Koinonia Dicembre 2022


LA REDENZIONE MESSIANICA

NELL’EBRAISMO E NEL CRISTIANESIMO

 

Premessa

Il punto essenziale di divergenza tra l’ebraismo, e il cristianesimo sta, secondo Gershom Scholem, nella diversa concezione della redenzione messianica. «Ciò che il cristianesimo considera come il fondamento glorioso della sua confessione di fede e come il dato essenziale del vangelo è respinto con determinazione e combattuto dall’ebraismo. Esso ha sempre e dovunque considerato la redenzione come un evento pubblico che deve prodursi sulla scena della storia e nel cuore della comunità ebraica, insomma come un evento che deve compiersi in modo visibile e che sarebbe impensabile senza questa manifestazione esterna. All’opposto, il cristianesimo considera la redenzione come un evento che si compie in un àmbito spirituale e invisibile, come un evento che avviene nell’anima, nell’universo personale dell’individuo e che chiama a una trasformazione interiore senza che ciò modifichi necessariamente il corso della storia. La civitas Dei di sant’Agostino, che costituisce nel quadro della dogmatica cristiana il tentativo di gran lunga più audace di conservare e nello stesso tempo di reinterpretare le categorie ebraiche della redenzione a beneficio della Chiesa, è definita come una comunità di uomini misteriosamente riscattati viventi all’interno di un mondo non riscattato.

Ciò che l’ebraismo ha posto irrevocabilmente al termine della storia, come il momento in cui culmineranno gli eventi esterni, è divenuto nel cristianesimo il centro della storia, la quale si trova allora promossa al titolo particolare di “storia della salvezza”. La Chiesa è convinta d’aver in tal modo superato un’idea temporale della redenzione legata al mondo fisico, e d’averla sostituita con una concezione nuova e di più alta dignità. Ma l’ebraismo ha sempre ritenuto che questa convinzione non sia stata affatto un progresso. La reinterpretazione delle promesse profetiche della bibbia nel senso dell’interiorità, quando il loro contenuto ne è tanto lontano quanto è possibile immaginare, è sempre stata considerata dai pensatori religiosi dell’ebraismo come un’anticipazione illegittima. Si potrebbe tutt’al più comprendere lo spirituale come un aspetto particolare di un evento che accade necessariamente nell’ordine temporale, e che non avrebbe esistenza senza questo evento temporale. Ciò che appare al cristiano come una concezione più profonda dell’evento appare all’ebreo come suo svuotamento e come una scappatoia. Questo appello a un’interiorità pura, irreale, gli appare un tentativo di sfuggire alla prova messianica nel suo aspetto concreto» (G. Sholem, Le Messianisme Juif, Calmann-Lévy, Paris 1974, pp. 235).

 

Il messianismo

La lunga citazione da Scholem, il grande interprete della tradizione ebraica, mi pare che colga veramente il punto essenziale, a partire dal quale cristianesimo ed ebraismo divergono. Le forme della speranza che si esprime nel messianismo giudaico sono diverse, oscillando ad esempio fra messianismo regale e messianismo sacerdotale. L’attesa messianica, al tempo di Gesù e della generazione apostolica, era ben viva, ma nel complesso mondo dell’ebraismo ellenistico costituiva tutt’altro che un sistema di credenze unitario. “Nel primo secolo della nostra èra i giudei fedeli alla corrente di speranza che impregnava il loro popolo dal tempo dei re e dei profeti attendevano un messia figlio di David che realizzasse in primo luogo la loro liberazione politica, vincesse (o perfino sterminasse) le potenze pagane, stabilisse in Israele un ordine sociale giusto e conforme alle esigenze della Torah, restituisse allo stato giudaico un lustro perduto da tempo, assicurasse un riconoscimento universale del Dio unico, favorisse la diffusione dell’influenza del Tempio, cui tutte le disperse comunità sarebbero accorse in regolari pellegrinaggi, insomma portasse a termine l’opera dei grandi re del passato. È questo sogno che veniva alle menti appena si pronunciava il nome del messia” (P. Grelot, La speranza ebraica al tempo di Gesù, Borla, Roma 1981, p. 262). Ma questa dimensione di nazionalismo religioso, che noi siamo automaticamente portati a sentire come lontana, anzi opposta alla vera salvezza che viene da Dio, viveva in realtà accanto a essa, fusa in essa. Il messia non era atteso soltanto come liberatore politico; l’immagine celestiale del “figlio d’uomo” nel libro di Daniele (7,13-14), interpretata messianicamente, rifletteva infatti sul messia un ruolo che superava la dimensione puramente umana e storico-mondana. Ma il carattere  pubblico e visibile della redenzione, di cui ci parla Scholem, legava fra loro, sebbene non in modo sistematico, gli aspetti più strettamente temporali e politici dell’azione liberatrice del messia con l’operazione di Dio che, in rapporto con essa, risuscita i morti e instaura il “mondo futuro”, la perfetta giustizia e consolazione del suo regno. Per questo il tema del messia (o anche dei messia) non è centrale nella speranza giudaica: l’accento non è posto sul messia, ma cade sulla realtà ultima che i tempi messianici devono inaugurare. Quella realtà, che venendo da Dio non è in nostro potere né definire né indagare, e di cui anche il rapporto con l’azione del messia resta oscuro e opinabile, è l’unica cosa che conta: a restar fermo è comunque il suo carattere storicamente concreto, tangibile. Il “mondo futuro” non è la metafisica eternità delle realtà spirituali, ma il tempo in cui Dio sarà Dio-con noi e asciugherà le lacrime dei nostri occhi, in cui la giustizia finalmente regnerà sulla terra.

 

Il Messia e la pienezza messianica

Ebraicamente, né in antico né oggi si dà messia senza la pienezza della realtà messianica. L’annuncio del Deuteronomio, del profeta simile a Mosè che il Signore susciterà, e che è stato da sempre interpretato in senso messianico, lega fra loro indissolubilmente le due cose: “Susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto.  Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire [...] dovrà morire. Se tu pensi: Come riconosceremo la parola che il Signore non ha detto? Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore” (Dt I8,17-22).

Il credente in Gesù Cristo che osi veramente leggere queste parole, non può leggerle senza un brivido, se le confronta con quelle del Messia crocifisso: “Non avrete finito di percorrere le città di Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo” (Mt 10,23); “In verità vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non morranno finché non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel suo regno” (Mt 16,28); “In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo accada” (Mt 24,44); “D’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo” (Mt 26,64). Anche oggi, ciò che impedisce all’ebreo di credere nella messianicità di Gesù è la mancata venuta del regno di Dio che gli antichi profeti avevano annunciato. «Gli occhi dei ciechi vedranno e i sordi udranno. Gli storpi salteranno e i muti canteranno. Il lupo pascolerà con l’agnello. L’universo sarà un paradiso di pace. Quando nascerà il Messia. Dov’è la pace? Tuoni ad Anzio. Questa pace? Urli a via Tasso. Questa pace? Ceneri nei forni. Questa pace? Non è nato il Messia” (G.Limentani, In contumacia, p. 105). Già nel XVI secolo il grande rabbi Maharal di Praga aveva detto  - si racconta - una risposta analoga a un pio ebreo che gli chiedeva se per caso non potessero avere ragione i cristiani: dopo aver guardato alla finestra e visto un vecchio mendicante che si trascinava a stento e un cavallo colpito dalla frusta, segni evidenti che il messia non era ancora venuto. E oggi un altro dotto ebreo, Pinchas Lapide, in dialogo con Hans Küng su Gesù segno di contraddizione, può affermare: “Loro [cioè i cristiani] attendono la parusia; per loro la piena redenzione ha ancora da venire: io attendo la sua venuta, ma il ritorno è pure esso una venuta. Se il Messia viene e dovesse rivelarsi come Gesù di Nazaret, direi allora che non conosco nessun ebreo al mondo che avrebbe qualcosa da obiettare” (in Gesù segno di contraddizione, p.42).

 

Il messianismo e l’aspettativa apocalittica

Nel Nuovo Testamento, la separazione del Messia dall’avvento della pienezza escatologica è interpretabile come misericordiosa dilazione, per dar ancora tempo al pentimento e alla conversione, in riferimento alla parabola del fico sterile, di cui il vignaiolo rinvia l’abbattimento (Lc 13,6-8). Sarà così ancora nel Pastore di Erma, nel II secolo, ma è evidente che la spiegazione diventa sempre più inapplicabile via via che le generazioni si rinnovano: la misericordia dovrebbe illimitatamente rinnovarsi per ciascuna, e quindi dilazionare ad infinitum  il ritorno di Cristo e l’instaurazione del regno.

 

I “dolori del parto”

Un’altra interpretazione neotestamentaria del rinvio della parusia, quella che ricorre più frequentemente, è legata alla concezione, che era stata degli antichi profeti, dei «dolori del parto», e cioè delle tribolazioni che devono precedere la venuta del regno messianico: una concezione che, secondo i vangeli, Gesù fa propria (Mt 24,8). Numerosi passi del Nuovo Testamento ci mostrano il Cristo risorto e già regnante, e tuttavia ancora in lotta con le potenze delle tenebre; per esempio la prima lettera ai Corinzi (15,24-26): «Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte». Ma piú che di una lotta gradualmente vincente del Cristo e dei suoi, si tratta piuttosto di un avanzamento della potenza delle tenebre, come è detto in molti luoghi. La parola degli empi «si propagherà come una cancrena» (2Tm 2,17), deve venire l’anticristo (1Gv 2,18), deve compiersi la suprema apostasia (2Ts 2,1-3). Scholem ha a lungo insistito sul fatto che nell’autentica tradizione dei maestri ebraici l’attesa messianica è inseparabile dall’attesa apocalittica, alla quale appartiene l’idea dei “dolori del parto”. «L’idea che la redenzione sarebbe il risultato di uno sviluppo immanente della storia è un’idea moderna, nata dalla filosofia dei lumi” (Concetti fondamentali dell’ebraismo, p. 35). Al contrario, i profeti e i maestri della Haggadah - scrive Scholem - considerano la storia “con il pessimismo più assoluto”. Per loro, la storia “andava verso la sua fine, e la situazione nuova che doveva instaurarsi dopo questa fine non era in nessun modo la conseguenza di una evoluzione naturale. Era al contrario l’instaurazione da parte di Dio di una realtà completamente nuova. Nei libri dei profeti, questa epoca si chiama il ‘giorno del Signore’: non è un giorno come gli altri. Non è il termine di una progressione che costituirebbe per noi un passaggio, un ponte da uno stato a un altro. [...]Per passare da uno stato all’altro, la distruzione è indispensabile. Per giungere alla liberazione, è necessario che l’edificio attuale sia abbattuto per far posto all’edificio messianico, che, secondo la tradizione autentica, non è un edificio umano. Al contrario, tutto ciò che l’uomo ha creato nella storia dev’essere distrutto quando verrà il ‘giorno del Signore’. La tradizione ebraica classica si compiace di mettere in rilievo l’aspetto catastrofico della redenzione” (Concetti fondamentali dell’ebraismo, p. 78).

 

<…> La comunione nella speranza con gli ebrei che sanno ancora custodire nel loro cuore dopo l’abbandono del loro popolo alla Shoah, l’attesa del messia che da millenni non viene, è anche comunione nella sofferenza e nella delusione. Nei tredici articoli di fede di Maimonide è scritto: “Io credo con fede piena nella venuta del messia e, sebbene egli tardi, ogni giorno attenderò che venga”. Ebbene, anche il credente nel messia venuto Gesù Cristo, il credente che conosce il nome, i gesti e le Parole del Messia e che in lui possiede la primizia della salvezza, dovrebbe fare l’esperienza non meno dolorosa di una lunghissima dilazione del compimento. Ogni autentica fede è messa alla prova. I primi seguaci di Gesù videro crocifisso il portatore della pace e della consolazione del regno, e tuttavia credettero; noi, ogni generazione successiva, dobbiamo credere vedendo che da secoli non ritorna colui che doveva tornare presto. Il sorriso dello scettico è certo più facile della fede.

 

Sergio Quinzio

In Israele e le genti, Editrice AVE, 1991, pp.32-38.51

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