fede sulla terra (Lc 18, 8)? Porre domande del genere a teologi, sempre più catafratti nelle loro specializzazioni professionali. Esegeti sempre più sottilmente esperti in filologie semitiche, liturgisti, trattatisti procedenti con l’ausilio delle più raffinate tecniche strutturalistiche e sondando sottili problematiche ermeneutiche ed epistemologiche, fautori dell’ortoprassi nei confronti dell’ortodossia, moralisti delle più disparate tendenze, non s’intendevano più neanche fra loro.

 

Sergio Quinzio

In Mysterium iniquitatis, Adelphi, 1995,pp.11-13

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