Koinonia Marzo 2023


LE ACQUE DI MASSA E MERIBA (II)

 

Parte seconda: Tra prova e seduzione.

 

Se da una parte la tentazione umana va intesa come prova, dall’altra va intesa come seduzione. La prima aiuta, purifica come l’oro nel crogiuolo, irrobustisce la fede, fino a far comprendere ciò che ha valore e ciò che non ne ha. Si provoca, si tenta qualcuno anche per vedere quale sarà la sua reazione, così Dio può arrivare a tentare l’uomo per vedere fino a che punto sarà a lui fedele: “Abramo non fu forse trovato fedele nella tentazione e non gli fu ciò accreditato a giustizia?” (1Mac 2,52). La tentazione che viene da Dio è sempre in vista di una via d’uscita verso il bene: “Infatti Dio è fedele – sottolinea Paolo – e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1Cor 10,13). In quel luogo Dio mise alla prova il popolo imponendo “una legge e un diritto” (Es 15,25). È questa la prima menzione che abbiamo dell’imposizione della legge, con una precisazione successiva che dice pressappoco così: se ascolterai quel che ti dico e lo metterai in pratica bene, altrimenti ti capiterà quel che è capitato agli egiziani, vedi tu (cf Es 15,26). L’approdo finale è dunque vincolato all’osservanza della legge, all’osservanza dei comandi che vengono da Dio. Se ci sono dolori e umiliazioni il Deuteronomio precisa: “Ricordati di tutto il cammino che il tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi” (Dt 8,2).

Se Dio ha umiliato il suo popolo, gli ha fatto provare la fame nutrendolo poi di quella manna che non conosceva e che nemmeno i suoi padri avevano mai conosciuto, è per fargli capire che l’uomo non vive di solo pane, ma “di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,2-3). E la bocca del Signore non si limita a invitare al ricordo di quanto già accaduto in passato o a impartire comandi per il presente, ma soprattutto fa’ promesse per il futuro. Di qui il patto, l’alleanza tra Dio e il suo popolo.

Ma se la promessa tarda a manifestarsi, a compiersi, se invece di sorgenti d’acqua arriva una sete da morire, allora arriva anche il momento in cui è l’uomo a provocare Dio, a metterlo, per così dire, alla prova, per vedere fino a che punto sa essere vicino ai bisogni del suo popolo, se ha davvero la potenza di compiere fino in fondo quello che ha promesso: “Chi non ha avuto prove, poco conosce” (Sir 34,10), forse anche Dio, che a tratti ha come bisogno di qualcuno che lo scuota, che gli dia una svegliata: “Svegliati, perché dormi, Signore? / … / Perché nascondi il tuo volto, / dimentichi la nostra miseria e oppressione?”, dice il salmista (Sal 44). Ed è lo stesso Dio che in Gesù di Nazaret si rivelerà come colui che, “imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8). Molto ebraico è questo tratto messianico secondo il quale Dio ha bisogno dell’uomo anche nel senso di conoscere e sentire ciò che, come Dio chiuso nella propria perfezione e potenza, mai avrebbe potuto conoscere e sperimentare.

E c’è poi, come si diceva, una tentazione che è seduzione, capace di indurci al male mettendoci davanti una sorta di luccicante specchietto che attira i cuori umani allontanandoli da Dio, per dirigerli verso quella porta “larga” che conduce “alla perdizione” (Mt 7,13): molti “nel tempo della prova vengono meno” (Lc 8,13). Nel Getsemani la preghiera dei discepoli doveva essere viva “per non entrare in tentazione” (Lc 22,46). Non la violenza ma la seduzione è l’arma del nemico. Satana è seduttore, parla il linguaggio di Dio: parole suadenti ebbe satana per tentare il Cristo che aveva fame e sete nel deserto.

Paolo dice che la “roccia spirituale” che accompagnava Israele nel deserto altro non era che il Cristo (1Cor 10,4), colui che “è prima di tutte le cose” (Col 1,17), colui che ha per noi un’acqua capace di renderci a nostra volta “sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14). Chi poi avrà sopportato la tentazione fino a superarla, “riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano” (Gc 1,12).

E c’è pure una specifica tentazione, quella degli ultimi giorni, quella “che sta per venire sul mondo intero, per mettere alla prova gli abitanti della terra”. Quando la “bestia” sale dal mare e la “terra intera presa da ammirazione” le va dietro e l’adora, alla bestia verrà persino “permesso di far guerra ai santi e di vincerli”. Dura davvero dura è la lotta, e in questo non in altro, “sta la costanza e la fede dei santi” (Ap 13,1-10).

Pare che il nostro chiedere a Dio di non abbandonarci alla tentazione nel Padrenostro altro non riguardi che questo tipo di tentazione, la terribile tentazione degli ultimi giorni, quella in cui non riusciamo più a confidare nella sua potenza, la sola capace di liberarci finalmente dal male. Non per nulla questa precisa richiesta al Padre è stata giustamente accostata a una preghiera ebraica conservata nel Talmud babilonese: “Non farmi entrare in potere del peccato, né in potere della colpa, né in potere della tentazione, né in potere del discredito” (Berakhòt, 60b). Qui dunque si tratterebbe della grande prova escatologica, quella degli ultimi giorni, quella in cui ognuno sarà come i discepoli di Gesù cercato da satana che vuole vagliarci “come il grano”, un momento in cui soltanto se è Gesù a pregare per noi non verrà meno la nostra fede (Lc 22, 31-32). E sappiamo che Pietro stesso tradirà spudoratamente il suo Signore nel giorno della prova estrema del Golgota.

Ma questo tipo di tentazione non viene mai da Dio: “Nessuno quando è tentato dica: ‘Sono tentato da Dio’, perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male” (Gc 1,13). Perciò nel Padre nostro - dice Marc Philonenko - dovremmo intendere pregando: “Fa’ che non entriamo nella prova, non esporci alla tentazione, ma liberaci dal Maligno”. In modo da esprimerlo come un “grido d’angoscia escatologica”, un “appello disperato” (Il Padre nostro).

Nel Libro dei Numeri vi è una narrazione parallela a quella del Libro dell’Esodo, con alcune varianti. Manca anche qui acqua per la comunità e c’è allora “un assembramento contro Mosè e contro Aronne”, il popolo si adira, si muove compatto ed entra in “lite con Mosè, dicendo: ‘Magari fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti al Signore! Perché avete condotto la comunità del Signore in questo deserto per far morire noi e il nostro bestiame? E perché ci avete fatti uscire dall’Egitto per condurci in questo luogo inospitale? Non è un luogo dove si possa seminare, non ci sono fichi, non vigne, non melograni  e non c’è acqua da bere”. Anche qui Mosé si rivolgerà a Dio e riceverà l’ordine di operare il prodigio col suo bastone. Ma in lui vi è una sorta di esitazione così che percuoterà “la roccia con il bastone due volte” prima che ne esca acqua abbondante per tutti, comunità umana e bestiame (Nm 20,1-11).

C’è chi ha voluto vedere qui una sorta di colpa che poi gli impedirà di entrare nella terra promessa. “Te l’ho fatta vedere con i tuoi occhi ma tu non vi entrerai”, gli dirà infatti Dio quasi accusandolo (Dt 34,4). E qui entra la grande questione del dubbio di Mosè. Sì, dice la tradizione ebraica, a Mosè Dio impedì di entrare nella terra promessa proprio perché dubitò davanti alla roccia percuotendola due volte col bastone. Ma può l’uomo di fede dubitare? Questo è il punto.

Intanto la fede non va confusa con la religione, con l’istituzione religiosa, la quale certamente aiuta e conforta il singolo tramite il comune sentire di molti, la comune partecipazione alla liturgia, la comune osservanza della legge di Dio. E tuttavia la fede è un’altra cosa, viaggia su un livello diverso. La fede - come ben sapeva Kierkegaard - riguarda il “Singolo” e rasenta spesso la disperazione. Anche il dubbio, purché non si intenda per dubbio quel soppesare in superficie dello scettico che con fare scanzonato valuta da lontano le diverse alternative senza esserne coinvolto più di tanto. Se nell’uomo di fede abita il dubbio, questo non riguarda l’alternativa tra l’esistere o il non esistere di Dio, ma la domanda: ci salverà Dio? Il dubbio ebraico è tutto interno alla fede: l’ebreo credente può entrare in contesa con Dio, può cadere negli abissi della disperazione, ma non gli passerà mai per la testa che Dio non esiste. Il contrario della fede non è la disperazione, ma l’indifferenza.

Dunque torniamo al “Singolo”, una categoria lontanissima da quelle cricche in cui ci si riunisce per trovare reciproco consenso attorno a una qualunque idea purché sia di molti, tanta è l’incapacità di credere da soli, di rischiare in proprio. “La Folla è la falsità. Perciò Cristo fu crocifisso”, qui Kierkegaard non usa mezzi termini: il testimone della verità deve stare in mezzo agli altri, certo, ma sempre come singolo tra singoli. Tutto s’aggira attorno al singolo: “questa categoria è il punto col quale e attraverso il quale Dio può venire in contatto con l’umanità. Togli questo punto, e Dio è detronizzato”, continua Kierkegaard. “Per Dio, Spirito infinito, tutti questi milioni di uomini che vissero e vivono non formano una folla: egli non vede che singoli”. E sarebbe questo il motivo per cui scese a confondere le lingue a Babele: “le associazioni gli sono sospette” (Diario). La comunità di fede è fatta di singoli fiduciosi nelle propria individualità, nel proprio essere unici e irripetibili. Dio ci cerca uno a uno. Bello è ritrovarsi in Chiesa o in un raduno molto ben organizzato attorno al papa, dove ognuno sventola la sua bandierina e fa a gara per farsi fotografare mentre il papa gli passa vicino e gli porge la mano. Lì però non c’è più singolo, ma soltanto una massa che si muove.

Altra cosa è Giobbe che grida nel suo dolore e nella sua solitudine. Oppure Mosè, che si trova alla guida di un popolo sfinito che sta morendo di sete e gli si scaglia contro con l’accusa d’averlo fatto uscire dall’Egitto per trascinarlo di male in peggio.

Mentre nella religione si è, per così dire, in tanti ad andare compatti nella stessa direzione, nella fede ci si trova invece soli, soli davanti a gente che chiede ragione e che potrebbe persino ammazzarti, perché alla fine ritiene te responsabile della loro tragedia. La folla a un certo punto ha bisogno del capro espiatorio – come ha fatto notare Girard – e il capro espiatorio placa davvero la folla quando è rimasto solo ed è innocente. Anche in questo Mosè è una figura molto vicina a Gesù, come Elia del resto: tutti e due hanno sofferto molto a causa del popolo e senza avere commesso niente di male. Non per nulla sul monte della Trasfigurazione è loro due che Gesù incontra prima di affrontare il suo “esodo” verso il Calvario (Lc 9,30-31). “Più noi tutti ci sentiamo crocifissi, per il semplice fatto di vivere insieme in quanto esseri umani, e più siamo tentati di crocifiggere qualcun altro, per una sorta di compensazione … La folla del Venerdì Santo, che chiede a gran voce la Crocifissione - dice Girard - non può essere tanto diversa da quella della Domenica delle Palme, che aveva entusiasticamente accolto Gesù a Gerusalemme. Il voltafaccia di questa folla è un tipico fenomeno mimetico che è illustrato in altri luoghi della Bibbia, ad esempio nel Libro di Giobbe” (La vittima e la folla).

L’uccisione del capro espiatorio placa gli animi non perché quello sia colpevole, ma perché riesce ad assorbire le colpe e le ire di tutti proprio essendo innocente. Se noi moriamo di sete la colpa è tua, dicono a Mosè.

 

Daniele Garota

(2. continua)

.