Koinonia Novembre 2022


Un articolo del P.M.-D.Chenu del 1985

 

UN CONCILIO PROFETICO

 

 “I decreti conciliari, più che un punto d’arrivo, sono un punto di partenza verso nuovi obiettivi” (Paolo VI, 21 settembre 1966). “Il Concilio non deve essere considerato un punto di partenza da cui ci si allontana, ma piuttosto come una base su cui solidamente costruire” (Card. Ratzinger, Conversazione sulla fede).

Certo, si potrebbe, con un po’ d’abilità e molta compiacenza, mettere d’accordo queste due proposizioni; tuttavia, è evidente che esse rivelano una diversa lettura dei testi del Concilio e implicano un diverso comportamento nella loro realizzazione pastorale, nella catechesi e nella gestione della comunità.

 

Da questo punto di vista, le controversie in corso esasperano il problema posto dalla decisione di Giovanni Paolo II di convocare un Sinodo straordinario che, dopo vent’anni, dovrebbe rilanciare non solo il fervore applicativo del Vaticano II, ma anche la sua straordinaria lucidità, sempre  in atto. È seccante che l’intervento del Card.Ratzinger abbia turbato la sana e felice collocazione di questo problema, facendo indossare dall’autorità dottrinale l’interpretazione privata di un professore di teologia.

Quello che è in causa è, dando alla parola tutto il suo vigore tecnico, la ricezione del Concilio. Sappiamo che si tratta di un elemento costitutivo, non solo dell’efficacia, ma della verità stessa di un enunciato conciliare, dove il consenso della comunità non è un’obbedienza passiva e inerte, ma una comunione di spirito e cuore con la decisione dottrinale dell’autorità, con la quale si mette in gioco, al di là della volontà, l’intelligenza con i suoi condizionamenti dovuti alla cultura, al linguaggio e alle scienze umane.

La ricezione dunque non è un atto giuridico e giurisdizionale, ma un atto organico in profondità teologale e in fecondità teologica. Dipende da una teologia di comunione che, a sua volta, impegna una teologia delle Chiese locali, una pneumatologia, addirittura una teologia della Tradizione e il senso della conciliarità della Chiesa. La nozione di ricezione ha subito una riduzione, se non un espresso rifiuto, quando a tutto ciò si è sostituita una concezione piramidale della Chiesa, come di una massa completamente determinata dal suo vertice, in cui, a parte il campo della spiritualità intimista, quasi non si parlava dello Spirito Santo che come garante dell’infallibilità delle istanze gerarchiche. Fu quello che, ahimè!, avvenne dopo il Concilio di Trento, la cui ricezione, in un primo tempo realizzata da un assorbimento pastorale di cui Carlo Borromeo fu l’araldo, in seguito venne bloccata dall’idea fissista di una Chiesa come società perfetta, fornita di poteri, che trova il suo prototipo nella monarchia assoluta.  Quando si aprì il Vaticano II eravamo ancora all’ecclesiologia del Bellarmino (1631).

Con il Vaticano II, la ricezione comune a ogni procedura conciliare non solo ha svolto la sua funzione di benefico possesso della verità, ma ha preso un’ampiezza e una portata del tutto originali, tali da provocare qualche sorpresa agli interpreti classici del lavoro conciliare. Non fu effetto di abilità pastorale; in causa furono la ragion d’essere e l’intenzione radicale del Concilio, a partire dal progetto di Giovanni XXIII che ordinò la scelta e la sistemazione degli argomenti, lo svolgimento dei dibattiti, le opzioni dottrinali e pastorali, fino al dettaglio redazionale dei testi. La bolla d’indizione (25 dicembre 1961) è assolutamente esplicita: la convocazione del Concilio è motivata, con espressioni incisive, da un riferimento alla situazione dell’umanità e da una diretta connessione con le circostanze storiche. “L’umanità è alle soglie di una nuova era”. Non si tratta dunque di un’assemblea “speculativa”, estranea ai problemi del presente, incaricata di riflettere su enunciati astratti; questo Concilio sarà “un organismo vivo e vibrante che, nella luce e nell’amore di Cristo, vede e abbraccia il mondo intero” (20 giugno 1961). “I tempi sono maturi per offrire un nuovo Concilio alla Chiesa e al mondo”.

Di primo acchito, ancora sotto lo choc dei discorsi d’apertura, l’assemblea conciliare s’impegna in quella direzione, senza fare uso dei testi elaborati dalle commissioni preparatorie secondo le vecchie modalità, anatemi compresi. In questa sua presenza al mondo, la Chiesa prende coscienza della sua dimensione storica (la parola “storia”, assente dai testi del magistero, è presente 63 volte); la storia è un luogo dell’intelligenza della fede; la storicità è il coefficiente di tutti i luoghi teologici. La mutazione del mondo e le evoluzioni dell’uomo sono intermediari per l’attualizzazione del mistero, in un’assunzione delle realtà terrestri omogenea all’assunzione della natura umana da parte del Figlio di Dio. Dio è entrato nella storia: questa è la chiave di volta della costituzione, dal titolo appunto: la Chiesa  nel (non e il) mondo del nostro tempo.

Quindi, la prima operazione del cristiano consiste nell’individuare i segni del tempo (termine evangelico rimesso in circolazione da Giovanni XXIII), cioè gli avvenimenti che, nella storia in cammino, rappresentano delle disponibilità a manifestare il disegno di Dio e a significare il lavoro dello Spirito.

A questo punto, vivere nel mondo, conoscerne le discipline e le strutture, sposarne le forme mentali e le aspirazioni fornisce, anche ai non credenti, un titolo per discernere le leggi dell’evangelizzazione. (Cost. Gaudium et spes, n.44). Se i pastori e i teologi ricoprono il loro ruolo, è tutto il Popolo di Dio chiamato a condurre questa ricerca, a scrutare, a interpretare i molteplici linguaggi del nostro tempo, e a giudicarli alla luce della Parola di Dio, affinché la verità rivelata possa essere continuamente percepita e meglio compresa (ibid.). Così la fede, secondo il nuovo vocabolo promosso ufficialmente, è “inculturata”, secondo i diversi coinvolgimenti dei luoghi e dei tempi.

In questa economia, in cui il futuro è messo in conto come misura del presente, l’applicazione dei testi conciliari fa maturare le loro implicazioni; la praxis, nella fedeltà comunitaria e tradizionale, gonfia di linfa gli enunciati già elaborati. Operazione profetica, nel getto delle ispirazioni originali, nelle energie dello Spirito. Questa è la “ricezione” del Concilio. Come fervido osservatore della vita della Chiesa e delle Chiese locali, dopo il Vaticano II, mi piace stare in comunione di spirito e di cuore con questi continui fermenti - pur quando rivelano goffaggini e derive -, impegnato concretamente, giorno dopo giorno, nella vita del Popolo di Dio, nell’attualizzazione della Buona Novella. Le frasi di Ratzinger sono tristi.

Se dovessi ricapitolare i benefici di questa ricezione creativa che tiene aperte le prospettive del Concilio, riprenderei le parole di un rapporto inviato al Segretariato per i non-credenti, in cui il Rettore dell’Università Saint-Paul di Ottawa traccia queste linee direttrici:

 

“Siamo passati

da una Chiesa clericale a una Chiesa Popolo di Dio,

da una Chiesa della Cristianità a una Chiesa missionaria,

da una Chiesa del rito a una Chiesa della Parola,

da una Chiesa delle regole a una Chiesa dell’esperienza umana,

da una Chiesa uniforme a una Chiesa plurale,

da una Chiesa che si adatta al mondo a una Chiesa che partecipa ai cambiamenti del mondo,

da una Chiesa garanzia dell’ordine sociale a una Chiesa che si schiera per i poveri,

da una Chiesa provveditrice di servizi religiosi a una Chiesa comunità responsabile.

Possiamo dire che, in meno di venticinque anni, la Chiesa cattolica canadese ha fatto passi da gigante per adattarsi, ringiovanire, ritrovare l’essenziale, convertirsi, spogliarsi”.

 

Marie-Dominique Chenu op

da Lettre, n° 325, novembre 1985

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