Koinonia Febbraio 2023


DA BENEDETTO A FRANCESCO*

 

<…> Quanto allo stato in cui versa la Chiesa attuale, esso non è meno grave di quello del tempo di Innocenzo, se un papa ha dovuto dimettersi auspicando che altri, più energici e liberi di lui, riescano ad imporre qualche cambiamento. Ed ecco riapparire l’immagine del frate di Assisi a sostegno dell’uomo scelto per l’opera di riparazione. Riapparizione, bisogna dire, di straordinaria efficacia comunicativa, in grado di far mutare di colpo immagine alla Chiesa devastata dagli scandali recenti. Come pezzi di un puzzle provvidenzialmente ritagliati, la figura simbolicamente carica di Francesco va a incastrarsi in quella di Benedetto, che gli ha aperto la via con la propria umile rinuncia. Così la frattura potrà, almeno ai più, già sembrare sanata, la continuità ristabilita; quanto alle urgenti riforme, si vedrà quel che ne verrà lungo il processo di ricomposizione dei rapporti di forza. A meno che papa Francesco non intenda procedere davvero in modo chirurgico, operando direttamente sul punto critico attorno a cui si attorcigliano tutti i giochi di potere e le conseguenti distorsioni, cominciando a ristabilire quella condizione di povertà materiale che è condizione imprescindibile laddove il compito è eminentemente spirituale, e lo faccia con gesti pubblici inequivocabili, come quello con cui Francesco restituì le vesti al padre.

Sì, perché le riforme auspicate da Küng, per quanto necessarie e urgenti, non saranno sufficienti se non accompagnate da un siffatto atto di restituzione, a meno di considerare oramai irreversibile l’istituzionalizzazione della vita cristiana, che è altra cosa da una comunità fondata su rapporti personali sostanziati dalla fede nell’incarnazione e nella resurrezione. Il problema non è dunque relativo soltanto a una gestione più trasparente e partecipata dell’istituzione, ma riguarda innanzitutto il fatto che storicamente la Chiesa si è concepita come una struttura giuridica, statuale avocando al suo vertice il governo di tutti i rapporti interni e come tale si è confrontata con i poteri civili, in spirito di dominio prima, di concorrenza poi. E dunque la povertà cristianamente intesa non è solo un ideale mistico, bensì ciò che determina i rapporti tra gli individui nel segno dell’amore piuttosto che del potere. È a questo che pensa papa Francesco quando auspica una «Chiesa povera e per i poveri»?

Forse sì, ma in questo caso meglio sarebbe che gli atti venissero prima delle parole, per togliere il dubbio che si stia ancora una volta parlando di «povertà spirituale», mentre per la Chiesa la situazione è tale che soltanto una effettiva povertà materiale può far rinascere in essa lo spirito di povertà. Vale a dire in concreto l’effettiva rinuncia quanto meno alla gestione diretta dell’enorme massa di beni posseduti e insieme la rinuncia unilaterale alla persistenza di una entità statuale inscindibilmente collegata alla Santa Sede, che fa del papa un sovrano, a prescindere dall’ideale a cui si ispira. Se e finché questo non accade, l’immagine pubblica di un papa povero che dice belle parole rischia di servire da schermo involontario a una realtà impermeabile al cambiamento. O comunque induce a ridurre una drammatica questione concernente la condizione attuale del cristianesimo a un problema di moralizzazione di una parte dei vertici ecclesiastici, eccessivamente intrigati dalla gestione degli affari e tentati da logiche di potere. Lo hanno capito subito i nostri politici, almeno quelli che stanno dalla parte della moralizzazione della vita pubblica e ora trovano una sponda contro la corruzione nelle parole alte ed evangelicamente sostenute del papa. Ma c’è anche un altro e più sottile modo di sfruttare l’imprevisto di papa Francesco a tutto vantaggio dell’istituzione ecclesiastica, ed è quello di proiettarlo nell’agone-massmediologico in veste di apostolo delle genti nell’universo globalizzato. Ecco, ad esempio, come il cardinale Ravasi si rappresenta

l’impegno che attende Papa Francesco e l’intera Chiesa: uscire dal grembo protetto, ove pure è necessario sostare, per entrare nelle metropoli; varcare le soglie del tempio, dove è certamente indispensabile vivere la diretta comunione con Dio, ed entrare nella piazza, anzi nella rete sociale, virtuale, economica, culturale che avvolge il nostro globo. I suoi primi atti sono stati limpidi ed essenziali proprio in questa direzione. [...] È la grandezza dell’essenzialità che la Chiesa deve saper ritrovare nel suo comunicare, senza temere di inoltrarsi sulle strade informatiche, telematiche e digitali: per annunciare il suo messaggio.

Insomma un invito a proiettarsi al di fuori con rinnovato slancio verso un vasto, suggestivo, variegato mondo, ricco di contraddizioni, attese e nuove risorse, a condizione, certo, che «si tenga alta la purezza della Parola e della testimonianza, abbattendo nella Chiesa ogni scandalo, ogni arroganza, ogni ipocrisia». Dubito che chi si è chinato a baciare i piedi dei reietti di questo mondo possa ritrovarsi in questa entusiastica visione missionaria, che tutto abbraccia per non fare i conti con sé stessi, per non sporcarsi con niente. Bergoglio al contrario si è sporcato con i poveri e si è sporcato, poco o molto non so, anche con il potere politico, ma non è un problema se ci si riconosce peccatori e si cerca pubblicamente il perdono. Anzi, si può sperare che, con questa dura esperienza sulle spalle, egli saprà da papa tenersi lontano dalle collusioni con i poteri di questo mondo, a cui i suoi predecessori raramente hanno saputo sottrarsi, fino a trovarsi impigliati nelle reti di feroci dittature. A confermarmi in questo senso ci sono alcune parole che egli ha pronunciato, parole che sono tra quelle poche che Simone Weil considerava perfettamente pure e perciò in grado di illuminare e tirare verso l’alto. Ai giornalisti che avevano seguito il conclave ha detto:

Il vostro lavoro necessita di studio, di sensibilità, di esperienza, come tante altre professioni, ma comporta una particolare attenzione nei confronti della verità, della bontà e della bellezza; e questo ci rende particolarmente vicini, perché la Chiesa esiste per comunicare la Verità, la Bontà e la Bellezza “in persona”.

Sono parole che può pronunciare soltanto chi ha fede nell’esistenza della verità, del bene, della bellezza, che il cristiano Bergoglio vede perfettamente realizzate nel Cristo, ma che vorrebbe fossero di per sé presenti a quanti in ogni settore della vita pubblica hanno l’incarico di mostrare cose vere, buone, giuste, belle; cose degne di ammirazione, perché è da questo che in definitiva dipende che si ponga un argine al tumulto delle menzogne, delle propagande e delle opinioni che fomentano ingiustizia, bruttezza, irrealtà. Di siffatte parole potenti il nostro tempo ha bisogno, ma perché la Chiesa ne faccia uso legittimo deve lasciarsene impregnare, altrimenti risuoneranno a vuoto nel fluire indifferenziato del vaniloquio collettivo. Dunque, caro Goffredo, va bene sperare nel meglio, ben venga un profeta se è autentico, ma nella misura in cui ci assumiamo un ruolo pubblico, tocca innanzitutto a ciascuno di noi credere nella verità, nel bene, nella giustizia e nella bellezza.

        

Giancarlo Gaeta

In attesa del Regno, Quodlibet 2022, pp.140-43

 

* Nel libro di Giancarlo Gaeta In attesa del Regno, un capitolo porta il titolo Da Benedetto a Francesco. Lettere aperte a Goffredo Fofi, l’interlocutore che gli aveva chiesto di scrivere sulle dimissioni del papa. La prima lettera è del 26 febbraio 2013, all’indomani delle dimissioni; ma ad essa segue una seconda del 24 marzo 2013, che registra la sorpresa di parole e comportamenti di Papa Francesco. Parte di questa seconda lettera offre i termini per un giusto discernimento non solo di quel passaggio ma anche dello stato delle cose ai nostri giorni.

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