Koinonia Ottobre 2022


“Essere teologi” per...

 

CREARE UNO SPAZIO DI RESISTENZA E DI SOLIDARIETÀ

 

Ho insistito perché si riconoscano i dubbi e le domande, il dolore affettivo e spirituale delle persone che soffrono. Vi vedo un modo di resistere al male. Le domande e le grida, ivi compresa la collera contro Dio, persino dei gesti di automutilazione (perché tutto il resto sembra impossibile) possono costituire forme di resistenza. Per lo meno a breve termine. Il bellissimo Trattato delle lacrime, di Catherine Chalier, mi ha insegnato che anche le lacrime possono fare bene a coloro che, uomini e donne, non hanno più altro che quelle. Perché tutto è loro venuto a mancare. Perché Dio è loro venuto a mancare. O perché così essi credono. E perché si sentono in colpa solo a pensarlo.

Ci sono pochi luoghi nella comunità cristiana in cui questi drammi possono trovare espressione senza creare danno, senza il rischio di essere giudicati o rifiutati. E, tuttavia, proprio coloro che soffrono e sollevano la questione di Dio hanno maggior bisogno della comunità, una comunità in cui essi possano fare esperienza di Dio, di un Dio che si prende cura di loro, di una comunità che affronta le loro domande insieme con loro, che le condivide e che le presenta a Dio senza imbavagliarle con risposte preconfezionate. E uno dei motivi che rendono il counseling pastorale tanto importante: sovente è il solo spazio dove questi drammi possono esprimersi in tutta libertà e in sicurezza. La collera è un rischio. E più ancora la collera contro Dio, l’Onnipotente! Per altri è un rischio l’avvicinarsi a Dio. Come per Louise, che tenta a poco a poco di immedesimarsi nel quadro del Ritorno del figlio prodigo di Rembrandt, al quale il padre spalanca le braccia, perché lei ha paura. O Lucie, che si esercita a deporre il capo sulle ginocchia di Dio, senza la paura che le venga fatta una richiesta sessuale! (Nadeau J.-G., Golding C., Rochon C., Autrement que victimes. Dieu enfer et résistance chez les victimes d’abus sexuels, Montréal, Novalis 2012, 192).

Infine, la cura pastorale si farà solidarietà. Una solidarietà tanto più necessaria, dal momento che la sofferenza ha spesso l’effetto di isolare e di desolidarizzare. La solidarietà dell’accoglienza e dell’ascolto, dell’empatia, della condivisione e persino della ricerca comune. Ora, questa solidarietà concerne anche il ministero teologico e la liturgia che accompagnano la cura d’anime

Essere un teologo significa difendere Dio, è mettere di nuovo insieme i pezzi di una consapevolezza infranta e di un rapporto frantumato. Grande è la sofferenza degli esseri umani, nostri compagni di viaggio, e profonda è la estraneità tra loro e Dio. Il teologo deve essere uno che guarisce quel rapporto, uno che fascia le ferite, uno che consola.

Essere un teologo è parlare per gli altri esseri umani, perché noi non abbiamo limiti nella nostra complessità, sofferenza ed’estasi. È aver ascoltato la gioia, la confusione e la disperazione. È aver ascoltato lodi, rabbia e impotenza.

Essere un teologo è essere solidale con il proprio prossimo di fronte a Dio. È presentare il cuore dell’altro a Dio. È benedire e condividere la benedizione, è provare rabbia e condividere la rabbia, è presentare la disperazione degli altri a Dio. È parlare con Dio per il popolo, è rivolgersi a Dio in rappresentanza del popolo. È essere arrabbiati con Dio, per la gente. È lodare Dio, con loro. (D. Blumenthal, Facing the Abusing God. A Theology of Protest, Westminster, John Knox Press, Louisville/KY 1993, 3s)

 

Jean-Guy Nadeau

 

In Concilium 3/2016, Dio, dove sei? Rispettare e prendersi cura del cuore e dell’anima che soffrono (pp. 144-46) 

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