Koinonia Ottobre 2022


LE CHIESE E LA GUERRA (II)

 

Nel luglio del 1966, il Consiglio Ecumenico delle Chiese constata che “i cristiani hanno ancora opinioni diverse sulla questione se i mezzi militari possano essere legittimamente usati per raggiungere obiettivi necessari alla giustizia, ma la guerra nucleare... è contro la volontà di Dio ed è il più grande di tutti i mali”. Si conferma dunque il giudizio della prima riunione, quella del 1948.

 

La guerra del Vietnam, con l'uso massiccio del bombardamenti e delle armi più micidiali per la popolazione civile, interpella la coscienza dei cristiani e misura la posizione delle chiese. Il cardinal Lercaro, nel gennaio del 1968, dichiara che la via della Chiesa non è la neutralità, ma la profezia, mentre Paolo VI cerca una mediazione diplomatica, evitando condanne pubbliche della posizione americana. La storia ha poi dato ragione alla posizione di Lercaro, soprattutto se si considerano le tragiche conseguenze di quella guerra per la nazione americana e la coscienza occidentale.

 

A metà degli anni '60 si assiste in America latina a complessi e drammatici processi di liberazione che impegnano i cristiani a una scelta per i poveri e nelle lotte per la giustizia. Si pone subito il problema della loro partecipazione alle azioni rivoluzionarie, anche armate.

La Conferenza di Ginevra di Chiesa e Società riconosce la legittimità del coinvolgimento dei cristiani nei processi rivoluzionari in quanto, in alcuni casi, cioè per rovesciare un ordine esistente basato su una grande violenza nascosta,  può darsi che l'uso di metodi violenti sia l'unico a cui è possibile ricorrere.

Nel 1967, Paolo VI, nella Populorum Progressio, ribadisce la possibilità dell’insurrezione violenta nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attentasse gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuocesse al bene comune del paese. Si assume così la spinta che viene dalle lotte di liberazione e dalla presenza, in esse, di molti credenti.

Missione Oggi conclude il paragrafo constatando che, su due versanti molto distanti, la guerra del Vietnam e le lotte di liberazione in America latina, si riprende l’antico schema della giustificazione della guerra... come male minore, mettendo tra parentesi le urgenze del Vangelo, di cui si riconosce di fatto l’impotenza o, peggio, l’insignificanza.

Vorrei sottolineare però la distanza fra i due eventi per una migliore comprensione delle motivazioni che hanno spinto i cristiani in genere e le gerarchie a giustificare la violenza nei due casi.

 

Nel 1976, la Santa Sede fa arrivare all’ONU un documento sul disarmo in cui, con forza inusuale, si condanna la corsa agli armamenti... e si valorizza la testimonianza della non violenza evangelica. “La corsa agli armamenti è contraria all’uomo ed è contraria a Dio. Bisogna quindi bandire questa corsa folle (alienum est a ratione) in nome della morale” (ma non del Vangelo evidentemente!). Le armi atomiche sono definite “nefaste e disonoranti”. Si ribadisce il diritto a difendersi, ma con una resistenza attiva e senza violenza e, se non c’è proporzione tra il danno causato e i valori da difendere, allora “è meglio subire l’ingiustizia”. Questo documento precede di pochissimo l’installazione dei missili americani nell’Europa occidentale per bilanciare la presenza degli SS20 sovietici. Si riapre decisamente il dibattito sulla deterrenza nucleare che attraversa, in un modo mai avvenuto in precedenza, non solo la sede apostolica, ma interi episcopati.

 

Nel giugno del 1982, nel corso della 2° sessione straordinaria dell’ONU sul disarmo, Giovanni Paolo II interviene affermando che “nelle condizioni attuali, una dissuasione fondata sull’equilibrio – non certo concepito come fine a se stesso, ma come tappa sulla via del disarmo progressivo – può ancora essere considerata come moralmente accettabile” (ancora la morale!). Si può pensare che questo sia conseguenza delle ambiguità della Gaudium et spes, al punto che i vescovi francesi arrivano a dire: “In un mondo in cui l’uomo è ancora lupo all’uomo, trasformarsi in agnello può significare provocare il lupo”, frase in cui la menzione dell’agnello ricorda evidentemente più la favola pagana di Esopo che l’agnello immolata della scrittura sacra. Il cardinal Casaroli, Segretario di Stato, sembra più preoccupato dei diritti e delle esigenze degli stati che delle esigenze del Vangelo, quando si preoccupa di non creare difficoltà all’autorità politica.

 

Quando, nel 1991, scoppia la guerra del Golfo, Giovanni Paolo II impegna tutto il suo ministero pastorale contro questa guerra, di cui tanti colgono l’irrazionalità, la forza di devastazione e di inimicizia, manifestando in tutto il mondo. Il 12 gennaio, alla vigilia del conflitto, il papa afferma: “Le esigenze di umanità ci chiedono oggi di andare risolutamente verso l’assoluta prescrizione della guerra e di coltivare la pace come bene supremo... al quale tutte le strategie debbono essere subordinate”. E qualche giorno dopo: “Mai più guerra, spirale di lutti e di violenza, mai questa guerra nel Golfo Persico”. Nell’incontro del 4-5 marzo con i vescovi dei paesi coinvolti nel conflitto, ribadisce che il nuovo ordine internazionale “ha escluso la guerra come mezzo utile per la soluzione delle controversie fra le nazioni”.

 

La situazione internazionale che si crea con la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, con l’affermarsi di forti spinte etniche, l’esplodere del conflitto nella ex-Jugoslavia e le conseguenti nuove responsabilità dell’ONU, danno adito a una nuova discussione, ancora aperta oggi, intorno al principio dll’ingerenza umanitaria.

Alla fine del 1992, Giovanni Paolo II parlando alla Curia romana a proposito della Bosnia e dell’Etiopia, dice: ”Quando delle intere popolazioni sono sul punto di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore, gli stati non hanno più il diritto all’indifferenza... Sembra proprio che il loro dovere sia di disarmare questo aggressore, qualora tutti gli altri mezzi si siano rivelati inefficaci”. Il commento di Missione oggi è critico: si chiede un intervento anche militare da parte della comunità internazionale per risolvere situazioni estreme, si afferma un principio, senza alcuna valutazione in ordine alla sua effettiva praticabilità, con l’unico risultato di enfatizzare una cultura di guerra.

 

Sempre nel 1992 esce il Catechismo della Chiesa Universale dove si ribadisce con forza il principio della legittima difesa (art.2264 e 2265). “I detentori dell’autorità hanno il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità”. Segue l’elenco delle ‘strette condizioni’ che giustificano una legittima difesa con la forza militare.

È un testo impressionante, commenta Missione Oggi, dove troviamo anche la formula di ‘guerra giusta’ che il Concilio non usa mai. Finito il sistema bipolare, esplosi i conflitti etnici e tribali, incapaci le organizzazioni internazionali di trovare soluzioni adeguate, la Chiesa cerca di essere presente nei conflitti attraverso un’etica razionale che ne stabilisca i limiti, le condizioni, i mezzi per intervenire.

Con il documento della Commissione Pontificia Justitia er Pax del 1993 sul commercio delle armi, si arriva non tanto a valutare se il commercio delle armi sia immorale o meno, ma ci si limita a individuare (come nel Catechismo) le condizioni in cui esso è giustificato eticamente: la legittima difesa giustifica il possesso delle armi la cui accumulazione deve essere regolata dal criterio di sufficienza. Quante bombe atomiche saranno necessarie per difendersi da un aggressore che le possiede? arrivando così al paradosso della giustificazione ideologica di una delle cause fondamentali che alimenta guerre e produce massacri. È stato detto che oggi si provocano le guerre, possibilmente in casa d’altri, per provare le nuove armi.

L’enciclica Evangelium vitae ribadisce e rafforza il diritto alla legittima difesa sia sul piano individuale che sociale. Il diritto, anzi a volte il dovere di uccidere, arriva a mettere fra parentesi il comando di Dio. L’enciclica riprende la teoria del ‘minor male’, apparentemente efficace, in realtà solo capace di giustificare i conflitti in atto e possibili interventi militari di carattere internazionale che, di fatto, sono impraticabili e, comunque, incapaci di cambiare in profondità le situazioni.

 

Sul piano ecumenico, nel marzo del 1990, assistiamo all’Assemblea Ecumenica Modiale di Seoul, sul tema “Giustizia, pace e salvaguardia del creato”, a cui partecipano teologi di tutte le chiese. L’assemblea nasce dalla grande spinta dei cristiani di tutti i continenti alla testimonianza della pace,

per una nuova fecondità del Vangelo nella storia. Ci si impegna esplicitamente a un rinnovamento delle chiese “passando dalla dottrina della guerra giusta... a una dottrina della pace giusta, rinunciando a qualsiasi giustificazione teologica, o di altro genere, dell’uso della potenza militare... testimoniando la pace di Cristo col confessare che la fedeltà a Cristo è al di sopra della fedeltà alla nazione e col dichiarare la propria disponibilità a vivere senza la protezione delle armi, nel caso le due fedeltà entrino in conflitto”.  Si chiede la riduzione e la successiva abolizione di tutte le armi ABC, ipotizzando anche un passo di ‘disarmo unilaterale’ e la promozione di forme concrete di difesa non violenta.

La guerra del Golfo e quella nella ex-Jugoslavia mostrano come molti di questi auspici siano rimasti sulla carta e le chiese facciano fatica ad abbandonare posizioni consolidate che, spesso, si identificano con le posizioni assunte dalle nazioni. Anche l’odierna crisi della guerra in Ucraina dimostra come nulla sia cambiato in 30 anni. Permane come una cecità a comprendere che solo il Vangelo della pace può abbattere l’idolo della guerra, mostrandone l’irrazionalità, se testimoniato secondo uno stile di povertà e di libertà da legami politici e interessi ecclesiastici. Se non ci fossero così stretti legami fra la Chiesa cattolica e lo Stato Pontificio, forse...

 

Donatella Coppi

(2.fine)

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