Koinonia Febbraio 2023


Domenica Bifoli testimone del "cambiamento d'epoca"

in atto a partire dal Vaticano II

 

LA FEDE NELLA STORIA, OGGI

 

<…> Vorrei tentare qui una modestissima riflessione circa l’esigenza di una “Chiesa mondana”. Questa esigenza è per una Chiesa vivente in una storia da intendersi non come profana o sacra, ma unica, ormai (dalla venuta di Cristo al suo ritorno), umana e cosmica, segnata, toccata, da un intervento sapienziale amoroso che la sospinge verso il suo autentico compimento.

Si richiamano poi gli elementi essenziali di fede fondanti questa esigenza, sui quali non è possibile soffermarsi, sia per la limitatezza del tempo a disposizione, sia perché considerati come acquisiti. Mi sembra opportuno insistervi, poiché non è affatto sicuro che, accettati come dati di fede, essi siano anche messi in stretta relazione con l’esigenza di una “Chiesa mondana”. Occorre vedere le connessioni profonde per non lasciarsi andare a gratuiti sospetti di secolarismo.

Dunque, l’esigenza di cui parliamo dev’essere compresa e accolta nel cuore della confessione cristiana , là dove essa riconosce e proclama: il Dio Padre  Creatore; che ha dato, per la vita del mondo, il suo Figlio Gesù Cristo; il quale tornerà alla fine dei tempi, quando avverrà la risurrezione dei corpi.

Oggi possiamo, con più  chiarezza di venticinque-trent’anni fa, vedere fondata su questi supporti di fede l’affermazione di una Chiesa “senza frontiere”, che non solo è nel mondo, ma è per il mondo (ancilla humanitatis), ed è “mescolata”, “consegnata” al mondo, per vari aspetti essa stessa “mondo” .

Oggi possiamo misurare almeno un poco attraverso quale complesso di ricerche, di esperienze, di contrasti, di dolori siamo arrivati a questa tutt’altro che tranquilla visione.

A quelli della mia generazione che hanno seguito i dibattiti del dopoguerra, intorno agli anni ‘50, fino al Concilio Vaticano II e oltre, sulla teologia della storia,  delle realtà terrestri, del mondo in rapporto a Cristo, al Regno, alla Chiesa, all’esistenza cristiana, appare ora in tutta evidenza lo sforzo di approfondimento e di “raddrizzamento vigoroso che a poco a poco ha concentrato le ricerche sui rapporti dinamici fra la creazione e la redenzione comprese nell’unico disegno divino e, contemporaneamente, sui rapporti fra l’attività umana e l’avvento del regno di Dio.

Forse non occorre fare nomi. Ognuno ha i suoi “maestri”, i suoi “santi”, i suoi incontri forti.  Mi sia permesso un accenno soltanto: ci sarà chi ricorderà con me la commozione, di cuore e di  spirito, che ci lasciò la lettura, allora rara da noi,  del denso volumetto di E. Mounier, L’affrontement chrétien, e l’ardente invito della chiusa: “Ma allora [il cristianesimo] innalzi la grande vela sull’albero maestro, e, uscito dai porti in cui vegeta, navighi verso la stella più lontana, senza badare alla notte che l’avvolge”.

Ci sarà chi ricorderà i ricercatori infaticabili e coraggiosi, alcuni dei quali sono ora i teologi anziani, sempre sulla breccia, animati da intensa passione missionaria: quelli che riattinsero e insegnarono a riattingere profondamente alle fonti bibliche; che accettarono e insegnarono ad accettare l’ascolto del mondo (non a “inginocchiarsi davanti al mondo”), non soltanto alla luce della fede, ma anche alla luce di ciò che esso dice all’intelligenza dell’uomo; quelli che sostennero la faticosa gestazione teologica necessaria per porre le connessioni vitali fra nuove esperienze cristiane e contenuto e stile di magistero e di governo rinnovati, nella Chiesa, quali si sarebbero espressi nell’ultimo concilio ecumenico.

Passo dietro passo, molte dicotomie, molti frazionamenti, molti insularismi cedevano. Era la viva esperienza cristiana, insieme alla riflessione teologica, stimolata dalle sfide crescenti del mondo, a sottoporli a giudizio e a sconfessarli. Che cosè  questa “vita del mondo” per la quale crediamo che Cristo è venuto? Non è già tutta questa vita reale, questa storia che stiamo vivendo, facendo il mestiere di uomini? Che cosa di questa nostra attività, è profano, che cosa è sacro; che cosa ha attinenza al regno di Dio, che cosa concerne “solo” il regno terrestre dell’uomo?

Domande insistenti della nostra giovinezza; domande che ritornano sempre, con diverse connotazioni. Ma intanto, le distinzioni classiche di naturale e soprannaturale, di temporale e spirituale, di profano e sacro ci si rivelavano ben insufficienti per il giudizio storico sull’agire dell’uomo, di quest’uomo che vedevamo sempre più impegnato nella lotta per il dominio del cosmo, sempre più lacerato e per la mancanza di pane e per la mancanza d’amore.

Riscoprivamo che certo rifiuto del mondo era stato più naturale che soprannaturale; che niente di questa realtà mondana può essere condannato alla insignificanza o alla neutralità; che tutto vi ha una consistenza, un sacro originario, in virtù della creazione e redenzione: tutta la vita del mondo, tutta la storia dell’uomo e dell’universo è avvolta nello stesso amore creatore e redentore, la cui chiave di volta è Gessi Cristo. “Le successive alleanze non devono far dimenticare la prima [quella della creazione] che è condivisa da tutti gli uomini. L’avventura umana non deve essere ridotta ad una specie di ‘ghetto’ giudeo-cristiano senza collegamento con l’impulso religioso di ogni uomo di buona volontà” (Jacques Grand’Maison, Il mondo e e il sacro, Roma 1969, p. 17).

Deus qui humanae substantiae dignitatem mirabiliter condidisti et mirabilius reformasti: l’uomo ritrovi faticosamente ma sicuramente il mondo creato come casa del Padre, tempio di Dio, e nello stesso tempo ritrovi tutta la nobiltà della sua sovrintendenza sulle altre creature: è certo dono di “rigenerazione” che viene dalla morte  e risurrezione di Cristo; è apporto radicalmente nuovo, questo, ma nel prolungamento della prima missione data all’uomo nell’ordine della creazione; data all’uomo, e non solo a coloro che visibilmente si sono trovati nella condizione di cogliere la rivelazione.

La Chiesa era stata per noi, nella prima giovinezza, quasi un mondo a parte; l’istituzione aveva lasciato poco trasparire il fondo umanissimo del messaggio biblico, pretendendo di dare al “mondo” una relazione a Dio che fosse “istituzionalmente ecclesiale”. “Portare il Cristo al mondo”, “consacrare il mondo a Cristo”, ci si diceva; e questo aveva e conserva un suo valore di verità, perché solo il cristiano sa, nella fede, e può avere la coscienza teologale della presenza attiva dello Spirito del Signore nel mondo. Ma era mancata forse, un’altra coscienza teologale o, almeno, essa era rimasta a lungo offuscata: benedizioni e e consacrazioni erano apparse più come infusioni, aggiunte di sacro dall’esterno che non riconoscimento, ringraziamento, assunzione e offerta di bontà originale della creazione, nonostante il peccato  sempre presente. Ora questa coscienza si  faceva chiara, e per essa diventava operante un’attitudine nuova: di discernimento, di simpatia, di partecipazione ai dinamismi positivi all’opera nel nostro tempo,  in lotta contro il pessimismo, il nichilismo, l’accecamento sul senso del mondo e dell’esistenza che spingono alla guerra, allo sfruttamento, a ogni sfrenatezza.

Superati gli anni amarissimi della guerra e del dopoguerra, le nostre povere speranze terrene rifiorivano; speranze nostre, cioè di tutti, ma vorrei dire in particolare dei cristiani, che andavano forse imparando un po’ meglio la fraternità con gli uomini; speranze vivificate dalla croce profondamente piantata nel cuore dei nostri insuccessi e dei nostri mali; speranze di pellegrini della risurrezione protese con più slancio, ora, a un operare visibile con tutti gli uomini, sui difficili sentieri terrestri, verso la terra nuova e i cieli nuovi.

Erano gli anni di papa Giovanni. Potremmo rileggere il suo discorso all’apertura del Concilio Vaticano II, l’11 ottobre 1962, la sua condanna dei “profeti di sventura”, il suo incitamento a riconoscere “i disegni della provvidenza divina che, attraverso la successione dei tempi e le opere degli uomini, il più delle volte contro ogni previsione, raggiungono il loro fine e dispongono tutto con saggezza”.

La Chiesa che è uscita dal Concilio, la Chiesa di questi ultimi anni è una Chiesa che sa di non potersi costruire separatamente, al di  fuori della teologia di tutto il mondo creato, di tutte le opere volte al bene umano, di tutte le solidarietà e intercomunioni delle creature fatte per l’unico Signore. È la Chiesa di noi che sappiamo questo, ma non sappiamo incarnarlo in modo da renderlo visibile.

Non è mio compito - né mi basterebbero le forze - tentar di chiarire le complesse vicende attraverso le quali è passata e passa la  comprensione dei rapporti Chiesa-mondo negli ultimi decenni.

Senz’ombra di esagerazione, mi pare di poter dire che difficilmente i più  giovani possono capire il travaglio di chi ha fatto il cammino a cui ho appena accennato.

Tocca ora a noi, ma soprattutto tocca a loro, negli  anni che vengono, applicarsi a un compito urgentissimo fra altri, necessaria conseguenza, in ogni epoca, della verità della creazione-incarnazione-redenzione: il compito di “traduzione delle fonti riscoperte” (traduzione che le rispetti e le ripresenti) in un quadro di pensiero e di linguaggio che valga per il nostro tempo.

 

Domenica Bifoli

 

In Un cammino nella fede. Esperienza ecclesiale e impegno culturale oggi in Italia, AVE Ed. 1977, pp.19-25

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