Koinonia Gennaio 2023


AIUTIAMOLI A CASA LORO… MA SARÀ POI VERO?

 

Di questi tempi il calvario dei migranti è un dramma di cui non si può nemmeno immaginare la fine. Muoiono di freddo e di stenti nelle foreste innevate della Bielorussia, ai confini della Polonia, uno dei paesi dell’Unione Europea più determinati nei respingimenti, erigendo muri e intrecciando fili spinati. Muoiono a migliaia lungo la rotta mediterranea, al largo delle nostre coste… e i nostri governi hanno pure la spudoratezza di condannare le ONG che portano loro soccorso. E hanno pagato fior di quattrini ai libici per riportarli nei loro lager, in condizione di schiavi, a subire violenze di ogni genere.

A questo punto “aiutarli a casa loro” non sarebbe una cattiva idea… in apparenza. Il guaio  è che l’opinione pubblica è quasi completamente all’oscuro di cosa significhi “aiutiamoli a casa loro”. Noi di Ricorboli, almeno i meno giovani, dovremmo avere gli occhi un po' più aperti di altri su questo tema. Molti anni addietro venne da noi padre Zanotelli, che di lì a poco tempo sarebbe andato in missione in Kenia. In quell’occasione denunciò l’uso perverso degli “aiuti” che ogni anno l’Italia mandava alla Somalia, una sua ex colonia. Il denaro (si parlava di più di un miliardo di vecchie lire ogni anno, che per quei tempi non erano noccioline) veniva dato al governo di quel paese africano, dominato allora dal dittatore Siad Barre. Questo signore, ben lontano dall’idea di costruire scuole, o di servirsene per lo sviluppo agricolo o industriale del suo paese, con questi aiuti economici comprava armi prodotte dalle nostre fabbriche. Un ciclo perverso: in pratica il dittatore rafforzava i propri strumenti di repressione, mentre i soldi italiani finivano nelle tasche dei fabbricanti di morte nostrani. È solo un esempio come altri, come tanti. Gli unici canali che danno garanzia che gli aiuti ai paesi del Sud del mondo vadano a buon fine sono quelli gestiti dalle ONG grazie a un rapporto diretto tra queste  e i villaggi o le realtà urbane di Africa, Asia o America Latina. Una goccia nel mare.

Nei rapporti fra stati europei e stati africani anche oggi il modello è invece quello descritto dal nostro missionario comboniano.

Povertà, fame, malattie, guerre, espulsione dei contadini dalle terre su cui vivevano e lavoravano da generazioni, terre di cui si appropriano i ricchi del posto o le multinazionali straniere grazie a compiacenti concessioni governative. Masse di contadini senza terra vanno a riempire le baraccopoli dei grandi centri urbani del continente africano. Solo catapecchie, niente servizi igienici, non parliamo poi di scuole o ospedali; in compenso tanta fame e tante malattie.

E ci meravigliamo che vogliano andarsene a cercare un futuro migliore? Vogliono venire da noi, in tutti i modi. Ma noi non vogliamo vedere e, da brave anime belle, non ci chiediamo come mai facciano di tutto per riuscirci: viaggi massacranti con mezzi di fortuna, traversata di deserti a costo di morire di stenti e di sete, subire violenze da chi li rende schiavi nei campi di raccolta in Libia; e poi, per molti, la traversata del Mediterraneo, col rischio di andare a picco coi loro barconi; e infine per i sopravvissuti, i più fortunati, quelli che finalmente sbarcano in Italia, o in Spagna, o a Malta, una vita di stenti, a rischio espulsione.

Tutte queste cose le sappiamo. Le leggiamo ogni giorno sui giornali, le vediamo  nei vari programmi televisivi. Eppure ci chiediamo ancora perché vengono. Chiudiamo gli occhi di fronte ai rischi che comporta questo calvario: gli stupri, la morte stessa o, peggio ancora, vedere, impotenti, i propri stessi figli venire inghiottiti dalle onde, mentre gridano aiuto… Non vogliamo capire che per i migranti rischiare tutto questo è meglio dell’inferno che lasciano quando hanno deciso di partire?

Anni addietro, quando tornava per qualche tempo in Italia dalla sua missione in Kenia, padre Zanotelli, che operava a Korogocho, una baraccopoli di Nairobi di trecentomila abitanti, ci diceva che non sapeva quanti suoi parrocchiani che aveva salutato alla partenza avrebbe rivisto al suo ritorno: l’aids falcidiava vite in brevissimo tempo.

In linea di massima noi italiani, noi occidentali di fronte a tanto orrore ci vogliamo sentire innocenti: che c’entriamo noi con tutto questo? Ci spiace per loro, ma è forse colpa nostra se quei popoli non sanno risolvere i loro problemi? E poi non possiamo accoglierli tutti.

Ancora una volta giriamo la testa dall’altra parte.

Già di per sé popoli che hanno subito il colonialismo da parte del “civile” Occidente sono stati a lungo abituati a considerare naturale la loro sottomissione e oggi, pur avendo riconquistato la libertà, faticano, e non poco, ad affrancarsi dalla dipendenza da popoli “sviluppati” che li riempiono di manufatti (e anche di cose inutili e perfino dannose) ottenendo in cambio, a poco prezzo, materie prime pregiate come oro e diamanti, litio, uranio, coltan…

I loro capi attuali, talvolta dittatori a vita che si fanno chiamare presidenti, accettano di buon grado questo scambio ineguale che permette loro comunque di vivere nel lusso, mentre la maggioranza dei loro popoli subisce miseria e oppressione. E fanno ottimi affari con le imprese occidentali, e oggi anche coi russi e soprattutto coi cinesi che negli ultimi anni hanno realizzato una penetrazione capillare in tanta parte dell’Africa.

Apriamo gli occhi una volta per tutte. Dobbiamo renderci conto che il benessere di cui godiamo noi occidentali (un benessere peraltro precario se una epidemia di covid o una guerra come quella dell’Ucraina bastano per metterlo in forse) si basa sullo sfruttamento di intere popolazioni, grazie anche alla compiacenza dei loro stessi governanti. Quei pochi leader africani che si sono battuti per affrancare i propri popoli dalla dipendenza dagli stati più forti non hanno mai avuto vita facile e hanno fatto quasi sempre una brutta fine.

Noto con rammarico che anche coloro che sostengono la necessità di accogliere i migranti e di inserirli nel tessuto sociale dei propri paesi non affrontano quasi mai la questione della responsabilità dell’Occidente riguardo alle cause di questo dramma planetario. Non sarà perché poi non saprebbero cosa proporre di concreto?

Certo, oggi come oggi combattere il fenomeno della migrazione di massa dai paesi poveri verso i paesi del “primo mondo” implicherebbe una inversione di rotta rispetto agli indirizzi economici e politici di stampo neoliberista dominanti a livello mondiale.

Le multinazionali che nell’era contemporanea impongono le politiche degli stati non tollererebbero una perdita significativa dei loro profitti. Quanti colpi di stato hanno promosso e sostenuto in Africa e in America latina per impedire che un governo democraticamente eletto operasse nazionalizzazioni, seppure dietro indennizzo, per gestire in proprio le ricchezze del paese e servirsene a favore del proprio popolo?

Eppure solo politiche atte a creare lavoro e migliorare i servizi pubblici, dalla sanità alla scuola, innalzando così il tenore di vita dei ceti poveri dei paesi del Sud del mondo, sarebbero in grado, alla lunga, di ridurre drasticamente  i flussi migratori.

Utopie irrealizzabili? Nell’immediato certamente sì. Eppure qualche passo in questa direzione va tentato; è un nostro dovere morale.

Non mi sembrano del tutto inutili, né prive di concretezza, le parole di papa Francesco contro la produzione e il commercio delle armi. Una scelta di questo genere potrebbe avere una sua efficacia: meno armi ai governi autoritari dei paesi del Sud del mondo e di conseguenza una spinta in favore del loro sviluppo democratico. Di qui migliori condizioni di vita  e pertanto una minore necessità ad emigrare. È solo un piccolo esempio, ma potrebbe essere l’inizio di un cammino virtuoso.

 

Bruno D’Avanzo

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