Koinonia Dicembre 2022


I GIORNI DI ABRAMO (II)

 

Parte seconda: Tagliare alleanze

 

Non si può comprendere a fondo l’episodio del sacrificio di Isacco, senza tenere conto dell’alleanza stipulata da Dio con Abramo, un’alleanza di tipo diverso da quella stipulata con Noè. A differenza di Noè Abramo ha infatti un cammino da percorrere davanti a sé, delle prove da superare, dei comandi da osservare. “Cammina davanti a me e sii integro” (Gen 17,1), gli dice Dio.

Neher ha dal canto suo sottolineato, alla luce della tradizione ebraica, quanto si distingui questo camminare “davanti” a Dio di Abramo rispetto al camminare “con Dio” di Noè (Gen 6,9). Noè, dice Neher, “come l’invalido, ha bisogno del bastone di Dio per sostenersi. Abramo invece cammina ritto, da solo, davanti a Dio”. Al punto che Dio stesso ha in certi momenti bisogno di quell’uomo per comprendere la strada giusta e il da farsi per proseguire nella migliore maniera. Abramo è colui che con la luce della sua fede riesce persino “a guidare i passi brancolanti di Dio per le vie della storia”. Ed è così che diventerà il primo di quei fieri uomini dell’Esodo che come “araldi camminano davanti al Sovrano e gli aprono la strada” (L’esilio della parola).

È questo il motivo per cui Abramo non è uno che accetta in silenzio quello che Dio gli promette, fino ad avere persino il coraggio di ribattere, come dicendogli: mi dici che la ricompensa sarà grande, e non ti rendi conto che sono già vecchio, senza figli e che sarà un altro a prendere tutta la mia eredità? Mai nessuno aveva osato prima riprendere Dio di propria iniziativa come fa Abramo. Una vera e propria sfida a viso aperto la sua, una sfida che Dio subito raccoglie, come non aspettandosi altro, promettendogli una discendenza numerosa come le stelle nel cielo. Una promessa di fronte alla quale questa volta Abramo tace e crede: “Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia” (Gen 15,6).

Il credere di Abramo è di una pasta tutta particolare, non è un credere a cuor leggero, è un credere dopo avere fatto a Dio ed essersi fatto  dentro di sé molte domande, perché quello in cui è chiamato a credere è l’impossibile, è il tutt’altro che ragionevole. Sono novità tali e improvvise che oltre a spiazzarlo lo costringono ogni volta alla più grande solitudine, là dove nessuno c’è a fargli compagnia. Perché anche questo è la fede di Abramo: un decidersi immediato volgendo il proprio cuore e la propria mente soltanto là dove Dio indica, chiama e comanda, una decisione che nessuno attorno a lui può comprendere. Ed è forse questo il vero motivo per cui Dio accredita “come giustizia” la fede di Abramo.

Oltre a decisione e fede in Abramo si ravvisa poi anche fedeltà e perseveranza. Martin Buber ha detto che “qui Abramo non crede ‘in’ Dio, nel senso di un perseverare in lui, ma crede a Dio”, come si crede a una persona (Due tipi di fede). Qui la fede non è credere qualcosa a proposito di Dio come lo si crede a proposito di qualunque altra cosa, un credere dunque che ha rapporto soltanto con scienza e conoscenza, ma un credere che oltre ad avere a che fare con la conoscenza di Dio alla fine è a Dio stesso che porta ad aderire, ritenendolo affidabile, credibile, anche quando le sue parole appaiono assurde e nessuno attorno a sé sarebbe disposto a crederle. Ecco, è proprio in questa immane fiducia che consiste alla fine la giustizia di Abramo. Per evitare ogni astrazione Buber sottolinea come la fede ebraica si chiami emunà, un termine che ha a che fare con la fedeltà, con un comportamento che deriva dalla fiducia e che a sua volta genera fiducia.

Ma seguiamo ancora Dio e Abramo nel loro dialogo ferreo in vista dell’alleanza. Ad un certo punto Dio alza ancora la posta e dice: ecco, ora che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei, ti darò in possesso questo paese, la terra promessa. Ma Abramo anche qui ha l’ardire di ribattere e chiede: “Come potrò sapere che ne avrò il possesso?”. Una domanda che lì per lì mette alle strette Dio stesso, il quale dovrà ora escogitare qualcosa per impegnarsi davvero, per meritare fiducia, se così possiamo dire.

Dio ordina allora ad Abramo di prendere degli animali, di dividerli in due e di collocare “ogni metà di fronte all’altra”. Poi tutto si ferma e bisogna aspettare il calare del sole. Intanto ecco arrivare uccelli rapaci che Abramo è costretto a scacciare per proteggere quelle carni divise. Al calare del sole Abramo è preso da “un oscuro terrore”, un po’ come se la sua fede e fiducia stesse per venire meno. Ma questa volta Dio interviene subito, ha già messo abbastanza alla prova quell’uomo e gli parla di quanto accadrà alla sua discendenza, della sua schiavitù ma anche della sua liberazione. Ormai si è fatto “buio fitto”, e proprio in quel momento “un forno fumante e una fiaccola ardente” passano in mezzo agli animali divisi. È quello il momento decisivo dell’“alleanza” che Dio “taglia” con Abramo e con la sua discendenza, noi compresi potremmo forse aggiungere, se riuscissimo ancora a essere credenti sulle orme di quel vecchio uomo (Gen 15,1-18).

Se riflettiamo con attenzione comprendiamo dunque che se Dio sceglie Abramo in mezzo a tutti gli altri è per la sua capacità di credere. Ma comprendiamo anche che di fronte all’intervento di Dio l’uomo è libero di accettare o meno: Dio chiama, si fa presente, ma davanti a lui l’uomo è libero di accogliere o rifiutare. La forza della libertà è sempre salvaguardata. Se così non fosse, del resto, immediatamente verrebbe meno anche la forza dell’amore, che sempre rispetta la libertà dell’altro.

Abramo ogni volta immediatamente accetta quanto Dio gli dice, e Dio, da parte sua, ogni volta gli promette qualcosa, vincolandosi fortemente a lui con un patto preciso, un’alleanza precisa. Dunque il Dio altissimo, del quale non si può nemmeno pronunciare il nome, finisce per legarsi all’uomo con un vincolo di tenerezza e di pietà che dura per sempre. Ed è così importante e fondamentale, questo agire di Dio, che la tradizione ebraica ha voluto presentare l’alleanza di Dio col suo popolo come un’opera ancora più grande della stessa creazione.

Nel caso di Abramo alla promessa di una terra si accompagna la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo. Abramo non ha figli? È vero, ma Dio può l’impossibile, l’umanamente irrealizzabile, e ci salva soprattutto nella nostra impotenza: è  quando siamo deboli che Dio riesce a essere forte nella nostra vita, dirà Paolo.

Dio viene prima di noi e sta molto più in alto di noi, non è dunque che Dio vuole qualcosa perché è buono, ma è buono per il semplice motivo che è lui a volerlo, fosse anche il sacrificio di quell’unico figlio che amiamo più di noi stessi. Anche in Gesù che invita ad abbandonare la propria vita se si vuole salvarla, noi percepiamo risonanze simili.

Ma c’è una precisazione che va fatta e che ci aiuterà a capire meglio quello che verrà dopo. Nel libro di Geremia, e precisamente al capitolo 34, noi troviamo un patto simile, patto che anticamente consisteva in un impegno talmente serio che portava i contraenti a passare insieme tra le carni degli animali squartati invocando su di sé la stessa fine se non si fosse mantenuto l’impegno preso. Ma in questo caso c’è da dire però che l’impegno è unilaterale, è cioè come se fosse soltanto Dio a prenderlo fino in fondo. Insomma, chi davvero taglia il patto, chi davvero passa tra le carni sanguinanti è soltanto Dio, mentre Abramo è là che guarda stupito, con l’animo ancora preso da oscuro terrore. Egli, nonostante il suo ardire, restava pur sempre “polvere e cenere” davanti al suo Dio (Gen 18,27).

Ed è venuto il momento di vedere cosa accadrà sul Moria, un monte misterioso della cui esistenza non si conosce nulla. Quanto lì Dio chiede a quell’uomo ha davvero dell’incredibile. Proprio l’unico figlio miracolosamente nato nella vecchiaia sua e di Sara, proprio il figlio che amava più di se stesso, proprio il figlio che Dio gli aveva promesso e che avrebbe rappresentato il fondamento del compiersi di tutte le altre promesse, dalla discendenza numerosa come le stelle del cielo al “possesso perenne” della terra di Canaan, ecco proprio quel ragazzo lì ora egli dovrà prendere e uccidere con le proprie mani. Non gli dice che quel figlio morirà, gli dice invece: siano le tue mani a ucciderlo, sii tu stesso a offrirmelo in olocausto. Come si fa a credere, a continuare a fidarsi di in un Dio che chiede una cosa simile? Siamo davvero nell’assurdo. Altro che fede e ragione che vanno a braccetto, qui siamo alla follia pura.

Cerchiamo però di capire, insieme a coloro che hanno preso con molta serietà questo testo. Intanto si ha qui una “sospensione teleologica dell’etica”, come ha detto Kierkegaard nella sua straordinaria riflessione che fa in Timore e tremore, si è cioè davanti a fatti e parole che non hanno proprio più nulla a che fare con l’etica, con la morale. Questo uomo, per un moralista è come minimo un assassino, uno che la responsabilità di padre non sa più nemmeno dove stia di casa. E invece proprio in questo modo essi restano, dal principio alla fine, “il padre della fede” e “il figlio della promessa”; e solo continuando a vederli così noi potremo continuare la lettura dell’episodio tentando di capire.

E fa riflettere il fatto che proprio quei  due stadi che Kierkegaard ha chiamato altrove dell’“etica” e dell’“estetica”, qui non c’entrano più nulla, mentre c’entrano, eccome, nella religiosità dei nostri giorni, dove li vediamo prevalere lasciando sullo sfondo, se non del tutto fuori,  il terzo elemento, quello della “fede”, l’unico a dare fondamento a tutta la vicenda sul Moria.

La Lettera agli Ebrei lo dice con tutta chiarezza: “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (11,1). E poi ancora: “Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo” (11,17-19). Certamente nessuno può seriamente pensare che già ai tempi di Abramo si credesse nella risurrezione dei morti, non è questo il punto, il punto è che l’autore della Lettera agli Ebrei fa qui una lettura dell’Antico Testamento in grado di aprirci ad altezze di fede e di speranza valide ancora per noi oggi e alle quali, forse, nemmeno Dio aveva pensato prima dei giorni di Abramo.

 

Daniele Garota

(2. continua)

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