Koinonia Gennaio 2023


I GIORNI DI ABRAMO (III)

 

Parte terza: Sacrificare figli

 

La volta scorsa abbiamo riflettuto su come l’autore della Lettera agli Ebrei abbia voluto vedere nell’episodio del sacrificio di Isacco un “simbolo” di ciò che la fede d’Israele è pian piano  riuscita a far entrare nel proprio cuore: la speranza nella risurrezione dei morti. Abramo cioè sarebbe riuscito con la sua fede a sperare a tal punto l’impossibile, da credere di poter riottenere da Dio il figlio in carne e ossa anche dopo averlo sgozzato come un agnello. E chissà che in questo senso non sia stato anche quello uno dei momenti in cui Abramo stava col suo agire guidando Dio, stava cioè dando indicazioni più o meno precise a Dio riguardo al futuro? Un po’ come se Dio avesse detto tra sé, leggendo nel cuore di quell’uomo: ma questo è a tal punto capace di affidarsi a me e alla mia potenza che potrebbe persino credermi in grado di far risorgere un morto!

Qui Abramo aveva a che fare con una solitudine infinita: nessuno, proprio nessuno lo avrebbe compreso, egli era su una vetta battuta da un vento così impetuoso che in ogni istante avrebbe potuto farlo inesorabilmente cadere a terra. Credere è un equilibrio instabile che crea angoscia, non un tranquillo star solido in tutta sicurezza. In quell’istante nel cuore di Abramo avveniva qualcosa che solo Dio poteva comprendere, nessun altro. Chi ha provato anche una sola sfumatura di tale solitudine conosce il grado di sofferenza che essa comporta. Qui c’è quella che Kierkegaard ha chiamato “la spaventosa responsabilità della solitudine”. Se aprisse bocca nessuno lo capirebbe, egli in quel momento avrebbe potuto parlare soltanto un linguaggio divino, una lingua che soltanto Dio avrebbe potuto comprendere. Qui siamo davvero davanti alla parola di Dio espressa nel più potente silenzio, un silenzio capace di dire più di ogni parola, un silenzio che parla ancora a noi oggi a saperlo ascoltare.

Qui, in questi istanti di infinita angoscia e silenzio, quando con mano energica si avviava a sferrare il colpo mortale su Isacco, egli stava entrando nel “movimento infinito della rassegnazione”, egli stava cioè rinunciando a Isacco e a tutto quello che Isacco avrebbe significato per tutti, anche per noi oggi che stiamo leggendo e ascoltando questo silenzio di Abramo. No, dice ancora Kierkegaard, “questo nessuno lo può capire, perché è un affare privato”.

Ma accanto al movimento di estrema rinuncia vi è in Abramo, al tempo stesso, un altro movimento esattamente contrario a quello della rassegnazione, una sorta di contraccolpo: “il movimento della fede”, un movimento che improvvisamente lo consola, e lo consola proprio perché in un istante gli fa percepire di non essere solo, ma che Dio è lì con lui, nella stessa angoscia e nello stesso dolore, un movimento che gli fa dire tra sé: no, non accadrà, non accadrà che Isacco muoia per mano mia, ma se dovesse accadere, “Dio allora mi darà un nuovo Isacco in forza appunto dell’assurdo”. Il movimento della fede è dunque quello che ci permette di continuare a desiderare ciò a cui abbiamo dovuto, per fede, rinunciare, e proprio per questo desiderarlo con una forza infinitamente superiore a quella con cui la desideravamo prima della rinuncia. Il Cristo che ci chiama a rinunciare alla nostra vita lo fa perché soltanto così riusciremo a riscattarla, a desiderarla davvero, a non perderla. Ma non nel senso di acquistare qualcosa nell’aldilà quasi fosse un’altra vita. No, Gesù intendeva il riscatto di questa vita qui, intendeva la risurrezione del nostro corpo con tutto ciò che nella vita terrena abbiamo vissuto giorno dopo giorno. “È una cosa grande afferrare l’eternità – dice ancora Kierkegaard -, ma è più grande mantenere la realtà temporale dopo averla abbandonata” (Timore e tremore).

 

Dobbiamo essere sinceri, ogni tanto ci viene di pensare il rapporto tra fede e ragione, di considerare ottimisticamente che infondo non esista nulla di irragionevole nella nostra fede. Ma è proprio così? O non esiste forse un momento in cui alla fede si può giungere soltanto in forza dell’“assurdo”? E non è forse grazie alle nostre insicurezze e debolezze che può fondarsi la nostra fede e la nostra speranza in Colui che può molto più di noi? “La fede spera anche per questa vita, ma – lo si noti bene – per via dell’assurdo e non dell’umana ragione; altrimenti è semplice saggezza di vivere, non fede”, dice Kierkegaard (Diario). E ancora: “Sono proprio la paura e il tremore dell’incertezza che costituiscono la prova essenziale e vera che si ottiene la felicità attraverso la grazia. È qui – conclude Kierkegaard – che si trova la fede, a pari distanza esattamente dalla disperazione e dalla certezza” (Discorsi cristiani).

Insomma, capire Hegel sarà difficile, ma non quanto capire uno come Abramo. È infatti proprio dove il pensiero finisce e non può più fare nulla che inizia il vero compito del credente, il quale tuttavia, mai tende a rinunciare alla forza del proprio pensiero e delle proprie domande. Nessuno prima di Abramo aveva osato entrare in contesa con Dio, e quando lo farà non sarà mai tuttavia per salvare qualcosa di se stesso, piuttosto qualcosa di Dio e degli altri, la sorte degli abitanti di Sodoma per esempio, di coloro che secondo Dio avrebbero meritato subito di essere distrutti. Insomma, dietro quel contendere con Dio c’era sempre un grande interesse per la giustizia di Dio: “Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?” (Gen 18,25). Sembra essere in contraddizione con quanto si diceva prima, ma in realtà la vera grandezza dell’uomo di fede nasce proprio dall’agape, da un amore che non pensa mai per sé, ma per Dio e il prossimo. Abramo non dice nulla e si avvia in silenzio verso il monte a sacrificare Isacco, è cosa che riguarda lui, le promesse fatte a lui, il figlio suo, che è in definitiva una cosa sola con lui, figura questa che rimanda a quella tutta trinitaria del Padre che è una cosa sola col Figlio.

C’è un midrash straordinario in cui si descrive il momento in cui Abramo “dispose la legna e legò il figlio sull’altare, sopra la legna; fece forte il suo braccio, si rimboccò le vesti, e puntò su di lui le ginocchia, con gran forza (‘come fa un uomo quando scanna un bove, perché non scalci’, aggiungono altri). E il Santo – benedetto il nome di lui – vide come fosse uguale il cuore d’ambedue. E sgorgarono lacrime da Abramo e caddero su Isacco, e da Isacco caddero sulla legna, che subito fu inondata dalle lacrime” (Il canto del mare).

Ma quando si tratta degli abitanti di Sodoma, allora è tutta un’altra cosa, perciò Abramo ne prende le difese davanti a Dio. La fede non è la luce di un momento, ma qualcosa che ha un inizio e che cresce nel tempo. Proprio perché è viva, la fede ha bisogno di nutrimento quotidiano, e se non la si nutre e custodisce può persino morire. Paolo parlerà della sua vita come di una “buona battaglia” combattuta per conservare la fede (2Tm 4,7), e qui Abramo è simbolo e padre di ogni credente, nel senso che è stato in grado di combattere contro le forze dell’incredulità e dell’impossibile fino all’ultimo dei suoi giorni.

E c’è poi, nella fede, una sorta di concentrazione potente capace di dirottare in un unico desiderio tutto il contenuto della propria vita e il significato della storia intera. Mancando questa concentrazione la fede si perderebbe nella “distrazione del molteplice”, in una continua corsa verso gli “affari della vita”. “Le nature più profonde - dice ancora Kierkegaard – non dimenticano mai se stesse e non diventano mai qualcosa di altro da quel che erano”. E questo senza mai perdere in vitalità, creatività e coraggio. È la perseveranza a salvarci dalle continue distrazioni che ci presenta il mondo, è quella a permettere al seme gettato in terra di mettere radici in profondità e portare frutto, come dice la parabola evangelica. Solo così, solo in virtù di questa perseveranza mista a inquietudine, si può continuare a credere anche là dove tutto è incredibile e assurdo. Ecco perché “Con la fede Abramo non rinunziò a Isacco ma con la fede Abramo ottenne Isacco” (Timore e tremore).

A caratterizzare la fede in Israele, è il bisogno di essere salvati e salvati presto, non la rassegnazione. Anche Gesù quando racconta la parabola della vedova che bussa con insistenza alla porta del giudice dicendogli: “Fammi giustizia contro il mio avversario”, lo fa per indicarci qual è il tipo di fede che teme di non trovare più “sulla terra” al suo ritorno (Lc 18,1-8).

 

Ma vorrei ora concludere con una delle riflessioni che Elie Wiesel fece nel 2000 presso l’Università di Bologna e che sono state pubblicate da Bompiani poco dopo col titolo: Sei riflessioni sul Talmud.

Riguarda il momento in cui Dio interviene a fermare il braccio di Abramo, e Abramo che osa rispondergli così: “So che non vuoi che uccida mio figlio, so che non sei crudele. E adesso vediamo chi cederà per primo. Infatti io non mi fermerò. Mi desti un ordine, ora lo compierò, a meno che…”. Va notato che adesso è Abramo che tiene in mano Dio, che osa dare ordini a Dio dicendogli: “Ascolta, se vuoi che mi fermi e salvi mio figlio, promettimi che ogni qual volta i miei figli avranno bisogno di te e ti invocheranno, risponderai”. E Dio non ebbe scelta. D’altra parte altrove nel Talmud si dirà come Dio ami “essere sconfitto dai propri figli”.

Certo sull’episodio del sacrificio di Isacco non si dovrebbe più finir di parlare, ma bisogna pur concludere, e lo farò raccontando un fatto accaduto davvero durante i terribili anni della Shoah.

In uno di quei campi di sofferenza immane ad un certo punto si odono delle urla di dolore straziante venire da fuori. I tedeschi stavano compiendo qualcosa di terribile contro tutti i bambini ebrei della zona. Udendo ciò una giovane donna nel campo si mette a dire a quelli che aveva vicino: “Ebrei, abbiate pietà di me e datemi un coltello”. Pallida come uno straccio quella donna sembrava avere uno strano fuoco negli occhi, tanto che alla maggior parte dei presenti sembrava che volesse uccidersi. Qualcuno cercò allora di dissuaderla, ma in quel momento ecco arrivare un tedesco giovane e alto come comparso dal nulla a vedere cosa stava succedendo. E quando si rivolse alla donna per una spiegazione ella disse: “Ho chiesto un coltello”. E mentre parlava continuava a guardare coi suoi occhi di fuoco il tedesco, e notando nella tasca superiore della sua uniforme un coltello gli disse con voce risoluta: “Dammi quel coltello!”. Il tedesco colto di sorpresa glielo diede. Immediatamente la donna si abbassò per raccogliere un fagottino di stracci che aveva ai suoi piedi. Lo aprì e su un cuscino bianco apparve un bambino appena nato che stava dormendo. Con mano svelta allora la donna aprì il coltello a serramanico e circoncise il bambino, recitando con voce sicura la benedizione e poi dicendo, con sguardo rivolto al cielo: “Dio dell’Universo, tu mi hai dato un bambino sano. Io ti restituisco un vero, autentico ebreo Kasher”. Poi si avvicinò al tedesco per restituirgli prima il coltello insanguinato e poi per porgergli il bambino sul cuscino.

Tra le lacrime qualcuno tra i presenti, rendendosi conto di come la circoncisione di quella madre avrebbe potuto scuotere le fondamenta stesse del cielo e della terra, volgendo lo sguardo verso l’alto disse: “Oltre ad Abramo sul Monte Moria, dove o Dio puoi trovare un gesto di fede più grande di quello di questa madre ebrea?”. (Da: Yaffa Eliach, Non ricordare… non dimenticare).

 

Daniele Garota

(3. fine)

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