Koinonia Febbraio 2023


Rileggendo il Discorso di Benedetto XVI alla Curia del 22 dicembre 2005

 

“UNA BATTAGLIA NAVALE NEL BUIO DELLA TEMPESTA”

 

Sono parole di Benedetto XVI, per descrivere la situazione della chiesa nel suo primo Discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, quando prese in esame lo stato delle cose riguardo alla recezione del Concilio.

Diceva esattamente: “Nessuno si può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea (nel 325): egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l'altro:Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …’ (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524)”.

Non è fuori luogo ammettere che, a ruoli invertiti, queste parole fotografano la situazione attuale, e non è difficile sentire l’eco di quanto Papa Francesco va denunciando quanto al chiacchiericcio di coloro che si sono messi in cattedra per la difesa della “fede vera”, prendendo a mentore Papa Ratzinger e a bersaglio Papa Francesco: tirando la corda verso una chiesa anti-conciliare e instaurando il braccio di ferro in un rapporto di forza impari. In effetti, mentre suona le sue trombe un partito anti-Bergoglio, non ci sono campane pronte a rispondere, tale è la patina di immunità e di sacralità di cui si è rivestito un certo partito  nella chiesa.

Non è però questione di schierarsi, ma di uscire da questa situazione di impasse e di conflitto, per ristabilire un'aperta dialettica tra orientamenti ed interpretazioni diverse ma compatibili, ad evitare monopolizzazioni ideologiche unilaterali. Perché c’è da dire che se in partenza si parla di ermeneutiche diverse del Concilio, in corso d’opera si depenna una delle due, lasciando praticabile solo quella ritenuta e dichiarata “positiva”: quella che, se fosse valutata in blocco senza le dovute distinzioni, come viene fatto con quella “negativa”, potremmo far coincidere con le posizioni di mons. Lefebvre, e quindi escluderla a sua volta. Si è capito subito che questa operazione di cernita è stata fatta da Benedetto XVI, dopo che in diverse occasioni aveva teorizzato la sua posizione sul Concilio, sempre in forza di autorità. Ecco, forse è il caso di smontare il teorema unico, che ha incanalato il Concilio in senso dottrinario, magisteriale, istituzionale, privandolo della sua vena innovativa e profetica.

Questa operazione porta a dire che del Vaticano II si è data una versione centripeta ad intra, e non invece carismatica ad extra, tanto che il card. Ratzinger  lascia capire qua e là che non ci sarebbero stati gli estremi per convocare a suo tempo il Concilio, anche se poi non può esimersi dal valorizzarlo dal suo particolare punto di vista. In questo concorda con quanto aveva affermato Giovanni XXIII nel suo Discorso di apertura, secondo cui non ci sarebbe stato bisogno di convocare un Concilio se si fosse trattato solo di dirimere questioni dogmatiche secondo un magistero dottrinale e non invece “pastorale”. Ma è chiaro anche che l’interpretazione di J.Ratzinger è unilateralmente in chiave dottrinale, e che egli valuta altre interpretazioni solo da questo punto di vista.

Ma fatte queste premesse, possiamo andare a vedere cosa emerge dal Discorso del 22 dicembre 2005. Prima di passare a parlare del Vaticano II, il Papa accenna ad altri argomenti, tra i quali l’Eucarestia, per sottolineare che nel dopo-Concilio “la Messa considerata come Cena eucaristica e l'adorazione del Ss.mo Sacramento erano viste come in contrasto tra loro: il Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per essere mangiato, secondo un’obiezione allora diffusa. Nell'esperienza di preghiera della Chiesa si è ormai manifestata la mancanza di senso di una tale contrapposizione”.

Queste parole fanno capire che riguardo ad aspetti e ad alternative diversi dalle posizioni ritenute immodificabili, la soluzione viene trovata eliminando la parte contraria alla propria. È un modo di argomentare ricorrente, tutto interno ad un sistema e ad una propria collocazione predefinita: così avviene, per esempio, quando si parla di una chiesa “pre” o “post” conciliare: una distinzione inaccettabile, perché la chiesa è sempre uguale a se stessa, dove il ricorso ad una visione teologica fissista elimina le innegabili differenze storiche.

È un teorema ricorrente che viene applicato in maniera inequivocabile alle correnti conciliari in termini del tutto astratti di “discontinuità” e di “continuità” per portare acqua al proprio mulino e far tornare i conti di una presunta e inalterata identità della chiesa nel tempo, alla quale anche l’interpretazione di un Concilio innovativo dovrebbe piegarsi. Le novità cioè dovrebbero essere vagliate secondo vecchi schematismi e rispondere al criterio rassicurante “è stato sempre così”.

Si parte dal presupposto - “che nessuno può negare”! - che la recezione del Concilio si è svolta in grandi parti della Chiesa in modo difficile, discutibile e improduttivo. La sentenza sembra già pronunciata e non rimane che avvalorarla con un sofisma: “Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o - come diremmo oggi - dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti”. Ecco allora la formula magica, secondo cui se l’“ermeneutica della discontinuità e della rottura” è da evitare, l'“ermeneutica della riforma” è da seguire, perché fonte di rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa. Come se il Vaticano II non avesse operato uno spostamento d’asse nel soggetto ecclesiale dal vertice gerarchico alla base del Popolo di Dio.

E come non si accetta la distinzione tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare, così non si ammette la differenza tra “lettera” e “spirito” del Concilio, perché così si fraintenderebbe “in radice la natura di un Concilio come tale”, che non può eliminare una costituzione vecchia per crearne una nuova: dove ancora una volta la dimensione storica è assorbita da una preconcetta ragione teologica. Il fatto davvero sorprendente è che all’unica prospettiva accettabile venga arruolato anche Giovanni XXIII, con una interpretazione del suo Discorso di apertura del Concilio, che non tiene minimamente conto delle innumerevoli letture di segno diverso. Ma una volta che questo evento non si può cancellare, sembra si faccia di tutto per disinnescarlo del suo potenziale profetico e metterlo in sordina: non si cerca di fare verità dentro i fatti, ma di far rientrare i fatti dentro schemi mentali preordinati.

È lo schematismo adottato da Benedetto XVI già da tempo, se nel suo colloquio con Vittorio Messori del 1985 (Rapporto sulla fede, Edizioni Paoline) si esprime così riguardo alla “sinistra” e alla “destra” delle correnti conciliari: “Del resto i due tipi di opposizione presentano caratteristiche molto differenti. Le deviazioni ‘a sinistra’ rappresentano senza dubbio una vasta corrente del pensiero e dell’iniziativa contemporanea nella Chiesa, tuttavia quasi da nessuna parte hanno trovato una forma comune giuridicamente definibile. Al contrario, il movimento dell’arcivescovo Lefebvre è probabilmente molto meno ampio dal punto di vista numerico, tuttavia è dotato di un ordinamento giuridico ben definito, di seminari, di istituzioni religiose, ecc…” (p.30).

A parte il fatto che al momento attuale le cifre si sono invertite, non si può dare torto al Prefetto della Congregazione per la dottrina dalla fede quando dice che a sinistra è mancata la capacità di darsi una struttura di pensiero e una dignità istituzionale (come da sempre ho denunciato), ma è chiara la sua solidarietà alla destra lefebvriana, come dimostrerà anche in seguito da Papa. Se però si considera in concreto la deriva lefebvriana della “destra” conciliare, allora non è più possibile dire che l’“ermeneutica della continuità” è stata positiva, a differenza della “ermeneutica della discontinuità”, dichiarata negativa perché presa senza sconti e senza fare nessuna tara nei suoi aspetti discutibili.

In ogni caso sarebbe del tutto fuori luogo lamentare scelte e decisioni di Benedetto XVI, se non si passa a dare e a concordare una linea ben precisa di sperimentazione innovativa del Vaticano II come recezione e come messa in opera, uscendo dalla frammentazione e dalla aleatorietà. Non basta cioè sgombrare il terreno e riaprire strade ostruite, se non c’è un impegno preciso e convergente da parte di quanti hanno questa convinzione e sentono questa vocazione. Per una ripartenza potremmo prendere come icona questa immagine di Gesù che dice a Simone: “Prendi il largo, e gettate le reti per pescare” (Lc 5,4). Ecco, potremmo vivere questo presunto tramonto del Vaticano II come la pesca andata a vuoto, per gettare di nuovo le reti sulla sua Parola!

Da più parti si sono levate voci a favore di uno studio del pensiero teologico di Benedetto XVI. Nel mio piccolo, mi permetto di avanzare una ipotesi interpretativa di lavoro: e cioè il fatto che tutta la sua ricerca e riflessione “professorale” abbia mirato a ricostituire idealmente la “cristianità” dichiarata peraltro finita a tutti i livelli. Forse come Papa ha dovuto toccare con mano la non praticabilità di questo progetto. Ma ecco perché è diventato suo malgrado il teorico o la bandiera dei nostalgici di un cristianesimo vecchio stile e di un umanesimo cristiano tanto convincente idealmente quanto poco praticabile. Le dimissioni di Benedetto XVI stanno a significare anche questo: una sorta di “fuga mundi” per rifugiarsi a vita monastica, come segnale di risoluzione spirituale - o spiritualistica - della chiesa nel mondo. È proprio quello che il Concilio Vaticano II ha inteso proporre?

 

Alberto Bruno Simoni op

 

 

 

POSTILLA - Capire il “ratzingerismo” per confrontarsi

 

Ora che la proposta teologica di Benedetto XVI è svestita di autorità  papale, sarebbe fuori luogo cancellarla o canonizzarla acriticamente, mentre è necessaria un’analisi attenta per un confronto. Forse è la volta buona che una diversa visione di chiesa e del Concilio si dia una sua struttura di pensiero e di azione.

Per addentrarci nella comprensione del Ratzinger-pensiero e interpretare  il suo ruolo ecclesiale soprattutto in relazione all’andamento del Vaticano II, facciamo ricorso a due contributi di studiosi di fama: il primo contributo è dello storico Daniele Menozzi ed è parte dell’articolo “Cosa c’è dietro le dimissioni di Benedetto XVI”, ripreso da “www.editorialedomani.it” del 31 dicembre 2022;  il secondo è dello storico Giancarlo Gaeta, in una sua corrispondenza con Goffredo Fofi.

L’ipotesi di lavoro che ne nasce è rimettere mano all’aratro del Concilio, non per farne un tema di ulteriori approfondimenti formali, ma per farne una regola pastorale e di vita cristiana veramente illuminata!

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