Koinonia Dicembre 2022


MESSIANISMO DAL BASSO

 

Non è facile star dietro alle pubblicazioni in tema di fine della cristianità, agonia del cristianesimo, crisi della chiesa ecc… Ma tutto questo mentre di fatto l’acqua della pratica tradizionale e della prassi pastorale corrente continua a scorrere sotto i ponti della ricerca storica e della riflessione teologica, che di tutto parlano all’infuori delle condizioni reali della chiesa esistente e praticante. La quale, a sua volta, ignora del tutto quanto si dice di lei e dei suoi destini, come se non la riguardasse, mentre tutto procede secondo ritmi tanto ripetitivi quanto privi di senso “come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna” (1Cor 13,1).

Siamo in uno stato di aporia, secondo cui due sistemi, coerenti e risolutivi al loro interno, sono di fatto inconciliabili tra di loro: e così ci troviamo davanti a due mondi ecclesiali chiusi in se stessi, uno nel suo significato storico e teologico che ci parla criticamente di progressiva scomparsa della  fede cristiana sul piano socio-culturale, l’altro come concentrazione e affermazione di sé nella  prassi  che legittima se stessa in maniera a-critica: una variazione in tema di contra factum non valet argumentum. L’antinomia che ne deriva è di una chiesa sempre più irrilevante a livello pubblico e sempre più identitaria al suo interno, presenza storica residuale in un mondo oramai estraneo. Che potrebbe essere anche una condizione favorevole, secondo la Lettera a Diogneto, se non fosse che questa presenza è storicamente connotata e compromessa, e non è invece espressione di una chiesa allo stato nascente, strumento vivente di vangelo invece che “deposito di fede”.

Se questa è la situazione ambivalente in cui ci troviamo, è inevitabile chiedersi perché ci siamo arrivati, ma soprattutto capire come sbloccarla, anche se non sembra fare problema, e ciascuno avanza tranquillamente per la propria strada incurante dell’altro: quanti si dedicano ad analisi approfondite senza preoccuparsi che portino a qualche risultato che non sia il proprio discorso; quanti invece sono immersi nella loro prassi religiosa, e non fanno che gratificarsi dei loro aggiustamenti interni, senza minimamente lasciarsi sfiorare dal dubbio della loro insignificanza all’esterno.

La ricerca di una valenza pubblica - culturale e sociale - della fede cristiana non arriva ad attivare quel sostrato della chiesa praticante e celebrante che sembra essere l’immagine primaria della chiesa tout-court, e che a sua volta è refrattaria ad ogni stimolo critico, che la distolga dal convalidare se stessa e il proprio apparato. Mentre nel primo caso ci sarebbe da ripensare completamente la chiesa a partire dalla sua irrilevanza nel mondo, nel secondo caso la chiesa esistente non fa altro che rispecchiarsi in se stessa, o per convalidarsi ai propri occhi, non tanto per quello che è intrinsecamente come “vangelo di salvezza”, quanto piuttosto per quanto è in grado di fare e dare come autorità morale e come struttura sociale. C’è insomma una chiesa che fa di tutto per accreditarsi  davanti ad un mondo in cui appare già screditata!

A questo stato di cose siamo arrivati per il fatto che la dialettica tra l’immagine ideale della chiesa e il suo volto reale (vedi Ecclesiam suam di Paolo VI), promossa dal Vaticano II, di fatto non ha avuto seguito e siamo andati avanti attraverso polarizzazioni o di pensiero o di prassi, fino a ritrovarci al punto in cui siamo di blocchi contrapposti che risolvono al proprio interno le rispettiva dinamiche, senza mai entrare in rapporto dialettico tra di loro: tra una visione globale e critica  a carattere pubblico e le pratiche interne fine a se stesse. Viene da chiedersi: a cosa si riduce la dimensione universale del messaggio della salvezza, una volta ridotto ad appannaggio di pochi e a certe condizioni?

Ci sarebbe dunque da riattivare nei giusti termini una reale dialettica tra visione ideale e situazione reale, e non solo per ragioni di immagine, ma in ragione del “credere al vangelo” nel mondo, perché sono questi i termini ultimi in cui la questione si pone. E non sembri fuori luogo, se la questione ci chiama in causa direttamente. Per quanto ci riguarda, la percezione di come stanno le cose è tutta interna alla collocazione pastorale del momento, dopo che per anni e in tanti  modi il tentativo è stato quello di far coincidere e convergere la maturazione di coscienza e l’esperienza vissuta interna a quel nuovo Popolo di Dio pronosticato dal Concilio. Intendiamoci, si tratta di tentativi abortiti sul piano istituzionale, ma sempre in atto  nelle condizioni date, certamente non ottimali: e se in passato non erano funzionali ad una pastorale di sistema, ora sono affidati a sporadiche prestazione di servizio religioso da assicurare ai praticanti. Senza peraltro cambiare strada e prospettiva!

Anche in questo caso, non viene meno il proposito di tentare una convergenza tra il momento celebrativo “di precetto” e la consapevolezza di credenti nel mondo, senza facili ripiegamenti su se stessi. Ma è chiaro che per arrivare ad un minimo di sintesi e presa di coscienza comune si richiederebbero continuità e partecipazione attiva in un clima spirituale favorevole, condizioni non facilmente date, proprio perché un contesto mentale di “pratica religiosa” sembra negarsi ad ogni modificazione, che non sia quella di socializzazioni e facilitazioni che riducono la fede ad un guscio vuoto.

Questa semplice costatazione porta con sé anche una deliberazione, che è questa: se fino ad ora reggeva la fiducia di una possibile convergenza tra questi due mondi contrapposti, quello di una frequenza passiva ed indotta e quello di una partecipazione attiva e personale, c’è ormai da prendere atto che una operazione di vera rinascita non può aver luogo su forme e strutture pre-esistenti, ma deve trovare un suo fondamento, magari tenendo presente quanto Paolo dice in proposito: “Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” (1Cor 3,11).

Qualcosa che non può verificarsi, quando già di fatto  i fondamenti esistenti sono altri e ben radicati. In effetti, questa dichiarazione di Paolo si impone su tutti i nostri pensieri e fa giustizia di tutti i nostri smarrimenti e ritardi nel cammino verso la verità tutta intera. Certo, si potrebbe partire subito da qui - da Cristo Gesù  Signore, da questo dato di realtà - senza troppe altre considerazioni, ma a quel punto tutto risulterebbe poco concreto e forse disincarnato: o dogmatismo acritico o devozionismo di maniera. Mentre è sempre Paolo che ci dice di stare attenti a come si costruisce (ib. V.10), perché in ultima analisi si edifica nella carità (cfr Ef 4,16).

Tornando al nostro discorso da questo punto fermo, secondo cui fondamento e segno di contraddizione altri non è che “Gesù Cristo”, e quindi la nostra fede grazie a lui e in lui, le posizioni sopra segnalate potremmo anche vederle in questo modo: che mentre in un caso c’è una opportuna opera di decostruzione e destrutturazione dell’edificio fede così come è andato formandosi con materiale diverso tutto da verificare (cfr. ancora 1Cor 3, 10-13), senza peraltro farsi carico della ricostruzione, nel secondo caso c’è tutto un lavoro di costruzione (si pensi ai Sinodi in atto!), ma senza prevedere la necessaria decostruzione che ci porti a ritrovare il fondamento giusto, contenti di mettere alla base se stessi o fondamenti che hanno fatto il loro tempo.

La spinta a fare queste considerazioni non è di ordine discorsivo quanto di interesse vitale ed operativo, nell’intento di arrestare l’ipertrofia di settori separati del corpo ecclesiale, e uscire dalla contrapposizione fra la pura ideazione illuminata e la pratica cieca. Se esse però nascono nella prospettiva di “messianismo dal basso” lo  devo al libro di Giancarlo Gaeta In attesa del Regno. Il cristianesimo alla svolta dei tempi (edito da Quodlibet, 2022, pp. 283, € 22,00), da cui peraltro questa espressione viene desunta. C’è da dire che essa fa da filo conduttore e chiave di lettura dell’intera opera, composita come raccolta di articoli di vario genere, ma unitaria come ispirazione e come orientamento, tale da favorire e lasciar intravedere una possibile  ricomposizione tra momento decostruttivo e ricostruttivo del cristianesimo alla svolta dei tempi. Forse caso unico, in cui  di tutto ciò si ragiona in maniera convergente.

Certamente meriterà tenere presente il libro nelle sue significative articolazioni, ma per il momento basti cogliere il senso da dare a “messianismo dal basso”, motivo variato e ricorrente quale via di uscita dall’immobilismo dominante, in quanto “soltanto una radicale conversione potrebbe ricreare le condizioni per la nascita di un ordinamento dal basso della vita comunitaria” (p.39). Non si tratta più di far discendere da certezze assiomatiche modalità e modelli di vita ecclesiale, quanto piuttosto di far emergere la certezza del credere in simbiosi col nascere e costituirsi della vita comunitaria, che deve ritrovare la sua tensione escatologica e il suo afflato messianico, senza cui scade ad espressione psico-sociologica a sfondo religioso, con una fede depotenziata per quanto celebrata. 

Un riferimento particolare è al capitolo “Messianismo e fine della storia” (pp. 41-59), in cui troviamo un paragrafo riassuntivo e significativo per quanto riguarda la ricomposizione dell’ordine storico profano e la dimensione di fede, quindi messianica. Ecco il brano, che può fare da guida alla lettura del libro, ma soprattutto serve a riattivare il rapporto dialettico tra il “già e non ancora” che non possono essere disgiunti: “L’ordine del profano e l’ordine del messianico sono inscindibilmente connessi, ma altresì diversamente orientati: l’uno alla felicità, l’altro alla compassione. Non si tratta allora di passare dall’uno all’altro. La coscienza messianica è disincanto, che toglie ogni carattere magico all’azione. Non si tratta di salvare il mondo infilandolo nella camicia dello spirito, bensì di vederlo così come esso è, nel suo trapassare insensato ma altresì nella sua autonomia. Non si tratta di elevarsi al cielo o di affondare nell’interiorità, ma di sfamare gli affamati; e allora il Regno è presente, come un di più che è tutto. È infatti questa l’azione grazie alla quale, come è continuamente mostrato nei Vangeli, s’infrange la compattezza opaca del mondo, il suo cieco voler essere; ed appare, spezzati i vincoli sociali, l’essenziale solitudine di ciascuno, il grido di bene e lo stupore per il dono insospettato” (p. 43).

È questa essenziale solitudine di ciascuno di fronte al Messia che può portare ad essere Popolo messianico sempre nuovo, mentre prendere le mosse da quanto è già costituito non fa che portare in primo piano se stessi come realtà ultima, senza alcuna riserva escatologica. La fede nel Messia Gesù non è opera di qualcuno o conseguenza di qualcosa - di un sistema di vita o di pensiero - ma è quanto può accadere grazie al Messia stesso che si rivela, ed a questo c’è da tendere e da rimanere aperti. L’incontro di Gesù con la Samaritana non è solo un episodio unico, ma è emblematico di ogni altro possibile incontro con lui a tu per tu. Non basta che questa donna sappia che il Messia deve venire per annunciarci ogni cosa, ma è necessario arrivare al punto di sentirsi dire: “Sono io, che ti parlo” (Gv 4,26). Messianismo dal basso è allora vivere  e condividere la propria fede in Gesù Messia a partire dalla propria condizione di vita, non come nostra affermazione, ma in quanto  egli stesso è, vive e ci parla! Qualcosa che non si risolve in spiritualismo  o in pragmatismo, ma si impone come Parola che non passa. Mentre tutto il resto non può non ridimensionarsi a questa “Parola fatta carne”. E la chiesa è madre perché genera alla fede, e non perché affilia alle sue strutture storiche!

 

Alberto B.Simoni op

.