Koinonia Marzo 2023


Se il Vaticano II è ancora una vocazione

 

OLTRE IL “CONCILIO REALE”

PER ESSERNE PROFEZIA VIVENTE

        

Siamo ad un anno di guerra in Ucraina senza vie di uscita in vista; c’è stato il viaggio del Papa in Africa, che ha sollevato il velo sullo stato di povertà e di impoverimento a cui sembra impossibile dare risposta. Ma soprattutto e drammaticamente c’è la tragedia terremoto, che sembrerebbe mettere tutti d’accordo sul piano della solidarietà, ma senza risolvere per questo la contraddizione  tra chi genera morte e chi la morte la combatte. Non si può non prendere atto di quanto fanno i tanti “buoni Samaritani” nei confronti di sorelle e fratelli  vittime da simile tragedia, senza peraltro poter alleviare tanta sofferenza e tanta distruzione.

 Anche a volere, non siamo in grado di farla nostra o di darne ragione, ma non per questo possiamo sottrarci a questa prova di umanità, sia nel senso di fragilità e precarietà della nostra condizione e  sia anche nel senso di una fraternità unversale tra popoli e tra Paesi  come “segno dei tempi”. Ma è chiaro che dovremmo andare al di là del momento emozionale e al di là dei canoni dell’informazione, che tende ad immunizzarci  rispetto a quanto ci fa sapere, come se tutto finisse lì e potessimo  gettarlo nel dimenticatoio. Il dramma umano è spettacolarizzato tra una pubblicità e l’altra!

In realtà, non possiamo nasconderci di rappresentare un’umanità contraddittoria, senza per questo potersi attestare su posizioni pregiudiziali o da una parte o dall’altra. Una contraddizione permanente tutta da risolvere standoci dentro: mentre c’è sconcerto e lotta contro la morte per catastrofi naturali, c’è volontà di morte non solo nelle guerre guerreggiate - che non mancano - ma nell’investimento mentale, scientifico, economico di armamenti i più sofisticati, là dove una riconversione dovrebbe assolutamente avvenire: anche una “ragione difensiva” è l’altra faccia di una logica di guerra. Ma questo potrebbe succedere se il sentimento originario dell’“essere umani” venisse a sua volta investito per la ricerca di ordinamenti di convivenza improntati alla vita, alla giustizia, alla solidarietà, alla pace, quanto è potenzialmente vivo nel cuore dell’uomo.

Se questa è un’utopia sul piano storico, dove sembra ci sia poco da fare, è però anche una profezia biblica e una certezza di fede evangelica. E di questo bisognerebbe rispondere, magari sentendoci interpellati dalle parole del salmo 11,3: “Quando le fondamenta vanno in rovina, che può fare il giusto?”. Il giusto altri non è se non l’uomo che vive di fede, e il credente non è mai individuo isolato, ma persona comunitaria e universale per natura e non per astrazione. Ed allora è inevitabile chiedersi se e come questo Popolo di Dio si rapporti ai reali “segni dei tempi”; se davvero c’è volontà di vivere come si è proposto al n. 1 della Costituzione conciliare Gaudium et spes, che va riletto  come rinnovata presa di coscienza e relativo impegno nel mondo, e non solo come esercizio di buoni sentimenti.

Ed ecco allora le parole della Costituzione utili anche per un esame di coscienza ecclesiale: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia”.

Se qualcuno si sente chiamato in causa, lo è come credente e come chiesa, e non solo in senso umanitario. Non mancano in queste parole indicazioni precise da introiettare e da assecondare, per diventare chiesa e comunità capaci di questa partecipazione alla salvezza dell’umanità, non come corpo estraneo, non come partecipazione saltuaria di preghiera, ma nel loro stesso modo di essere, per cui l’umanità così com’è entra nella definizione e costituzione del Popolo di Dio,  proprio corpo da redimere e da salvare! Perché il discorso della salvezza del mondo rimane confinato in ambito liturgico e spirituale e non struttura la coscienza dei credenti?

Ciò richiederebbe una profonda ristrutturazione di mentalità e di spiritualità, da operare non a tavolino, ma come soggetto vivente di fede. Forse basterebbe che in primo piano, a dare un’immagine viva della chiesa, ci fossero quanti già vivono interiormente questa comunione “teandrica” (divino-umana) con l’intero genere umano, facendo sentire la loro voce come Popolo con la propria testimonianza di vita; mentre sembra ancora prevalere l’immagine di chiesa come corretto ordinamento gerarchico, sacramentale, rituale, cultuale, cerimoniale, in cui tutti siamo come imbrigliati. 

Ma forse questa chiesa sognata, desiderata, ricercata esiste già, anche se sotto traccia e come lampada da togliere di sotto il moggio per metterla sul candelabro, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Diciamo che è la “chiesa dei poveri”, nel senso di chi non vale per visibilità ed ufficialità, e non si avvale di mezzi esteriori e di rapporti predefiniti, ma nasce e cresce attraverso la libera comunicazione di fede e nella fede, piccolo seme che diventa grande albero. Ad imitazione di Gesù che fa emergere il Regno di Dio che è tra di noi e che sfugge ad ogni controllo o dominio di umani poteri. La chiesa visibile o dei segni non dovrebbe essere altro che la rivelazione di quella invisibile o “mistero”. Sono quei poveri che abbiamo sempre con noi (cfr. Matteo 26,11; Marco 14,7).

Probabilmente non mi esprimerei così se non avessi alle spalle tutta la variegata esperienza di Koinonia di cui fare tesoro, perché è in questo senso che questa lunga esperienza è maturata  partendo dallo “zero” istituzionale, materiale, ambientale, priva di consenso e di sostegni, ma anche senza mai essere sconfessata  apertamente.  Questo va ripetuto non per farsi valere, ma per capire ancora meglio qual è ancora il nostro modo di andare avanti e da dove nasce la certezza che una “chiesa dei poveri” è possibile ed è in atto, anche se manca di visibilità, perché è di quella che siamo espressione e strumenti. A proposito di visibilità c’è da dire che essa emerge come dono e come effetto della comunicazione in spirito nella solidarietà umana e di fede, realtà di base che si alimenta attraverso parole e  occasioni di incontro.

E per la verità è quanto si respira tra noi anche a distanza di luogo e di tempo, quando nasce reciprocità e corrispondenza di spirito: quando ci rendiamo conto di essere guidati dalla potenza dello Spirito di Cristo, che ci rende liberi “per” prima che liberi “da”. Essendo ancora in cammino su questa strada (in maniera sinodale da sempre!), non c’è che da augurasi che questa esperienza comunitaria in embrione e in diaspora non manchi del necessario scambio di riflessione, sia per non cadere in un pragmatismo efficientista, e sia anche per evitare un’attività di pensiero fine a se stessa: esperienza di comunione sì - di amicizia e di fraternità - ma comunione strutturata e impegnativa di ricerca e di verità, e non solo di “intrattenimento” spirituale o di esibizione liturgica.

Inutile dire che stella polare di riferimento è stato e rimane il Concilio Vaticano II che è dinanzi a noi: e questo spiega l’insistenza a voler tenere viva la sua voce, come ciò che “lo Spirito dice alle chiese”. Qualcosa da ascoltare come la voce del vento, ma anche da dire e da rilanciare! Devo dire che attraverso quanto ci siamo detti in questi ultimi mesi, sono arrivato alla convinzione che un cambiamento effettivo ha luogo prima di tutto nel “sabato” fatto per l’uomo: e cioè nel soggetto-chiesa o comunità, che viva di vita propria e non solo di riflesso in forza di strutture canoniche preesistenti. Spesso si dimentica che se il Vaticano II ha portato a modificazioni esterne, lo ha fatto come espressione e in funzione del Popolo di Dio come soggetto unitario di fede, quello che noi cerchiamo di far vivere, almeno nelle coscienze.

Di qui un desiderio e una richiesta: prendendo atto di essere una “comunione” fatta “persona” in forza dello Spirito che ci abita, prendiamo anche coscienza di questa chance per viverla più intensamente nella ricerca, nello scambio, nella comunicazione e nella preghiera, per una partecipazione effettiva alle gioie e alle speranze, alle tristezze e alle angosce degli uomini d’oggi: per costruirci nella verità del vangelo prima di essere testimoni di carità. È l’invito e l’augurio ad essere chiesa di Cristo dal di dentro così come l’abbiamo pensata e la vorremmo in tutte le sue fibre, sapendo che essa può darsi anche tra due o tre come evento di grazia, non necessariamente cultuale ma secondo lo Spirito che dà vita.

Prima che essere uno spazio e strumento di comunicazione, Koinonia è il tempo interiore di incontro interpersonale, in cui, più che aspettarsi qualcosa, c’è da chiedersi cosa poter fare gli uni per gli altri per dare vita ad una esistenza di fede ecclesiale: sale che si scioglie in un mondo che deve ritrovare le sue fondamenta di umanità. Così come il vangelo ci richiede e ci abilita ad essere! E questo in un mondo in cui l’apparire è regola trasversale e metro di misura a tutto, compresa la fede: una fede “social” come presenzialismo e insieme di prestazioni, ma non in grado di essere evangelicamente “luce del mondo” come verità vissuta.

Per questo il primato va dato a quello che siamo tacitamente come tessuto umano e come corpo ecclesiale: qualcosa che richiede una conversione concentrica e una convergenza di intenti meno convenzionale possibile. Non si tratta di un “vogliamoci bene” sentimentale e campanilistico, ma di un imperativo incondizionato ad adempiere la legge di Cristo (cfr. Galati 6,2): di farsi carico della salvezza di ciascuno e di tutti, “perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Giovanni 10,10), e ricordando che è la verità a farci liberi. Questo modo di essere dovrebbe diventare il volto di ogni comunità e della chiesa, almeno come tensione.

È ciò a cui vogliamo tendere sia pure in contesti ecclesiali che sembrano la negazione di questo spirito. In questo senso, Paolo ci presta le parole di esortazione e di impegno   nella lettera ai Filippesi 2,1-2: “Se dunque v’è qualche consolazione in Cristo, se vi è qualche conforto d’amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento”. È questa misura interiore  che  ci spinge in avanti  a partire dal vangelo e nella scia del Vaticano II.

 

Alberto B.Simoni op

.