Koinonia Agosto 2022


Intermezzo tra prima e dopo

 

UNA CHIESA IN ASSETTO DI CONCILIO…

 

Le rapide pennellate di Papa Francesco per illustrare i segni di rinnovamento nella chiesa, e il fatto che la chiesa intera è in cammino sinodale, nell’intento di riproporre e  far evolvere il Vaticano II, inducono a pensare che siamo convocati a Concilio: se per Concilio intendiamo una chiesa che ripensa la propria fede dentro la storia di questo mondo, non è più possibile che essa si attardi in faccende domestiche di assetti  istituzionali, liturgici e pastorali che ne dovrebbero conseguire profondamente rinnovati. Certamente le situazioni odierne e le relative problematiche concrete sono diverse, ma la necessità di riportarle alla loro anima è ancora più urgente: un’anima che risiede in chi se ne fa portatore, in quanti vivono il dramma dello scollamento  della fede  dal mondo e soffrono del ritardo di secoli della chiesa esistente sulla meridiana della storia. Se vogliamo rintracciare questa anima, quella che ha dato vita al Concilio, lo dobbiamo fare guardando a Giovanni XXIII, che l’ha delineata in queste poche parole al momento in cui davanti ai suoi collaboratori rinnovava il suo atto di fede (24 maggio 1963): “Non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. Che è un cominciare sempre di nuovo!

È un compito da mantenere sempre vivo, se non vogliamo che quanto il Vaticano II ci ha trasmesso diventi sterile forma e terreno di conflitti tra continuità e rottura. Che i conflitti ci siano è quasi inevitabile, ma che siano per motivi di fondo, e non invece tra questo o quel punto di dottrina o di prassi. Per questo è importante avere presente qual è il cuore del Concilio nello spirito di Papa Giovanni, cosa deve rivivere in noi e cosa dobbiamo avere a cuore se davvero vogliamo muoverci nella sua linea: ciò che lo ha ispirato e suggerito  ha avuto sì risposte nell’evento Vaticano II, ma l’orizzonte della comprensione del vangelo nel tempo rimane sempre aperto. E prima d’essere riflessione e tematizzazione è esperienza di fede e spiritualità.

Siamo chiamati a Concilio non per ragioni particolari di dottrina o di disciplina, ma perché la chiesa deponga le vesti di grandezza, di potere, e anche di bellezza di cui si era rivestita nei secoli e torni alla sua nudità di crocifissa nella potenza della fede, in modo da presentarsi al mondo in tutta la sua povertà evangelica, capace di fare ricchi donne e uomini del proprio tempo. Il fatto che questa prospettiva si dia ormai quasi per scontata, non vuol dire che sia in via di sviluppo verso il suo compimento. Se guardiamo ancora a Papa Giovanni e alle sue parole del 24 maggio ‘63, ci dice di quali panni deve rivestirsi la chiesa incamminata su questo sentiero: “Ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intenti a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici”. È quella che verrà chiamata “chiesa dei poveri”, che ha senz’altro una sua realtà ma che non ha smesso di diventare la bussola per il futuro, in quanto postula che sia chiesa di tutti: nel senso sì che il vangelo è annunciato ai poveri, ma semplicemente per dire che è rivolto a tutti come invito a farsi poveri.

Tutto questo nel presupposto - dice sempre Papa Giovanni - che “noi a beneficio del mondo intero trattiamo gli affari più alti, ispirandoci alla volontà del Signore” (ib.). Gli “affari più alti” non sono altri che quelli della fede, “una fede per l’uomo e la sua storia. Una fede che sappia liberare e non alienare, e tuttavia una fede che non si appiattisca sulla filantropia, sull’umanesimo, sulla promozione umana, ma che sappia essere gelosa del proprio orizzonte messianico, che senta la forza e non la vergogna di essere fondata su Gesù crocifisso, il Cristo del Dio vivente” (G.Alberigo). Se era questo il messaggio implicito nell’annuncio del Concilio, esso ha provocato fin dal primo momento entusiasmo e diffidenza, due atteggiamenti che resteranno paralleli con alterne vicende attraverso il suo svolgimento e nel suo prolungamento. Lo stesso Paolo VI, scrive ancora Alberigo, “non è mai riuscito a sintonizzare le proprie convinzioni sulle riforme ecclesiastiche con il sostanziale mutamento di attitudine storica proposto da Giovanni. Non sembra corretto affermare che Montini sta a Roncalli come l’esecutore sta al profeta. Infatti è sempre più chiaro che il progetto di cui Paolo VI ha perseguito la realizzazione non era il disegno di Giovanni e neppure una parte di esso, ma il pacchetto degli aggiustamenti e delle razionalizzazioni che nei decenni tra il 1930 e il 1950 Montini aveva progettato durante la sua esperienza romana… In questo senso, e perciò senza che la lealtà di Paolo VI verso il suo predecessore debba essere messa in discussione, la direzione indicata da Giovanni è ancora tutta da percorrere”(in AA.VV.: La chiesa italiana nell’oggi della fede, Marietti, 1979, pp. 26-27). 

Se G. Alberigo diceva questo nel 1979, la divaricazione interna all’evento conciliare è ancora più netta oggi, e forse bisogna finalmente arrivare a vedere il Concilio nella sua dialettica interna e non come corpus unitario da prendere o lasciare in blocco: una dialettica che bisognerebbe riattivare nei suoi giusti termini, imperniata appunto sul “Vangelo che non cambia” o sulla sostanza della fede che rimane uguale a se stessa (sensus fidei) pur nelle sue variazioni socio-culturali del tempo. Diversamente è inevitabile lo scontro tra posizioni e interpretazioni settoriali, tra lettera e spirito, quando non si arrivi all’aut-aut “concilio sì-concilio no”. Si potrebbe dire che rimanere in stato di Concilio è ridare un’anima evangelica alla Chiesa e farsene interpreti!

 

Ma oltre che riportarci alla questione Concilio, la risposta di Papa Francesco ai confratelli gesuiti solleva un’altra questione, con riferimento alla vicenda del Preposito generale dell’Ordine P. Pedro Arrupe: e cioè la questione della “vita religiosa” in ordine alle sorti del Concilio. Quello del P.Arrupe e dei Gesuiti  è l’unico caso in cui la dialettica conciliare è stata presa sul serio, rispetto ad altri Ordini e congregazioni che si sono limitati a revisioni interne senza la necessaria radicalità evangelica. La questione non sarebbe meno urgente oggi, se effettivamente ci fosse modo di riattivare la necessaria dialettica “vangelo-comprensione del vangelo”, di cui il Vaticano II è testimonianza.

Ecco le inequivocabili parole del Papa: “Perché vi racconto questa storia? Per farvi capire com’era il periodo post-conciliare. E questo sta accadendo di nuovo, soprattutto con i tradizionalisti. Per questo è importante salvare queste figure che hanno difeso il Concilio e la fedeltà al Papa. Dobbiamo tornare ad Arrupe: è una luce di quel momento che illumina tutti noi”. Una fedeltà al Papa costata cara, ma sta di fatto che P.Arrupe è portato a modello non solo per i Gesuiti, ma per la “vita religiosa” in generale di cui peraltro è stato un maestro: egli è da seguire, lasciando cadere steccati e diffidenze tra portatori di carismi diversi, che proprio per far valere la loro differenza devono ritrovare un’anima comune e una comune passione di servizio del vangelo per il nostro tempo.

Rimanendo in ambito “Gesuiti”, qui di seguito c’è un ricordo del Card. C.M.Martini a 10 anni dalla morte. Vittorio Bellavite non si unisce al coro di quanti intendono celebrarlo nel suo indiscusso valore di Pastore, ma intende situarlo storicamente nel nostro cammino con le sue luci e le sue ombre. Sta di fatto che anche ricordando il Card. Martini, non siamo lontani dalla chiesa del Concilio, dichiarata da lui in ritardo di 2 secoli sulla storia del mondo  e bisognosa di un III Concilio, magari di Gerusalemme. Tutte cose che ci ripetiamo a memoria, ma che aspettano sempre chi ne tenga conto e se ne faccia carico,  per prendere coscienza del reale stato e andamento delle cose, al di là di ogni velo di precomprensione acritica elevata a sistema.

        

Che il Concilio sia in discussione ce lo ripete ancora una volta Papa Francesco, quando nella Lettera apostolica “Desiderio desideravi” dice chiaramente che nella “questione liturgica” tanto controversa c’è in gioco lo stesso Vaticano II: “Se la Liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia (Sacrosanctum Concilium, n. 10), comprendiamo bene che cosa è in gioco nella questione liturgica. Sarebbe banale leggere le tensioni, purtroppo presenti attorno alla celebrazione, come una semplice divergenza tra diverse sensibilità nei confronti di una forma rituale. La problematica è anzitutto ecclesiologica. Non vedo come si possa dire di riconoscere la validità del Concilio - anche se un po’ mi stupisce che un cattolico possa presumere di non farlo - e non accogliere la riforma liturgica nata dalla Sacrosanctum Concilium che esprime la realtà della Liturgia in intima connessione con la visione di Chiesa mirabilmente descritta dalla Lumen gentium... La non accoglienza della riforma, come pure una sua superficiale comprensione, ci distoglie dall’impegno di trovare le risposte alla domanda che torno a ripetere: come crescere nella capacità di vivere in pienezza l’azione liturgica? Come continuare a stupirci di ciò che nella celebrazione accade sotto i nostri occhi? Abbiamo bisogno di una seria e vitale formazione liturgica” (DD, n.31).

La “questione liturgica”, quindi, va presa in considerazione nella prospettiva storica del Concilio, così come dovrebbe avvenire per il “cammino sinodale”, che sembra rimanere avulso dai problemi reali della fede nel mondo, per ripiegarsi su questioni domestiche. In questo senso, l’articolo di Alberto Lepori, ripreso dal numero di giugno della rivista “Dialoghi” di Lugano e riportato alle pp.18-19, ci offre uno spaccato di come stanno andando le cose in proposito, e ci riporta alla centralità della celebrazione eucaristica come luogo naturale delle modificazioni della coscienza e delle strutture ecclesiali. Sempre sulla “questione liturgica”, viene riportata alle pp.20-23 una lettera dal Concilio di Albino Luciani - papa Giovanni Paolo I, che in settembre sarà dichiarato beato - per capire il cambiamento avvenuto a suo tempo nel Concilio, ma tutto da attuare nella coscienza e nella prassi della nostra chiesa.

Sempre in questa prospettiva andrebbe preso in considerazione il documento della Conferenza Episcopale Italiana “I cantieri di Betania - Prospettive  per il secondo anno del Cammino sinodale”: in esso sembra si voglia ritrovare la centralità della celebrazione eucaristica, ma quanto ci sarebbe da dire sul fatto che essa venga presentata  non  nella sua realtà di “mistero della fede”, ma “quale paradigma della sinodalità” e che in essa si concentrino tutte le dimensioni dell’esperienza cristiana, ma “in forma simbolica”!

 

Alberto B.Simoni op

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