Koinonia Settembre 2022


VOGLIA DI TEOLOGIA

        

Diversi segnali dicono che c’è un risveglio di interesse per la teologia. L’editoriale della rivista Rocca (“Viva la teologia viva”, Rocca, 15 luglio 2022)) si apre con queste parole: “A partire da questo numero apriamo uno spazio ad un libero confronto teologico che sentiamo quanto mai opportuno, all’interno di una rivista che tiene molto al suo carattere laico ed ha a cuore la sua ispirazione cristiana. Una sorta di pentecoste teologica della cui necessità parla anche il Papa”.  Sono già intervenuti, sempre su Rocca, Paolo Gamberini e Selene Zorzi, mentre per la presentazione della seconda collana di Adista dedicata al futuro della teologia, è previsto il 28 settembre un incontro, con la partecipazione di Anna Carfora e Sergio Tanzarella, presso la Comunità di San Paolo di Roma, appunto sul tema “Quale teologia per quale chiesa. E per quale mondo”.

Mi permetto di esprimere tutta la mia soddisfazione, perché ho sempre pensato e ripetuto che una “questione teologica” ci ha accompagnato come un’ombra, ma sempre rimossa  o disattesa. Se ora c’è voglia di teologia non può fare che piacere, ma bisogna anche stare attenti a non farne una moda o solo una questione nominale: diciamo che è posta come “quaestio”, come questione, e cioè  un interrogarsi a carattere aperto e pubblico, che sollecita contributi e confronti a largo raggio per una intesa di fondo. Nata dentro il credere, la “questione” diventa ecclesiale.

Bisogna perciò intendersi su come procedere in solidarietà e, mentre condividiamo alcune riflessioni in proposito, l’attenzione autocritica va portata anche sulla impostazione del discorso teologico e sul metodo, se non vogliamo lasciarci andare a considerazioni a sfondo spirituale o a slogan di comodo. Non possiamo cioè affidarci alla sola definizione nominale di teologia per poi passare a discorsi di altro genere e di contenuti diversi: anche in questo campo ci sono  generi letterari da rispettare, ed è da considerare specificamente quello che è un “discorso teologico” in quanto tale: tanto fondato quanto responsabilmente prospettico.

È fuori discussione che è stata la ricerca teologica di decenni a preparare il terreno al Vaticano II e il lavoro di teologi pionieri a dargli forma, per cui ritengo che non si possa oggi parlare di teologia e della sua storia recente se non in parallelo al Concilio e al suo sviluppo, anche se a grandi linee. Viene però da dire questo: che mentre prima del Concilio le varie scuole e correnti teologiche hanno trovato una confluenza e uno sbocco comune, dopo il Concilio l’iniziativa è passata direttamente al Magistero papale, e i teologi hanno cominciato a muoversi in ordine sparso su questo o su quel punto di dottrina o di prassi - da dove le tante teologie - perdendo di vista l’orizzonte unitario del Popolo di Dio. All’autosufficienza del Magistero ha fatto riscontro un disimpegno dei teologi che hanno coltivato ciascuno il proprio orticello ma senza più un obiettivo comune su cui convergere e misurarsi, per cui tante teologie sono come cattedrali nel deserto e mancano di una dimensione e circolazione ecclesiale attiva. È mancata una funzione critica collettiva tra le varie tendenze e tensioni del dopo Concilio. Ecco perché, se c’è voglia di teologia, c’è da ritrovare la sua giusta collocazione dentro il cammino storico del Popolo di Dio, sia nelle sue prospettive di fondo che nel suo essere qui ed ora.

Nel 1969, parlando su “I compiti della teologia dopo il Vaticano II”, P.Congar avanza la proposta di un “presbiterio di teologi” (cfr LG n.48) all’interno delle funzioni e dei compiti  di una Chiesa locale: “Qui non vi sarebbe un primo teologo, per lo meno sotto forma personale. Ma vi sarebbero funzioni teologiche diverse integranti questa funzione, in se stessa una e unica, con la riflessione sulla fede. Tutto un complesso di mezzi, riviste e congressi in particolare contribuirebbero a creare legami e scambi tra i compiti particolari di riflessione e a favorire una sintesi che nessun teologo singolo potrebbe fare, ma che si farebbe a livello di questa comunità di teologi” (in Teologia del rinnovamento, Cittadella Ed. 1969, p.91). Egli pensa ad un “luogo di dialogo e di scambi destinato ad assicurare l’unità dello sforzo teologico al di là degli orientamenti e dei compiti diversi”. 

Sempre da questo volume - che nel sottotitolo parla di “mete, problemi e prospettive della teologia contemporanea - possiamo ascoltare anche P.Chenu, che scrive: “Se la teologia, non solo come ogni scienza, ma specificamente come Parola di Dio, ha una capacità di rinnovamento, è perché comporta  un riferimento al tempo, alla storia, nel suo oggetto stesso, anche se questo oggetto è la realtà  stessa di Dio. Ecco il paradosso… La scossa provocata dal Concilio troverà qui, con la sua ragione profonda, la sua permanente portata; non si tratta di un aggiornamento dopo due o tre secoli di ritardo, aggiornamento che bisognerebbe ripetere ogni cinquant’anni, ma stato permanente di rinnovamento, di re-formatio nel senso etimologico della parola” (ib. p.9).

Sono queste le direttrici proposte per un servizio teologico nel dopo-Concilio, non so quanto tenute presenti negli anni. A parte asservimento o sganciamento dalla sfera Magistero, la frattura più insidiosa si è verificata tra ricerca e riflessione teologica e vita reale del Popolo di Dio, se si fa eccezione della Teologia della liberazione. Il P.Chenu, prima ancora del Card. Martini, parla di due o tre secoli di ritardo in questo campo, e ci fa capire che col Concilio non abbiamo il suo azzeramento ma solo le indicazioni per ridurlo, se ne vogliamo tener conto.

Il manifesto di questa operazione l’abbiamo al n.12 della Lumen gentium, che aspetta di essere  tradotto in vita vissuta e prassi di ricerca teologica condivisa:  il soggetto primario di questa esperienza è il Popolo santo di Dio, in quanto partecipe dell’ufficio profetico di Cristo, così come partecipe della sua vocazione messianica e del suo ruolo sacerdotale. E come per questi due altri aspetti si prevedono dei “ministri” che ne  interpretino e sviluppino le potenzialità, così è per la dimensione profetica, che richiede a sua volta una mediazione, perché possa “diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità”. La “totalità dei fedeli”, “avendo l’unzione che viene dal Santo”, è il “luogo teologico” nel quale, per il quale e in nome del quale viene esercitato un ruolo di verifica e di riflessione quanto al “senso soprannaturale della fede di tutto il popolo”. Attraverso questo “senso della fede” - “suscitato e sorretto dallo Spirito di verità” -  nasce l’universale consenso in cose di fede e di morale, ed avviene una sorta di tran-significazione della parola umana in Parola di Dio, aderendo alla quale il popolo di Dio “con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita”.

Se il Popolo messianico di Dio è consacrato per un’opera di salvezza nel mondo attraverso la dedizione di tutti e di ciascuno nella carità, se il Popolo sacerdotale si offre a Dio come mediazione di salvezza attraverso ministri designati, il Popolo profetico è chiamato ad essere e rendere testimonianza della Parola di Dio rivolta agli uomini; e questo attraverso  cultori e interpreti dell’annuncio di salvezza in ordine al credere al Vangelo. Si tratta in sostanza di accogliere, pensare e riproporre la Parola di Dio in termini di verità, e quindi  nel suo valore umano di realtà e di condivisione: di visione globale del tutto!

Bisogna che la conoscenza o il sapere teologico abbia una sua specificità e autonomia e non si riduca a spiritualismo, sentimentalismo, moralismo, devozionismo, pragmatismo: il suo banco di prova è la comprensibilità, plausibilità e proponibilità umana o di pensiero della Parola di Dio. Senz’altro per una maturazione o età adulta del Popolo di Dio, ma soprattutto come fattore di cultura e fonte di civiltà o visione del mondo: non solo quindi per qualche aggiustamento pastorale provvisorio, né per qualche risonanza personale intimistica, perché il sapere teologico è sì soggettivo, ma come è soggettiva la verità, nel senso che è il soggetto a deciderne trascendendo se stesso e dando vita alla obiettività.

Se in questa prospettiva vogliamo guardare in avanti, ci ritroviamo in campo aperto verso la verità tutta intera nel mondo della fede, e quindi in piena  libertà di indagine, di discernimento, di riflessione, di elaborazione e di proposta. Se poi vogliamo consentirci uno sguardo retrospettivo, verrebbe da considerare i tanti modi e atteggiamenti in cui una volontà di riforma si è manifestata e si è via via affievolita, o per abbandono o per appagamento di conquiste immediate.  L’esperienza di tutti questi anni porta a dire che è mancato un impianto teologico portante  per gli sviluppi settoriali della vita della chiesa: una struttura di pensiero che non mortificasse il pluralismo, ma consentisse di valorizzarlo in una visione di chiesa post-tridentina meno frammentata, in cui una molteplicità spontaneistica di stili compromette di fatto un modello storico secondo il Vaticano II, mentre l’immagine dominante di chiesa è più che altro quella a sfondo pietistico, sentimentale, apologetico,  espressa ad esempio da Radio Maria e simili,  immagine peraltro preferita dal mondo laico e politico!

Certamente Koinonia non si è proposta un lavoro teologico professionale o accademico, ma ha avuto sempre a cuore che un’attività di pensiero accompagnasse la comunicazione interpersonale ed ecclesiale per la quale esiste. Semmai si potrebbe rilevare, al suo stesso interno, che mentre tutti hanno usufruito del suo potenziale comunicativo a tutti i livelli (umano, liturgico, culturale, operativo ecc…), una certa refrattarietà  c’è stata quanto alla dimensione di pensiero che ha innervato tutta l’esperienza e che la fa ancora vivere come strumento di base.

La nostra voglia di teologia  non  guarda ad un discorso tecnico come trattato a sé o come tema specifico di approfondimento: vuole essere il linguaggio parlato e comunicativo della fede come pensiero umano e di luce per un annuncio di verità,  metabolizzazione della Parola di Dio; una teologia che ne esplori sì i tanti significati, ma che soprattutto renda sempre più reale e credibile il nostro inserimento nel mondo della fede di cui farsi testimoni anche con giuste parole.  

Se  davvero si vuole far riemergere la natura sinodale della Chiesa, non basta cambiarne la struttura istituzionale storica, che resterebbe necessariamente tale e quindi statica; non basta  proporsi  un perfezionamento spirituale dei singoli; tanto meno basta un aggiustamento superficiale ai gusti celebrativi di assemblee osannanti. Senza trascurare niente di tutto questo, una sinodalità effettiva è pensabile dinamicamente come sviluppo ed esercizio del sensus fidei, e quindi di intelligenza, di penetrazione ed acquisizione della fede creduta; qualcosa che assicura una crescita continua e unitaria di ogni comunità di fede, da quelle locali a quella universale. È la legge dello Spirito di verità!

Quasi per assurdo si potrebbe dire che voglia di teologia altro non è se non desiderio e ricerca perché la “Tradizione” sia tradizione in entrata e in uscita, nel senso in cui dice Paolo: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso“. E se c’è oggi un problema di trasmissione della fede in genere e in particolare verso le nuove generazioni, prima di preoccuparsi di strumenti e tecniche di comunicazione, forse bisognerebbe interrogarsi sulla nostra stessa recezione della Parola di Dio, su cosa e su come si riceve. Rispunta fuori la questione della tenuta e della qualità della predicazione, per dire in sostanza che voglia di teologia  è prima di tutto sollecitudine e passione di condividere l’annuncio del vangelo “in persona Christi”, così come ci si esprime in ambito sacramentale.

Per quanti ritengono di condividere questa voglia di teologia, ecco una citazione guida di G.Ebeling: “In quanto responsabile riflessione sull’annuncio, non può da questo separarsi: la teologia senza annuncio è vuota, e l’annuncio senza teologia è cieco” (in Teologia e annuncio, Città Nuova Editrice, 1972, pp.41-42).

 

Alberto B.Simoni op

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