Koinonia Marzo 2023


CULTURA DEL DIALOGO PER “FARE DEMOCRAZIA”

 

Cultura dei dialogo: dialogo tra gli uomini, dialogo tra le culture e le civiltà. Vuol dire che cade il principio identitario, che le identità sono superflue o dannose? No; perché l’uomo ha fame di identità come ha fame di alterità. E il dialogo ha una sua identità, una sua natura, che consiste nel farsi. Non c’è dialogo se non ci sono persone di dialogo, persone che nel dialogo si coinvolgono. Il dialogo allora diventa effettivo, nel senso che ha profilo morale e spessore etico. Tutti possono infatti fruire di questa identità dialogica, se così possiamo chiamarla: il sapiente e l’analfabeta, il potente dirigente politico ed economico e l’ultimo bracciante del più povero dei paesi, il grande dignitario religioso e la donna che vive la più passiva delle situazioni.

Cade, questo sì, la potenza dell’io, che l’occidente aveva posto alla base del suo evo moderno. Abbiamo visto come la potenza dell’individuo abbia preso la mano e creato situazioni non proprio allegre nel mondo. La sicurezza, ed anche l’arroganza, delle sue certezze non sono più faro né modello per le altre popolazioni del globo. Resta il potere, ma il potere non è cultura, non è umanizzazione. Il contesto mondiale, pur nell’omologazione di consumi, di comportamenti, di comunicazioni, sta mescolando le carte come mai era accaduto. Osserva un pensatore occidentale-orientale (madre spagnola  e padre indiano), Raimundo Panikkar, che oggi “nessuna cultura, nessuna religione, nessuna civiltà è autosufficiente”. Ed aggiunge che occorre “una matura fecondazione, un dialogo vivo, reale, tra culture. Nessuno ha la soluzione, forse insieme si può cercare, insieme si deve cercare e forse insieme si può trovare”.

Un viaggio nel nuovo, quindi nell’inedito. È ancora Hobsbawm, a conclusione della sua indagine sul secolo breve, a dire che oggi “il mondo rischia sia l’esplosione che l’implosione. Il mondo deve cambiare”. E precisa: “Non sappiamo dove stiamo andando <...> Se l’umanità deve avere un futuro nel quale riconoscersi, non potrà averlo prolungando il passato o ìl presente. Se cerchiamo di costruire il terzo millennio su questa base, falliremo”.

Sarebbe però un errore liquidare il passato, considerare solo al negativo la storia della civiltà occidentale e ripartire da zero. Dire che occorre uscire dall’eta moderna, dall’evo del progresso della società occidentale non vuol dire proporre una fuga in avanti, ma andare oltre, portando con sé i valori positivi consegnati dal passato. Ci sarebbe da ragionare a lungo sulle ambiguità storiche dell’occidente, ma si uscirebbe dai limiti che questo scritto si è prefissi. Conviene tuttavia citare alcune cose.

Dalla cultura ebraico-greco-cristiana che ha plasmato l’occidente, nella continua dialettica (e quanti contrasti!) di religione-laicità sono venute cose in contraddizione tra loro: il concetto di libertà e quello di assolutismo; la tolleranza e lo schiavismo organizzato, l’illuminismo e le concezioni razziste; il cosmopolitismo e il colonialismo/imperialismo; la libertà di coscienza e la manipolazione scientifica delle coscienze; lo stato di diritto e l’esclusione di altri da questi diritti; i princìpi ed i metodi della democrazia e i totalitarismi più integrali; le costituzioni ed i genocidi; le riforme sociali e lo sfruttamento sistematico. È venuta la violenza insieme al lenimento delle sofferenze; la guerra e la Croce rossa. E l’elenco potrebbe continuare. In sintesi, l’occidente ha avuto una doppia faccia, una doppia identità: è stato una macchina stritolatrice di uomini e di culture a fine di profitto, ma ha anche elaborato principi e norme di convivenza che restano fondamento imprescindibile per costruire il futuro.

Né tutto da salvare né tutto da buttare, quindi. Il problema è reinventare umanità trovando umanità. E come potremmo trovarla se non ci mettiamo alla pari, ciascuno con ciascuno, comunità con comunità, popolo con popolo, nella convivenza planetaria? È l’esperienza delle già citate ONG di cooperazione allo sviluppo, che con la cultura del partenariato sono uscite dalla filosofia della beneficenza e della sufficienza dei paesi donatori, per considerarsi umanamente alla pari nel cooperare, favorendo la nascita e lo sviluppo del non governativo nel sud del mondo e impastando la cooperazione in valori che si scoprono comuni.

È una strada appena aperta. La grande informazione ne parla poco. Non fa sensazione, non ci sono scoop. I grandi inviati, i grandi inchiestatori difficilmente riescono a capire questa novità, ad immedesimarsi nella cultura del partenariato. Aiutarli, denunciare, prendere le parti, esaltarli ma l’altro resta l’altro.

Invece avviene un lavoro molecolare nella vita dei villaggi, nella quotidianità dei rapporti, nell’interscambio di conoscenze e di saperi, soprattutto di valori, che si sostanziano di umanità nell’atto semplice e spontaneo. Ne derivano scambi in cui le affinità tra persone del nord e persone del sud sono superiori a quelle tra ceto e ceto, tra etnia ed etnia di uno stesso paese del sud.

Sono segnali che danno speranza. Una speranza che viene rafforzata non solo dal dialogo delle culture considerate alla pari, ma da un nuovo concetto del rapporto tra l’io e l’altro, che supera la contrapposizione identità-alterítà. Un filosofo francese che viene dal personalismo, Paul Ricoeur, lo ha definito con l’espressione “soi meme comme un autre”, me stesso come un altro. Avverte però che quel “come” non è da intendersi con il significato di paragone, ma in senso ben più stretto: me stesso in quanto un altro. Già un altro filosofo, pure francese, Emmanuel Levinas, aveva affermato che posso conoscermi soltanto partendo dall’altro.

In sostanza, dicendo in parole semplici concetti forse un po’ difficili, dobbiamo tutti mischiare i valori, crescere con i valori congiunti delle persone con cui si viene a rapporto, non solo con quelli delle proprie famiglie o del proprio clan; e come mentalità aprirsi con questo concetto in testa e nel cuore.

Sarà davvero una rottura della massificazione e il superamento dell’individualizzazione. Soprattutto sarà l’uscita dalla cultura di sangue e suolo che ancora attanaglia, in modo espresso o inespresso, i pensieri ed i sentimenti. Non c’è solo il razzismo esplicito, c’è anche la differenza che si maschera in mille modi, ma che sempre si avvita su se stessa perché dice: “io sono io, un altro è un altro”. Dire invece che io sono in quanto un altro, che i miei valori sono solo insieme ai valori dell’altro, degli altri, cambia tutto.

Ci costringe a ripensarci, a riposizionarci, se così possiamo dire, come persone, insieme a tutte le altre persone di tutto il mondo, con identità ed alterità non più contrapposte ma coniugate. Va da sé che questo sostanzia in modo risolutivo il progetto ed il metodo della federatività.

 

Gianni Bertone

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