Koinonia Aprile 2023


LE ACQUE DI MASSA E MERIBA (III)

 

Parte terza: Anche Dio attende.

 

Noi sappiamo cosa significa morire di fame o di sete? Abbiamo mai sentito il muggire delle mucche, il belare delle pecore e il piangere dei bambini per la sete senza avere più acqua a disposizione? No, perché noi viviamo nell’abbondanza. Sì sappiamo che in tante altre parti del mondo si soffre per questo e tantissimi persino ne muoiono ogni giorno, ma a noi questo poco interessa: ci è stato così tante volte detto e ripetuto che ci è persino venuto a noia.

Eppure, soprattutto per l’uomo di fede, non dovrebbe essere così, perché egli è proprio delle pene degli altri che dovrebbe farsi carico, rivolgendosi a Dio gridando il suo “perché?”. Così ha fatto a un certo punto Mosè. Ma nel suo rivolgersi a Dio, dicevamo, ha avuto come un momento di esitazione, battendo due volte il bastone sulla roccia anziché una, come temendo che l’acqua non ne fosse scaturita a sufficienza, mentre lì attorno a lui il popolo fremeva con gole riarse dalla sete. Al punto che quella gente avrebbe potuto persino ammazzarlo se l’acqua non fosse scaturita o non scaturita a sufficienza tanto da indurli a litigi micidiali per accaparrarsene. Da quel colpo di bastone dipendevano tante cose, dunque meglio colpire una seconda volta, meglio essere previdenti. Dunque una tentazione, molto simile a quella di coloro che uscendo a raccogliere la manna cercavano di portarne a casa anche per il giorno successivo: non si sa mai. Noi sappiamo, certo, che a ogni giorno basta la sua pena e che Dio nutre gli uccelli del cielo, ma intanto ci preoccupiamo pure della nostra vecchiaia, dei nostri contributi Inps: si, abbiamo fede, ma intanto lasciamo che si occupino del nostro futuro anche quelli della Previdenza Sociale, lasciamo che il nostro conto in banca ci dia una certa sicurezza per il domani, non si sa mai.

Fame e sete dice poi bisogno che ha il nostro corpo, la nostra carne. La fede che viene da Israele non si occupa tanto di anime, ma di viventi in carne e ossa. E poi non soltanto di individui, ma di un intero popolo, di animali, e persino di piante. Se Leopardi ha potuto percepire la sofferenza in mezzo ai fiori e le erbe del suo giardino e nella più amena delle stagioni, è perché la sensibilità ebraico-cristiana era arrivata a lui in qualche modo. Altrove ci s’incanta davanti ai tramonti o al colore delle foglie d’autunno, qui no, qui si percepisce il dolore di quelle foglie morenti, qui non basta la scusante: tanto a primavera ne nasceranno di nuove. Per questo tipo di sensibilità nulla dovrebbe morire o se muore si spera che torni in vita: con la risurrezione dei morti, con cieli nuovi e terra nuova. Altrove si fa estetica, etica quando va bene, lezioni di perbenismo o politica, mentre magari si sta seduti in poltrona. Ma la fede è un’altra cosa, la fede vibra, non dà pace. La fame di redenzione e giustizia è come la fame di pane e la sete di acqua in un deserto che pare non avere fine. ‘Perché ci hai portati a morire in questo deserto dove altro non v’è che roccia e serpenti?’ dirà il popolo a Mosè. Eppure il vero culto che Israele offre al suo Signore è quello del deserto, è quella, paradossalmente, la condizione che dell’umanità Dio più ama. Questo dicono i profeti d’Israele. E se ne accorgeranno presto anche i cristiani: quando il cristianesimo diventerà religione di Stato coloro che vogliono restare fedeli al Vangelo dovranno fuggire nel deserto.

Ma anche il Battista, lo stesso Gesù e pure san Paolo inizieranno da lì, dall’esperienza del deserto. È quando si è poveri, assetati, affamati e soli che si percepisce davvero la propria debolezza e ciò che più conta davanti a Dio. Beati i poveri, beati quelli che hanno fame e sete di pane, di acqua, ma anche di giustizia, di redenzione.

La luce della fede appare davvero nel buio della disperazione così come le stelle è possibile vederle solamente di notte, secondo una folgorante intuizione di Kafka. Si ha fede proprio perché si naviga a vista nel buio pesto e c’è solo qualche lumicino qua e là a dare conforto, e se si è in una notte di nubi nemmeno quelli. Credere è “andare a tentoni”, dice san Paolo, non speditamente e a testa alta come colui che procede in pieno giorno sicuro della meta come del due più due fa quattro. I luoghi della fede non sono quelli della ragione e delle risposte a buon mercato più o meno devote. Non convince tutto questo affannarsi precipitoso a rendere ragionevole la fede come si vede fare oggi, come se avesse da essere alla facile portata di tutti. Si torni a Pascal, a Kierkegaard, a Dostoevskij, senza i quali la fede crollerebbe come un castello di carta di fronte alle ragioni della modernità. Dopo Auschwitz e Hiroshima la teologia deve subire una scossa, c’è poco da fare.

Credere è sempre invocare che la mano del Signore ci tiri fuori mentre l’acqua ci giunge alla gola, come fece Pietro, quando era sceso a camminare tra le onde o come quell’uomo che avendo il proprio bambino posseduto da uno spirito immondo gridò a Gesù: “Credo, aiuta la mia incredulità” (Mc 9,24).

Se la religione rischia di diventare oppio dei popoli, devozione che tranquillizza e addormenta, la fede deve restare una ferita in fondo al cuore, che impedisce tranquillità e sonno. La fede priva di inquietudine si spegne in fretta, i primi cristiani invasero il mondo con quella che avevano nel cuore, quando tutti li conoscevano come “quei tali che mettono il mondo in agitazione” (At 17,6).

Mosè non riuscirà a entrare nella terra promessa: “Il Signore gli disse: ‘Te l’ho fatta vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!’” (Dt 34,4). E tuttavia la sua potenza profetica s’irradierà fin dentro le nostre carni di uomini e donne moderne. “Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia” (Dt 34,10). La fede ebraico-cristiana vibra, a sapersene accorgere, persino dentro i meccanismi dei nostri computer e delle nostre automobili veloci e confortevoli. Scienza e tecnica, così come l’idea di progresso nascono da quella forza di contestare Dio, da quella fame di riscatto e liberazione, da quel senso della storia, da quella forza di credere nonostante tutto, da quella capacità unica che hanno gli ebrei di mettere tutto in discussione senza mai perdere le staffe e l’orientamento, senza mai mollare la presa dal loro punto fermo. Qual è il loro punto fermo? Questo: c’è un Dio unico in cielo, un Dio che ha promesso di redimere il mondo.

E poi bisogna di nuovo chiarire: fede riguarda il singolo, certo, ma guai se diventasse solo questione di singolo, La fede non è soggetta a privata spiegazione. Gli ebrei si sono sempre guardati da quelli che Lévinas ha chiamato “abissi di interiorità senza sponde”, da quei voli disincarnati della mistica che rischiano di portare nel nulla e nell’astratto. In Israele si discute ferocemente, ma alla fine le radici e la comunità non si mollano mai: ognuno deve rispondere della vita del fratello e della bontà della vita ricevuta, del proprio corpo ricevuto in dono, dell’animale che ci sta a fianco e aspetta da noi la manciata di fieno e il secchio d’acqua dopo un giorno di fatica. Molta attenzione per il bue e l’asino c’è nella Scrittura sacra d’Israele.

Fede è tale perché s’incarna in un popolo capace di trasmetterla ai suoi figli e ai figli dei suoi figli, di generazione in generazione. Due sono gli imperativi che ci vengono da Dio di fronte a ogni tentazione e dubbio durante il cammino della vita. Il primo è: ascolta!, e il secondo è:  ricordati!. La fede che è fedeltà a Dio e alla sua parola inizia da un esercizio poderoso di ascolto e memoria, quello che ha permesso lungo i millenni di far arrivare a noi una speranza in cui ancora qualcuno riesce a credere anche di fronte alle più terribili cose, anche di fronte alla morte di chi ci è vissuto accanto e che continuiamo ad amare come noi stessi.

Altri popoli ricchissimi in cultura, spiritualità e potenza hanno prospettato immortalità e aldilà, una sorta di fuga dal mondo, dal tempo e dalla comunità: si salva l’anima, il resto è zavorra, ecco cosa emerge dalle culture antiche intorno a Israele e ancora oggi da parte delle seducenti religiosità dell’oriente.

Tutt’altra visuale invece viene dalla fede ebraico cristiana: si muore, si scende nella fossa, si è inghiottiti da quella morte che Dio non ha creato. Ma un giorno si risorgerà: sì, il corpo stesso in carne e ossa diventato polvere risorgerà “nell’ultimo giorno” (Gv 6,41), quando anche la creazione tutta verrà riscattata e salvata, quella che ora soffre e geme insieme a noi in attesa. E pure la storia verrà redenta, di tutto prenderemo coscienza nel giorno del grande giudizio. C’è una sura coranica molto breve, detta “Del terremoto”, che ha espressioni semplici e potenti insieme: “Quando la terra verrà scossa, da Dio, violentemente / … / gli uomini si avanzeranno in gruppi staccati, perché vengano loro mostrate le loro opere; / Allora chi avrà fatto del bene, anche solo per  il peso di un atomo, lo vedrà. / E chi avrà fatto del male, per il peso di un atomo, lo vedrà pure” (XCIX).

Se “balzo di tigre” deve esserci quello sarà “nel passato”, dice Benjamin, perché una “umanità redenta” non potrà alla fine che ricevere in piena eredità che “il suo passato” (Sul concetto di storia), un passato che dovrà però essere giudicato dalla potentissima luce della redenzione.

Ma essere nella collettività e nella storia che attende può anche voler dire restare nella solitudine, quando non c’è più nessuno attorno a credere e aspettare le cose in cui tu continui a credere e attendere con tutte le forze, senza peraltro sapere fino a quando riuscirai a reggere. Così accadde a Mosè.

Ma in fondo davvero solo resterà soltanto Dio, quando gli toccherà guardare verso il mondo e non ci sarà più nessuno ad aiutarlo, quando osserverà e si stupirà di come non ci sia rimasto più nessuno a sostenerlo (Is 63,5). Anche nell’Antico Testamento non solo nel nuovo noi troviamo un Dio che soffre ed è bisognoso d’aiuto. La Kenosis inizia forse fin dal principio di tutto, quando Dio scelse, per amore, di rendere libera l’umanità, di partecipare da vicino alle sue sofferenze iniziando a vestire l’umanità nuda prima di cacciarla da Eden.

Il Dio del roveto è un Dio che non solo ascolta le grida del suo popolo, ma che anche soffre col suo popolo: “Il Santo, benedetto sia, disse a Mosè: ‘Non senti che io sono nel dolore proprio come Israele è nel dolore? Guarda da che luogo ti parlo - dalle spine! Se così si potesse dire, io condivido il dolore d’Israele’. Perciò si legge anche (Isaia 63,9): ‘In tutte le loro angustie Egli fu afflitto’” (Esodo Rabbah 2,5).

Se il popolo entra in contesa con Dio mettendolo alla prova è perché Dio stesso può essere provato, fino a soffrire e morire. Come il Cristo schiacciato sotto il peso della croce che alcuni brutti ceffi prendono per il bavero, che troviamo raffigurato nel quadro dipinto da Grünewald. Dio si è lasciato spesso schiacciare dalla dura cervice del suo popolo e coinvolgere nelle sue sofferenze.

Le spine del roveto ardente si sono a noi cristiani manifestate con una tangibilità ed evidenza uniche nel volto insanguinato di Gesù (Mt 27,29), il Dio fatto uomo per amore e morto sulla croce gridando un “perché?” disperato che deve ancora ricevere risposta.

 

Daniele Garota

(3.  fine)

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