Koinonia Dicembre 2022


IL MESSIA DEGLI EBREI E DEI CRISTIANI

 

Da tempo ormai molti storici studiosi del giudaismo del Secondo Tempio stanno portando sempre più alla luce l’ebraicità di Gesù inserita nel giudaismo del I secolo e di conseguenza una visione più  complessa delle origini cristiane.

Gesù nacque visse e morì in Palestina, ne assorbì la cultura, le tradizioni, il culto e la fede come ogni altro ebreo praticante e osservante. Ma aggiunse di suo un messaggio nuovo e dirompente che scardinò gli antichi assetti del potere religioso e la coscienza di molti. Gli attuali studi ci forniscono una visione più completa, rispetto al passato, delle correnti di pensiero e dei movimenti religiosi che si confrontavano in Israele al tempo del rabbi di Nazaret.

Israele da tempo era in attesa del Messia e molto viva era l’aspettativa di questa figura ora intesa in senso politico, ora in senso religioso. Molte erano le idee che circolavano in proposito. Alcune correnti, come quella degli zeloti, guardavano ad un Messia politico, umano, una sorta di guida e leader che avrebbe liberato il paese dal dominio dei romani. Molti erano i titoli che si davano al Messia: figlio di David, re potente, liberatore, giudice del popolo che avrebbe governato con potenza e saggezza e stabilito la sovranità di Israele in una situazione di pace con tutti i popoli.

Accanto a questa visione storico-politica, farisei, esseni e movimenti apocalittici guardavano invece a un Messia escatologico ritenendo che si fosse giunti alla fine dei tempi e ad una nuova creazione. A questo Messia si dava il titolo di Figlio dell’Uomo: una figura sovrumana che sarebbe venuta dai cieli per liberare l’umanità dal male e dal peccato, frutto non delle cattive azioni umane, ma di una ribellione cosmica: la caduta degli angeli ribelli che si ritrova in Genesi, nel Libro di Enoc (un apocrifo ebraico della metà del II sec. a.C) e nel settimo capitolo del Libro di Daniele. Nella rilettura che si fece di questi testi, il Figlio dell’Uomo diventò un giudice celeste, escatologico, seduto alla destra di Dio, che sarebbe venuto come giudice e distruttore delle forze del male.

Da Isaia proveniva invece la raffigurazione di un Messia sofferente che per un po’ di tempo sarebbe vissuto tra gli uomini dove avrebbe trovato resistenza, sofferenza e morte. Circolava anche l’attesa di un Messia sacerdotale che si rifaceva alla figura di Melchisedec, misterioso personaggio dell’Antico Testamento, re di Salem, sacerdote dell’Altissimo, che benedì il patriarca Abramo giunto in Canaan.

Nel giudaismo del I secolo esistevano quindi diverse idee sul Messia a testimonianza che l’ebraismo non era un blocco compatto, come spesso si è creduto, ma un mondo variegato e multiforme, attraversato da correnti e movimenti spesso in contrasto tra loro.

Nella comunità ebraica ci si riferiva al Messia anche con il titolo di Figlio di Dio, ma sia nel mondo giudaico che in quello pagano, il concetto di divino era molto diverso rispetto a quello che abbiamo oggi. Per i giudei esistevano degli esseri che, pur non essendo divini, avevano tuttavia un certo grado di divinità, tant’è che il termine di Elohim (Dio) veniva attribuito anche agli angeli, ai giudici, ai sovrani delle nazioni e anche allo stesso Messia.

Cosa distingueva l’unico Dio ebraico dagli altri esseri divini? Il fatto che Dio era l’unico creatore, il non-creato. Le ipostasi (manifestazioni di Dio) erano generate, non create: la Sapienza, la Gloria, la Potenza, ecc. vivevano in cielo come figure divine ed erano inviate da Dio sulla terra dove avevano vita autonoma con il compito di aiutarLo a comunicare con le sue creature. Le ipostasi erano delle mediatrici, mentre gli uomini e gli angeli erano esseri creati che talvolta venivano divinizzati.

Cosa pensarono i discepoli dopo la morte e risurrezione di Gesù?

Alcuni studiosi ritengono che i seguaci di Gesù in un primo momento abbiano riletto le vicende del loro maestro guardando a lui come al Messia escatologico, al Figlio dell’Uomo che doveva rivelarsi sulla terra per salvare gli uomini perdonando i peccati nell’imminenza del giudizio finale. I sinottici e Paolo gli attribuirono un certo grado di divinità, ma non la stessa di Dio. Paolo infatti non chiama Gesù “theòs”, ma “chirios” (Signore).

In seguito all’influenza della filosofia ellenistica, il messianesimo dei seguaci del rabbi divenne qualcosa di diverso da quello degli altri ebrei: si guardò a Gesù non più come a un profeta giusto, o al Messia escatologico, ma come al Figlio di Dio, compimento di tutte le attese dell’umanità. Nel II sec. la teologia del Figlio dell’Uomo, del Messia escatologico si rivelò ormai insufficiente e venne così abbandonata, soppiantata dal termine giovanneo di Logos. Da una rilettura teologica dei fatti inerenti Gesù si giunse alla identificazione di Gesù con il Logos, la Parola, il Verbo che divenne la principale manifestazione di Dio. Il Logos è increato, uguale a Dio, coesistente con Lui da sempre. In Giovanni Gesù è identificato con il Logos: «E il Verbo di fece carne». È questa la prima volta che nei vangeli appare il concetto di incarnazione e l’appellativo di Gesù come «Theòs».

Secondo gli studiosi di cristologia del secolo scorso si passò dalla cristologia bassa che vide in Gesù solo un uomo, alla cristologia alta dei Padri della Chiesa che vide in Gesù il Figlio di Dio. Dal Messia umano degli ebrei si giunse così all’idea del Messia Figlio di Dio del cristianesimo, dal Dio Uno al Dio Trino.

La teologia del Figlio dell’Uomo non poteva essere compresa dai gentili, mentre quella del Logos era vincente presso chi aveva una formazione filosofica. È in questo momento storico che si rileggono Paolo e i Sinottici alla luce della teologia di Giovanni e dei post-giovannei: il termine Figlio dell’Uomo viene identificato con l’umanità di Gesù, mentre quello di Figlio di Dio con la sua divinità.

 

Daniela Nucci

.