Koinonia Ottobre 2022


IL DILUVIO E L’ARCOBALENO (II)

 

Parte seconda: Il prezzo dell’alleanza

 

Dopo la caduta la condizione del mondo è andata di male in peggio, ma anche quella di Dio, che di fronte al male non ha potuto che soffrire. Al punto che lo scrittore sacro arriva in certi momenti a dirci il sentimento intimo e profondo di Dio, il dolore e le intenzioni di un Dio che non poteva sapere prima quel che sarebbe accaduto se poi giunge addirittura a pentirsi di quello che aveva creato. “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Signore disse: ‘Sterminerò dalla terra l’uomo che ho creato: con l’uomo anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito d’averli fatti’” (Gen 6,5-7).

Di qui la decisione di distruggere tutto col diluvio. “Allora Dio disse a Noè: ‘È venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco io li distruggerò insieme con la terra’” (Gen 6,13). Qui dunque la distruzione del mondo non è dettata da una potenza infinitamente grande che capricciosamente decide di schiacciare la sua infima opera. No, qui la distruzione è dettata da un misto di dolore, impotenza e amore, qui per la prima volta incontriamo la sofferenza e l’impotenza di Dio, quella che si rivelerà con grande evidenza nel Getsemani e nel Golgota. Ma per comprendere questo autentico soffrire di Dio, intrappolati come siamo stati per molto tempo su categorie metafisiche e aristoteliche, ci sono voluti secoli, e ancora oggi la gran parte dei credenti non ne ha nemmeno l’idea, ritenendo ancora Dio come colui che sa tutto, può tutto e che non è toccato da nulla. La passione e la Kenosis del Dio di Cristo iniziano fin dal principio, dal dolore con cui Dio si trova costretto a distruggere ciò che aveva creato e amato come se stesso.

Per questo subito dopo scaturisce un secondo pentimento in Dio: se prima si era pentito di avere creato l’uomo, dopo il diluvio si pente di averlo distrutto. “Allora Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali mondi e uccelli mondi e offrì olocausti sull’altare. Il Signore ne odorò la fragranza e pensò: ‘non maledirò il suolo a causa dell’uomo, perché l’istinto del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto’” (Gen 6,20-21).

E veniamo così anche a sapere che il dolore di Dio invece di estinguersi aumenta col passare dei giorni, che sofferenza si aggiunge ogni volta ad altra sofferenza, come sa ogni padre quando si sente costretto a punire il figlio per poi pentirsi subito dopo averlo fatto vedendolo soffrire.

André Neher ha fatto notare che la parola ebraica che in questi due passi esprime il pentimento di Dio è nehamâ, un termine che contiene il nome stesso di Noè e che significa consolazione oltre che  pentimento, come se Dio, prendendo la decisione di distruggere quanto aveva creato, tentasse al tempo stesso di salvarne un resto, qualcosa che potesse permettere  un nuovo inizio, riaprendo così la via verso il futuro. E lo farà, appunto, scegliendo Noè, colui che quando nacque fu chiamato così perché avrebbe consolato Dio, restando “uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei” (Gen 6,29). E questo per dire come sia necessario al bene che il pentimento non porti mai alla sola distruzione ma anche all’apertura verso la speranza e la consolazione, continuando a trovare motivi per il futuro della propria opera e della propria vita. Questo è dunque il desiderio che passa nel cuore di Dio mentre  odora “la fragranza” dell’offerta di Noè. E anche qui chi meglio di un genitore, un marito, una moglie, sa quale sia il dolore, la fatica ma anche la gioia del ricominciare daccapo dopo momenti di fallimento, caduta e pentimento?

 

Ma non finisce qui: le cose lasciano il segno e nulla sarà come prima. L’uomo inizia a diventare carnivoro, a mangiare gli animali suoi compagni della prima ora e Dio deve prenderne atto come costretto ad adeguarsi scegliendo il male minore: “Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra. Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto strisca sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo come già le verdi erbe” (Gen 9, 1-3).

Dio torna a impartire di nuovo all’umanità il comandamento di moltiplicarsi e riempire la terra rimasta col diluvio vuota di viventi. Questa volta però gli animali non dovranno solamente essere sottomessi all’uomo, ma anche essere uccisi. L’umanità diventa per la prima volta carnivora, deve uccidere per nutrirsi e gli animali cominceranno a essere terrorizzati di avere davanti a sé creature umane pronte ad ucciderli. I carnivori inizieranno a cacciare e mangiare gli erbivori in una truculenta catena che dura fino a oggi, e una domanda a questo punto deve essere fatta: che colpa avevano gli animali?

Nessuna, è che ad un certo punto a pagare davvero il prezzo della colpa sono proprio gli innocenti e questo non è certamente Dio a volerlo. È avvenuto qualcosa che ha spiazzato Dio, qualcosa che Dio non si aspettava, che mai avrebbe voluto, e in questo c’è anche la sofferenza degli animali. Dio stesso ha dovuto con fatica adeguarsi, potendo solo soffrirne. “Egli è impotente a vincere o a combattere questo stato di cose – anche Lui”, dice Rozanov. È un po’ come se uno volesse mettere al mondo una creatura bella e intelligente ed ecco invece nascere un “essere scimunito, con sei dita e vizi imprevedibili”, e alla fine ci si assoggetta in qualche modo. Sì, Dio si assoggetta “come un padre afflitto che guardi il suo piccino fatto ‘diversamente’ e vorrebbe rimediare, ma non può. E lo ama così com’è” (L’apocalisse del nostro tempo).

Guardando con orrore anche soltanto un gatto che stritola il povero topo che squittisce, a noi dovrebbe venire in mente questa comune origine di dolore, un dolore che coinvolge Dio stesso, un dolore così intenso, esteso e continuo in ogni istante e in ogni parte della terra che non riusciremmo a sopportarne la consapevolezza nemmeno per due secondi. De Unamuno parla di San Francesco d’Assisi che chiama fratello il lupo percependo in lui “una dolorosa fame di pecore, e forse il dolore di doverle divorare”. Vi è certamente un primato del dolore sulla colpa che dovrebbe far riflettere ogni moralista e farci andare piano con gli affrettati giudizi e con rispostine a buon mercato. Essere dalla parte di Dio e delle creature è innanzitutto percepire il bisogno che abbiamo tutti di uscire da questa morsa interminabile di dolore. “Il dolore è una realtà spirituale – continua De Unamuno – e la rivelazione più immediata della coscienza, e forse il corpo non ci fu dato che per offrire la possibilità al dolore di manifestarsi” (Del sentimento tragico della vita). Ed è proprio da questo dolore che la nostra fede è chiamata a rivolgersi a quel mondo promesso nel quale, come dice Isaia: “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, … e il leone si ciberà di paglia come il bue” (Is 11,6-7).

 

“Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: ‘Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi; con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e bestie selvatiche, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra’” (Gen 9,8-11).

È la prima di una serie di alleanze di Dio con gli uomini, una sorta di impegno e di tregua in mezzo alle fatiche e al dolore, nella consapevolezza di come le cose continuino inesorabilmente a complicarsi e di come non bastino più le buone intenzioni per rimediare. E persino Dio potrebbe finire nella condizione di non riuscire più a rispettare gli impegni presi trovandosi costretto, come ai giorni del diluvio, a scegliere il male minore, e persino nel bisogno di ricordare quanto ha promesso. Senza segni e senza memoria non c’è salvezza, come non ce n’è senza la fede che crede e attende. E la fede ha bisogno di quelli che Franz Kafka chiamava “fulcri”, di qualcosa di magari accennato appena e che dura un niente, proprio come l’arcobaleno, ma concreto, visibile, davanti al quale ci si può persino stupire, tanto è fuori dell’ordinario e appare quando nessuno se lo aspetta, ma anche restare indifferenti, come a noi tante volte accade. Arcobaleno in ebraico è detto con la stessa parola che significa anche ‘arco da guerra’. Dio con l’alleanza pone il suo “arco sulle nubi” dicendo che lo guarderà “per ricordare l’alleanza eterna” tra lui e “ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra” (Gen 9,13.16). E così fa pace col mondo, accetta la tregua, intende avere molta pazienza.

 Ma sarà questa pazienza in grado di evitare la distruzione sulla terra come già avvenne ai giorni di Noè? Si può dubitare, e proprio tenendo conto del fatto che a volte Dio è costretto suo malgrado a rimediare permettendo anche ciò che è male e causa tanto dolore pur di porre una barriera a mali peggiori. Ed è proprio restando vicino a Dio nel suo dolore, lo stesso che si è soprattutto manifestato nella passione e morte del Cristo, che possiamo comprendere il motivo per cui Gesù a un certo punto è stato costretto a dire: “Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito fino a quando Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà alla venuta del Figlio dell’uomo” (Mt 24,38-39). E poco prima parlò pure di “una tribolazione grande, quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino ad ora, né mai più ci sarà” (Mt 24,21).

Può infatti anche accadere che proprio ciò che salva è anche ciò che danna e viceversa. Secondo la Lettera agli Ebrei infatti, è stata proprio la fede di Noè, l’avere percepito prima degli altri “le cose che ancora non si vedevano”, a condannare quelli della sua generazione divenendo così “erede della giustizia secondo la fede” (Eb 11, 7).

Di questo è quanto mai necessario riflettere da parte di chi continua a essere credente in attesa del compiersi delle promesse di Dio, soprattutto in tempi difficili come i nostri, tempi in cui qua e là quasi ogni giorno appaiono i segni di cui Gesù stesso ha parlato mettendoci in guardia, esortandoci a restare svegli in attesa di lui che un giorno di nuovo verrà. La fede è ciò che aiuta a restare con occhi bene aperti, a ricordare una promessa potente e antica proprio là dove “balena l’istante del pericolo”, direbbe Benjamin (Angelus Novus). La redenzione ormai non potrà che essere pagata a caro prezzo, e a rivelarcelo con una certa forza non è tanto l’apparire dell’arcobaleno quanto il volto sofferente del Cristo, il fatto che Dio, prima di risuscitarlo, abbia per salvarci dovuto toglierlo “di mezzo inchiodandolo alla croce” (Col 2,12-14).

 

Daniele Garota

(2. fine)

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