Koinonia Febbraio 2023


LE ACQUE DI MASSA E MERIBA (I)

 

Parte prima: Contesa con Dio.

 

Una delle esperienze fondamentali del popolo d’Israele è quella dell’esodo, dell’uscita dalla schiavitù dell’Egitto per poi ritrovarsi in un duro cammino nel deserto in attesa di giungere nel luogo promesso da Dio. Se Dio era intervenuto era perché aveva udito le sue grida di dolore ed era sceso a liberarlo. Dunque il Dio di Israele è un Dio che ascolta, che libera, che promette vicinanza e salvezza. E continua ad avere a cuore la sorte di chi pure è partito ma continua a essere in difficoltà durante il cammino, fino al giorno dell’arrivo nella terra promessa.

La categoria di esodo nella Bibbia dice uscita da un luogo di schiavitù per un luogo colmo di bontà, una terra dove scorre latte e miele, là dove si stendono prati d’erba fresca a perdita d’occhio nei quali le mammelle delle pecore si riempiono di latte e le api succhiano svelte il nettare dai fiori. Ma è anche categoria che implica inevitabilmente quella di deserto, di fame, sete, scoraggiamento, e persino rivolta: meglio erano le cipolle d’Egitto di questo cibo del deserto che ci è venuto a nausea! Ed era la “manna”, che miracolosamente scendeva ogni giorno dal cielo per sfamare il popolo, e questo “per quarant’anni” (Es 16,35), un cibo che però non poteva bastare ancora: ciò che d’altra parte era stato promesso era infatti  ben altra cosa.

Dio non libera come nulla fosse, ma con fatica, e ha persino bisogno di qualcuno che lo aiuti, di qualche intermediario tra sé e il popolo: un sacerdote, un re, un profeta un testimone. E aveva allora scelto di contattare Mosè, un uomo che si trovava anch’egli in un luogo di fuga, nella terra di Madian, e che scelse di visitare proprio mentre era solo a pascolare le pecore di suo suocero là, “oltre il deserto, nel monte di Dio, l’Oreb” (Es 3,1). Era un uomo di poco conto ormai, caduto molto in basso: allevato alla corte di Faraone si trovava ora esiliato con addosso la paura di venire ucciso. Quando Zippora gli darà un figlio lo chiamerà “Gherson, perché diceva: ‘Sono un emigrato in terra straniera” (Es 2,22).

Già usciti attraverso le acque del Mar Rosso che, richiudendosi improvvisamente travolsero faraone, carri e cavalieri, gli israeliti si ritrovarono a un certo punto insieme a Mosè proprio lì, accanto a quella stessa montagna, dalla quale più avanti Dio darà le sue leggi a Israele e stipulerà l’alleanza. “Ma non c’era acqua da bere per il popolo. Il popolo protestò contro Mosè: ‘Dateci acqua da bere!’. Mosè disse loro: ‘Perché protestate con me? Perché mettere alla prova il Signore?’. In quel luogo dunque il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: ‘Perché ci hai fatti uscire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?’. Allora Mosè invocò l’aiuto del Signore, dicendo: Che farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!’. Il Signore disse a Mosè: ‘Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani di Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà’. Mosè così fece sotto gli occhi degli anziani di Israele. Si chiamò quel luogo Massa e Meriba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: ‘Il Signore è in mezzo a noi sì o no?’” (Es 17,1-7).

Ecco, qui anche Dio è messo alla prova, la prova di Dio e quella dell’uomo in qualche modo si appartengono e sono vissute con una stessa intensità di attesa. Un’attesa che nasce da un bisogno simile: non è soltanto l’uomo che ha bisogno di Dio, è anche Dio che ha bisogno dell’uomo. Così che Dio, decidendo di mettere alla prova il popolo, si trova in una posizione di forza e di debolezza insieme. Un unico destino lega fin dall’inizio indissolubilmente Dio alle sue creature: o insieme ci si salva o insieme si perisce.

 

Per comprendere meglio iniziamo da uno dei nomi messi a quel luogo: “Massa”, che sembra volere dire prova e tentazione insieme. Il popolo che protesta mette dunque Dio alla prova, lo tenta. È come se gli dicesse: vediamo se sei davvero quello che dici di essere, se sei un Dio che salva le sue creature e che mantiene le sue promesse. Ci sono parole molto potenti in questo senso nella Scrittura sacra: “Per te ogni giorno siamo messi a morte, / stimati come pecore da macello. / Svegliati, perché dormi, Signore?” (Sal 44,23-24). È vero, noi siamo di memoria corta, ci scordiamo in fretta delle cose buone che Dio ci ha regalato mentre subito diventiamo esigenti con quanto ci manca. Eppure anche Dio ha bisogno ogni tanto che qualcuno gli ricordi qualcosa, un po’ come se Dio stesso sia di memoria corta. Fu questo del resto il motivo per cui dopo il diluvio fece apparire l’arcobaleno sulle nubi: vedendolo egli ricorderà (Gen 9,15). Quell’arcobaleno è “un promemoria per Dio” ha detto giustamente Paolo De Benedetti, Dio potrebbe dimenticare la sua alleanza, le sue promesse e allora è necessario che qualcosa o qualcuno glielo ricordi. E glielo ricordi non soltanto per sé ma anche per tutto ciò che ci vive intorno, per tutte le creature. “L’arcobaleno -  dice ancora Paolo De Benedetti – è come la preghiera del creato in angoscia” (A sua immagine).  Muta è la natura – dice Benjamin, e profondamente triste, a saperlo udire “ovunque solo un albero stormisce, echeggia insieme un lamento. La natura è triste perché è muta”. Perciò sta a noi “uomini parlanti” il dovere di prestare a lei la voce per la contestazione, per la lotta di chi chiede ragione e giustizia. (Scritti filosofici).

E qui Benjamin si scosta non poco dal concepire le cose dal punto di vista di una pazienza che molto confida nella Provvidenza celeste, come sembra invece a tratti accadere a Kierkegaard, per il quale cercare prima di tutto il Regno di Dio e la sua giustizia è semplicemente attendere, andando a scuola dal giglio del campo e dall’uccello del cielo. “L’uccello tace e attende: sa, o meglio, crede fermamente che tutto avverrà a suo tempo, perciò l’uccello attende. Ma sa pure che non gli spetta sapere il giorno e l’ora, perciò tace”. E così è per il giglio, che “non chiede impaziente ‘quando arriva la primavera?’, perché sa che arriverà a tempo opportuno” (Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo).

Il fatto è che “come angelo infermiere” al capezzale di Benjamin c’era Kafka, il Kafka de Il Processo soprattutto, che lo spingeva a quell’“Idea di un mistero” secondo cui la storia avrebbe anche potuto essere rappresentata “come un processo nel quale l’uomo in veste di avvocato della muta natura sporge contemporaneamente querela contro la creazione e contro la mancata venuta del Messia promesso” (In G. Scholem, Storia di un’amicizia). Ma non attinge qui Benjamin dalle stesse premesse di san Paolo quando nella Lettera ai Romani parla di una creazione che geme e soffre in attesa di redenzione? Come ha giustamente evidenziato Jacob Taubes, qui “non si tratta di una preoccupazione ecologica”, qui Paolo “ha percorso il mondo come Kafka, senza mai descrivere né menzionare un albero. Conosco - dice ancora Taubes - tipi simili a Gerusalemme. Non scrivono: caro amico il tempo è bello, oppure la natura intorno a me è splendida – di tutto ciò non si accorgono affatto… Provate a scorrere i romanzi di Kafka e controllate se vi compare un albero. Forse uno contro cui piscia un cane”. In questi contesti tutti di stretta derivazione ebraica con millenni che li separano, resta il fatto che la natura è sì importante ma solamente come creazione e soprattutto come “categoria escatologica”, sottolinea ancora Taubes: “Essa si lamenta sotto il peso della fugacità, della vanità. Che cosa significa ‘geme?’ Paolo spiega che anche noi gemiamo. Per preghiera dovete intendere qualcos’altro rispetto al canto nella Chiesa cristiana: pregando si grida, si geme, si prende d’assalto il cielo” (La teologia politica di san Paolo).

E si potrebbe continuare ancora su questo essere fortemente legati alla storia e mai alla natura intesa come cosmo ordinato fine a se stesso che sta là maestosamente perfetto e ammirabile coi suoi cicli eterni del sempre uguale che si ripete a ogni stagione. No, la natura è sorella per l’uomo, creatura quanto lui, come diceva il poverello d’Assisi. E se la natura è dono per l’uomo che la deve coltivare e custodire, nondimeno “con l’apparizione dei figli di Dio ‘e per la loro apparizione la natura che mai non salta, fa il suo unico salto, e invero un salto di gioia, perché si sente per la prima volta giunta al suo fine’ (Nietzsche). Anche il mondo è eterno: eterno in Dio come mondo del nuovo cielo e della nuova terra … ‘Ora veramente la terra deve diventare un luogo di risanamento e già si spande su di essa un nuovo profumo, un profumo salutare e una nuova speranza’ (Nietzsche)” (L’Epistola ai Romani), e non è un caso che qui Karl Barth non fa che citare ripetutamente Nietzsche.

È tutta ebraica l’idea di entrare in contesa con Dio non tanto per sé ma per chi si ritiene attorno a sé bisognoso di salvezza e d’aiuto, per ogni creatura che ci è sorella. Abramo contende con Dio che vuole distruggere Sodoma, cerca di prendere le difese di quella città e questo in nome della giustizia di Dio, della bontà e misericordia di Dio. Così Mosè, che arriva a prendere per il bavero Dio in difesa del suo popolo. Ed è qui che scaturisce l’estremo contrasto: da una parte il giusto prende le difese del fratello anche se è peccatore, ma dall’altro grida a Dio ‘Fammi giustizia!’, se vede attorno a sé gli empi che se la spassano mentre a lui è data una tribolazione senza fine, come accadde nell’esperienza di Giobbe.

C’è un limite oltre il quale la pazienza deve lasciare posto all’impazienza, all’urgenza, alla fretta dell’intervento di giustizia divina. E se questo tarda ad accadere, allora si va alla porta del Giudice e si bussa fino allo sfinimento, proprio come fa la vedova importuna della parabola evangelica, la povera vedova nel cui cuore vibra quella fede, quella fiduciosa, impaziente attesa che il Figlio dell’Uomo teme di non trovare più “sulla terra” al suo ritorno (Lc 18,1-8). Il venire meno della lotta e della forza di contestare quel che di ingiusto e terribile avviene intorno a noi è una cosa sola col venire meno della fiducia e della fede. Chi smette di credere e attendere non grida più, non bussa più ad alcuna porta, non se la prende più con Dio. Semplicemente si rannicchia nel suo cantuccio rassegnandosi alle cose come stanno perché ormai si è serenamente convinti non solo che non cambieranno mai, ma che forse così dev’essere e che addirittura questa sia la volontà di Dio. Ma non è questa della resa la tentazione più grande dal punto di vista della fede? Non è il male più grande per la vedova quello di non bussare più alla porta e dunque di non pretendere e nemmeno attendere più giustizia? Non è questo che dice lo schernitore beffardo nella seconda Lettera di Pietro?, “Dov’è la promessa della sua venuta? Dai giorni in cui  i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione” (3,4). “L’esilio vero d’Israele in Egitto - diceva rabbi Hanoch - fu che gli ebrei avevano imparato a sopportarlo”.

Non è proprio dunque l’abbandono della speranza e dell’attesa il vero male? Là dove c’è lotta e contesa, là dove si grida, la fede è in qualche modo ancora viva e forse più viva che mai, anche se il prezzo è quello di mettere Dio alla prova, di provocarlo. Sì Dio che sta rinchiuso nel suo silenzio, Dio che sembra avere dimenticato la fame e la sete dei suoi miseri va scosso, a lui va ricordato quanto ha promesso. Cos’altro è il grido di fede delle prime comunità cristiane se non questo grido d’impazienza rivolto al cielo e che Paolo amò scrivere con la sua stessa “mano”: “Maràna tha!”, “O Signore, vieni” (1Cor 16,21-22)?

 

Daniele Garota

(1. continua)

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