Koinonia Novembre 2022


I GIORNI DI ABRAMO (I)

 

Parte prima: Religione e storia

 

Alla tremenda esperienza del diluvio e all’immagine dell’arcobaleno dei giorni di Noè seguirà, nella storia delle alleanze tra Dio e l’umanità, quella del taglio e del coltello dei giorni di Abramo. Le cose diventano sempre più coinvolgenti e terribili sia per gli uomini che per Dio, a causa delle potenze del male e della morte che avanzano nel mondo. E mai va dimenticato che non è stato Dio a volere il male e a creare “la morte”, che “per invidia del diavolo … è entrata nel mondo” (Sap 1,13. 3,24).

Abramo aveva già mostrato la sua fede, credendo addirittura anche quando c’erano buone ragioni per non credere, ma a Dio non bastava ancora, gli era necessaria la prova suprema: Abramo avrebbe dovuto sacrificargli, su un monte che gli avrebbe indicato più avanti, il suo unico figlio che amava, Isacco, il figlio della promessa.

In tanti hanno riflettuto attorno a questo episodio raccontato nel libro della Genesi (22,1-19), ma cerchiamo intanto di capire da dove possa essere scaturito, prima di affrontarlo nella sua potente teologia, in modo da poterlo collegare, sia alla precedente alleanza con Noè, sia al sacrificio del Cristo, là dove accadrà una cosa simile, essendovi anche lì un Padre che, come dice Paolo, “non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi” (Rm 8,32).

Secondo Gerhard von Rad, alcune parti di questo racconto sono state prese da una leggenda cultuale ancora più antica, nella quale si legittimava il passaggio dal sacrificio dei bambini al sacrificio degli animali, facendolo così diventare una sorta di “pietra miliare nella storia delle religioni umane”. Insomma, conclude von Rad, è come se ci venisse lì sottolineato una volta per tutte, che “Dio non ama la morte, ma che vuole la vita” (Antico Testamento, Genesi). Questo episodio rappresenterebbe dunque una svolta radicale nella storia delle religioni, venendo fino a quel momento i bambini spesso sacrificati in onore degli dèi.

Anche Mircea Eliade, uno dei più grandi storici delle religioni, su questo ha detto cose molto significative. Si può ben dire che a comprendere e vivere per primi il senso della storia siano stati gli ebrei, ma vivere nella storia è sempre stata dura, tanto che la tentazione di tornare ai Baal e alle Astarte è sempre stata grande nell’antico Israele. “Per gli strati popolari, e in particolare per le comunità agricole, l’antica concezione religiosa - dice Eliade - era preferibile; essa li teneva più vicino alla ‘vita’ e li aiutava a sopportare, se non a ignorare la storia, l’incrollabile volontà dei profeti messianici di guardare in faccia la storia e di accettarla come un terribile dialogo con Yhwh”. Insomma, accettare come voluto da Dio ogni evento, quale risultato di un incontro di libertà e volontà tra Dio e l’uomo, è sempre stato difficile per la maggior parte della popolazione di Israele. Ma anche per i cristiani ancora è così: pensiamo a certe processioni che ancora si celebrano nelle piccole parrocchie di campagna con la statua del santo portata in spalla per le vie del paese eccetera. Nella prova e nella dura verità da accogliere, può essere molto consolante considerare tutto ciò che accade quanto di più naturale esista, rassegnandosi al destino o autoaccusandosi di una qualche negligenza da riparare per mezzo di sacrifici e rituali, piuttosto che coinvolgersi responsabilmente in quanto Dio a un certo punto può chiederci mettendo a prova la nostra fede.

In questo senso, soprattutto il sacrificio di Abramo, sarebbe diventato un “esempio classico” in grado di mettere in luce “la differenza tra la concezione tradizionale della ripetizione del gesto archetipico e la nuova dimensione, la fede, acquistata con l’esperienza religiosa. Sotto l’aspetto formale il sacrificio di Abramo è semplicemente il sacrificio del primogenito, di uso frequente in quel mondo paleo-orientale, in cui gli ebrei hanno vissuto fino all’epoca dei profeti”. Da usanza quel gesto diventa qualcosa di personale e di storico. Mentre i sacrifici antichi appartenevano alla circolarità del sempre uguale che si ripete, come nel ciclo delle stagioni, appartenevano cioè al prevedibile, al “generale”, tanto per dirla con categorie kierkegardiane, qui si ha a che fare con il “singolo” che partecipa con libertà e responsabilità, due cose senza le quali la fede non si può dare, specialmente la fede che si apre all’imprevedibile e al rischio, al mai accaduto prima, alle novità grandi. Ed è proprio questa la nuova dimensione religiosa che ha reso possibile la fede nel senso giudeo-cristiano del termine. Una fede che si apre alla storia, e che la feconda in tutti i suoi momenti con una speranza di redenzione, di liberazione. Il ciclo naturale delle stagioni dove tutto si rinnova ogni anno a primavera, viene sostituito da “una rigenerazione unica che avverrà in futuro”, dice ancora Eliade (Il mito dell’eterno ritorno).

Ma andando ancora più a fondo nel cuore del racconto, ci si accorge che al nodo del sacrificio di un giovane innocente e ignaro di tutto, si aggiunge quello per cui a dover essere sacrificato sia nulla di meno che il figlio della promessa. Come dire: Dio stava ritirando, di fronte al fedelissimo Abramo, tutto il suo favore non solo per il presente ma anche per l’avvenire. Era da ritenere buona una richiesta simile, rivolta a chi aveva camminato soltanto e sempre davanti al suo Dio, senza mai deviare né a destra né a sinistra? Alla paradossalità del sacrificio di un innocente, si aggiungeva infatti quella che con Isacco era proprio tutta quanta la promessa fatta da Dio a venire improvvisamente meno, per cui la vera prova, al di là degli affetti paterni, consisteva nel vedere fino a che punto quell’uomo fosse davvero in grado di considerare puro dono il figlio e tutto ciò che attraverso quel figlio gli sarebbe potuto arrivare. Ad Abramo, che gli era stato chiesto di rinunciare a tutto il suo passato si chiedeva ora di rinunciare anche all’avvenire e questo nella più tremenda solitudine. Nemmeno con Sara avrebbe parlato prima di partire ben sapendo quello che andava a fare, tanto che una tarda tradizione giudaica ha persino riferito che Sara, quando Abramo e Isacco tornarono raccontandogli l’accaduto, “mandò sei gridi e morì” (Strack-Billerbeck IV).

Dunque, tanto per fare un esempio, è come se a noi credenti di oggi venisse chiesto di rinunciare non soltanto alla nostra vita qui, ma anche alla vita eterna che ci è stata promessa: che senso avrebbe allora la nostra vita religiosa, la nostra stessa fede? Questo è forse il vero nodo da sciogliere che ci si presenta leggendo il testo del sacrificio di Isacco.

Era un uomo religioso Abramo? Se vogliamo definire un uomo religioso con la felice definizione che ne ha dato Karl Rahner, “uditore della Parola”, certamente Abramo lo era: chi più di lui infatti ha udito seriamente e fino in fondo la parola di Dio mettendola in pratica? L’uomo non è il padrone della propria fede, né della propria vita, né dei doni che gli sono stati promessi, questo insegna Abramo col suo agire prima di tutto.

“Religione” deriva dal latino religio, termine scaturito in ambito cristiano nell’area mediterranea, che può voler dire sia relegere (leggere nuovamente), sia religari (essere legato, legarsi), ma anche reeligere (scegliere nuovamente). Dunque un uomo religioso deve aderire più che può all’esperienza di Abramo, poiché nessuno come lui è stato in grado di entrare nel vortice di un Dio che spiazza di continuo i suoi fedeli, con novità così grandi e decisive che hanno bisogno ogni volta di una disponibilità massima non soltanto a vincolarsi saldamente tramite l’alleanza, ma anche a rileggere di nuovo la Parola, e dunque a scegliere e ricominciare da capo se occorre. Abramo lega il figlio sull’altare ed è pronto a ucciderlo, ma è pronto pure a scioglierlo, a liberarlo se è ancora Dio a chiederglielo. Ed è importante pure sapere che questo racconto del sacrificio di Isacco, sia stato intitolato dalla tradizione ebraica proprio aqedà (legare). Nella fede di Abramo c’è una tensione enorme tra uno sciogliersi dai legami personali più forti e, al tempo stesso, un legarsi potente e fedele a Dio, alla parola di Dio, accada quel che accada. Qui si ha quella che, nella fede, è un vera e propria obbedienza. Affinché sia religio che aderisce fortemente a Dio, fino a obbedire accada quel che accada, ci deve essere dunque a fondamento di tutto, la fede.

Quando infatti la religione comincia ad andare a braccetto coi poteri di questo mondo, facilmente finisce per diventare legalismo, precetto, morale, politica, sistema; finisce cioè per abbandonare quella freschezza e quella fede ogni volta in grado di muoversi e commuoversi davanti al proprio Dio e alla comunità degli uomini con fare immediato, abbandonando tutto il resto.  Al punto che teologi come Karl Barth e Bonhoeffer hanno cominciato ad un certo punto a parlare di un cristianesimo senza religione. E questo è stato per molti versi salutare, anche alla luce del fatto che i primi cristiani erano considerati, dal paganesimo molto religioso che circolava nell’area mediterranea, atei, senza dèi e senza templi.

Gente sensibile come Kierkegaard già ai suoi giorni intuì lucidamente come un cristianesimo costretto nel tempo a rallentare la “corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,1-2), avrebbe necessariamente finito per lasciare spazio al vecchio paganesimo. E ai nostri giorni ci capita di vedere ovunque ormai, e senza che nemmeno ci si accorga, tendenze pagane spacciate per cristianesimo.

C’è nell’uomo di fede, quando è autentico, una forte carica rivoluzionaria, e questo proprio perché egli risolutamente si oppone ad una società troppo ordinata, troppo sistemata, nella quale l’istituzione religiosa s’accomoda sprofondando nei privilegi e nelle poltrone del successo facile. E non va nemmeno dimenticato che a volere la morte di Gesù furono persone molto ben inserite all’interno del sistema religioso ebraico. La più breve definizione di religione che si possa dare? “Rottura”, dice Metz (La fede, nella storia e nella società). “Quei tali che mettono il mondo in agitazione”, erano chiamati i cristiani della prima ora, coloro che portavano dentro la passione della fede, una passione per la quale erano in grado di dare la vita (At 17,6). E non era fanatismo, era fede!

Ma su questo dice parole importanti anche Lévinas, quando fa le dovute distinzioni tra il “sacro” e il “santo”, e dove ci ricorda come al Giudaismo faccia orrore quel sacro che è “penombra” in cui finiscono per fiorire magia, superstizione e apparenza (Dal sacro al santo).

 

Daniele Garota

(1. continua)

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