Koinonia Ottobre 2022


Un nuovo libro di Paolo Ricca e i 60 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II

 

PARLARE DI DIO, SI PUÒ?

 

A proposito di ateismo in Occidente, due domande inquietanti non possono essere taciute.

La prima è una domanda autocritica delle Chiese che non possono non chiedersi quanto l’allontanamento di molti dipenda da lacune più o meno vistose, ma comunque consistenti, nella predicazione e nella pastorale che esse impartiscono ai loro fedeli, nonché nella qualità della vita comunitaria e, più in generale, nello stile di vita della Chiesa nel suo insieme.

La seconda domanda riguarda il discorso pubblico delle Chiese, che parlano molto di migranti da accogliere, di diritti umani da rispettare, di habitat naturale da proteggere, di libertà religiosa da garantire, di fraternità umana da praticare (tutte cose - beninteso - sacrosante, senz’altro da perseguire), ma parlano poco di Dio, come se temessero di non essere ascoltate, o anche, più probabilmente, non sapessero che cosa dire di Dio. Questo (relativo, ma reale) «silenzio su Dio» da parte delle Chiese, come se Dio non fosse il loro tema, anzi il loro unico tema, che cosa rivela? Solo imbarazzo, insicurezza psicologica, eccesso di pudore, o non piuttosto una sostanziale carenza di fede, un livello insufficiente di certezze interiori?

Gesù ha fatto moltissima diaconia: ha guarito, curato, risuscitato, liberato, ma non parla mai delle sue opere, parla del regno di Dio vicino. Ma dov’è, oggi, nelle Chiese la predicazione del regno di Dio vicino? Questo «silenzio su Dio» è il dato più allarmante dell’odierna situazione del cristianesimo.

Paolo Ricca

in Dio. Apologia, pp.25-26

 

 

 

È la domanda sottesa ad un discorso  sulla “teologia”, intesa come  riflessione organica su Dio, adorato in spirito e verità, amato con tutta la mente oltre che con tutto il cuore e tutte le forze: parlare di Dio alla luce della fede che desidera vederlo faccia a faccia. Se ci chiediamo “si può?” è anche perché il Nome santo di Dio sembra scomparso dal linguaggio corrente, e c’è come da chiedere il permesso per poterlo nominare pubblicamente. Ma è soprattutto a causa dell’afasia dei credenti e delle chiese, che forse lo nominano invano, in maniera vuota, senza la capacità di pensare e di dire qualcosa di lui da condividere al di là del puro sentimento religioso, delle formule rituali, dei gesti cultuali, quando appunto Dio è un’idea regolatrice del nostro universo religioso fuori dall’orizzonte comune della storia.

Mentre ci dibattiamo in questo interrogativo, ci viene incontro Paolo Ricca col suo nuovo libro “Dio. Apologia” (Claudiana, 2022, pp. 411, € 24,50), che osa invece riportare il Nome di Dio  al centro del discorso cristiano nel mondo e riportare la riflessione e ricerca teologica nel suo alveo naturale.  La pagina riportata dal libro ci fa entrare nello spirito di questa opera e nel vivo della problematica a cui vuol dare risposta: che di Dio se ne possa e se ne debba parlare più che mai anche oggi  in maniera aperta e significativa, alla maniera di Gesù, la cui predicazione  sarebbe del tutto  vuota  e addirittura superflua, se prescindesse dal Regno di Dio e dalla sua passione di farci conoscere il Padre.

È chiaro che il libro deve diventare oggetto di attenta lettura e di studio, se vogliamo che non si  risolva in fatto editoriale di successo, ma diventi un punto di incontro, di confronto e di cooperazione plurale per una ricerca critica che avvalori la fede e le dia nuovo diritto di cittadinanza storica, culturale in un mondo da una parte refrattario al richiamo della fede, dall’altra saturo di neo-conformismo religioso. Evocare il Nome santo di Dio in questa situazione spaventa un po’ tutti, in quanto  porterebbe all’azzeramento di un sistema religioso integrato chiesa-società, dove rimane poco spazio alla Parola di Dio viva ed efficace e non vincolata, che in effetti ci costringerebbe ad uscire da aggiustamenti di comodo, mettendo in risalto ciò che vi è di simile e di plausibile, che è il meno, e cancellando ogni diversità ed ogni irriducibilità tra il mondo della vita e il mondo della fede.

Volendo esprimere qualche impressione di prima lettura, colpisce subito l’originalità di impostazione: non è un trattato su Dio in senso stretto, magari ravvivando ciò che è acquisito e scontato per i credenti. In realtà ci troviamo  davanti ad un dialogo a distanza su Dio con quanti in età moderna ne  hanno parlato criticamente da diversi punti di vista. Si direbbe che una vera e propria teologia come discorso su Dio è stata fatta da filosofi, pensatori, autori di area laica   e di non fede: da cui il fenomeno di secolarizzazione. Nell’ascolto e nel rispetto di tutte queste voci  che parlano di Dio con accenti diversi, Paolo Ricca ne rivisita il pensiero e i pronunciamenti, senza negare o condannare, ma riuscendo sempre a cogliere suggestioni e spunti di verità e volgendo in positivo un pensiero dedicato a Dio nella sua realtà profonda di fede, che relativizza inevitabilmente quanto si dice in negativo e in positivo di Dio. È il mistero di Dio rivisitato nella sua realtà  secondo le molteplici  forme  in cui si  presenta nell’esperienza  e nella riflessione umana.

E dopo aver parlato di Dio in ascolto delle voci dissonanti di pensatori laici, Paolo Ricca intende parlarne, nei limiti del possibile come egli dice, così come si presenta e si rivela nella Bibbia, Ne risulta un quadro trasparente che introduce alla meditazione e alla contemplazione: alla riscoperta del volto di Dio. Ma ciò che più conta nella lettura di questa seconda parte non è tanto la ricostruzione di una immagine, quanto piuttosto l’intenzionalità che l’attraversa: che è quella di credente capace di dare rilievo teologico e di pensiero, e quindi di verità condivisibile a scanso di voli mistici o di enfasi spirituali: Dio nella sua comunicazione ma anche nella sua inaccessibilità, Dio che si svela ma al tempo stesso rimane nascosto. Il fatto importante è che questo Dio non sia un tema particolare da inquadrare in un universo religioso, ma sia l’orizzonte  della storia e della vita di tutti. Non come sfondo neutro per mettere tutto il resto in primo piano, ma come la luce che rivela e si rivela in ogni piccola cosa. E questo non per i buoni uffici e le pacifiche relazioni tra le molteplici “religioni”, ma in spirito e verità,   in sincerità e profondità, senza la pretesa di proporre un Dio a nostra immagine e somiglianza, quale che sia.

Dopo aver messo a fuoco obiettivamente la fede nel suo contenuto biblico, e cioè il Dio della fede, il passo ulteriore è quello della fede vissuta come esperienza personale. Ed è qui che Paolo Ricca dà la sua testimonianza e in qualche modo fa la sua confessione, senza peraltro ridurre a sentimento mistico, a pura soggettività emotiva e neanche a puro pensiero il dato della fede, che conserva tutta la sua irriducibilità a fenomeno di psicologia religiosa. Nella sua esposizione, egli ci fa vivere la carità come gioia di condivisione della verità. Si potrebbe dire che anche senza volerlo offra una chiave di armonizzazione tra la sostanza della fede professata con le sue concretizzazioni personali, sociali e culturali: che era la ragione primaria per cui Giovanni XXIII propose e convocò il Concilio Vaticano II.

Non sembri perciò fuori luogo legare questo libro alla scadenza dei 60 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962. Proprio questa apologia del credere in Dio dentro il clima culturale e storico della modernità e oltre ci riporta a qualcosa che ci siamo ripetuti da sempre anche da queste pagine e in diverse occasioni, ma recepito come qualcosa di marginale e di opinabile. Ma proprio grazie alla lettura di questo libro mi sento ora di riportare al centro la questione vitale di tutto il Concilio: il problema della fede in Dio - di una Chiesa e di tutte le Chiese - dentro un mondo in cui Dio sembra aver ricevuto lo sfratto ma in cui egli continua a parlare diversamente e in molti modi, per farsi sentire  di conseguenza attraverso la sua Parola vivente, l’uomo Cristo Gesù. Non è altro che il “punctum saliens” che Giovanni XXIII propose al Concilio della Chiesa ma poi anche alla Chiesa del Concilio: la sostanza del credere e di una fede vissuta, testimoniata, pensata, trasmessa in maniera sintonica, attraverso una “predicazione” nuova del Vangelo di Dio! Si dimentica troppo facilmente che la via maestra per l’“aggiornamento” previsto è appunto questa predicazione!

Devo dire che, sì, ho paura delle celebrazioni e delle rievocazioni del Concilio Vaticano II per questa sua scadenza: potrebbe essere l’ultimo atto celebrativo della sua sepoltura, magari dandolo per attuato e metabolizzato in una chiesa a forte impronta tridentina, e cioè figlia di  un altro Concilio e non ancora  immagine del Vaticano II. Ho paura di memorie enfatiche che preludono ad archiviazioni definitive. Ho paura di visioni futuristiche di un evento passato saltando tranquillamente il presente. Insomma ho paura di una chiesa che canti  vittoria e si lasci andare  all’autocompiacimento per aver riconquistato il mondo e si senta a posto nel suo nuovo modo di essere. Magari attraverso la formula magica del “Sinodo”!

Stando così le cose, se dovessi riconoscermi e rapportarmi a qualche situazione analoga, mi ritroverei perfettamente  a parafrasare la Lettera a Pipetta di don Lorenzo Milani, questa volta nei confronti di quanti hanno ritenuto e ritengono di aver raggiunto lo scopo del Concilio ed a cui mi sentirei di ripetere: “Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: «Beati i... fame e sete»”.

Sì, ripenso a tanti compagni di strada di questo lungo esodo, in cui via via ciascuno trovava qualche oasi in cui sentirsi arrivato, magari con uno sguardo di degnazione per chi rimaneva sulla breccia. Volendo dare un riferimento di un diverso modo di intendere e di procedere, forse si può pensare a  queste prospettive: quella di una “ecclesia condita“ o di chiesa istituita  in cui sentirsi installati e a cui apportare adattamenti di facciata e di giornata; e quella di una “ecclesia condenda” o di chiesa da istituire nel senso di una rigenerazione globale del suo modo di essere. Non sono la stessa cosa la chiesa esistente e la chiesa nascente: c’è solo da dire in quale versante muoversi e per quale spendersi!

 

Alberto B. Simoni op

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