Koinonia Agosto 2022


Ci vuol altro, a cacciar Cristo di nido,

Che dir ch’ell’è una favola: fa d’uopo

Favola ordir di non minore grido.

Vittorio Alfieri, Satira Settima. L’Antireligioneria, vv. 45-47

 

OPERAZIONE PLENILUNIO (I)

 

“Sarebbe meglio restare a bottega, oggi, con quello che si vede in giro…”.

 

“Vado soltanto a consegnare questo trapano a Menahem, se no è inutile che ci abbiamo lavorato tanto per finirlo” rispose Jeoshua  al garzone, un ragazzo nero di grasso fino ai capelli. Nella bottega sinistrata da oltre sei mesi, Jeoshua aveva cercato di rabberciare quello che poteva per continuare a lavorare. Lo aveva fatto soprattutto per Abdel, il ragazzo che tutte le mattine correva grossi rischi per saltare il muro e venire a dargli una mano, per portare a casa quattro soldi: a casa si fa per dire, perché di case non ne aveva più, da quando un carro armato l’aveva centrata in pieno e le ruspe l’avevano rasa al suolo, dopo aver fatto sloggiare sua madre e i suoi quattro fratelli più piccoli. Il fratello maggiore era morto il giorno prima, esploso in un bar con tutto quello che c’era dentro, compresi sette avventori e il barista. Avevano detto che si era fatto esplodere apposta, per fare un attentato, Abdel non ci credeva, e quando arrivò a casa quella sera non trovò più la casa e sua cugina gli disse che erano venuti i soldati e adesso sua madre e i suoi fratelli erano a casa della sua zia Rivka.

 

Jeoshua caricò il trapano sul motocarro e attraversò i quartieri periferici. Menahem stava un poco fuori, in un insediamento di quelli che il governo aveva detto che dovevano essere abbandonati e smantellati per farci passare il muro. Menahem veniva dalla Galilea, e si era stabilito lì perché un russo gliel’aveva ceduto a buon prezzo, per farci un piccolo capannone e coltivare dei fiori. Poi aveva smesso i fiori perché non arrivava abbastanza acqua, e faceva un po’ il carrozziere e un po’ il meccanico di macchine agricole.

 

Quando sentì il motocarro venne fuori: “Shalom, aspetta che ti do una mano”. Tirarono giù il trapano.

 

Una raffica di mitraglietta crepitò non lontano. Poi di nuovo.

 

“Vieni dentro, beviamo un tè freddo. Vuoi?”.

 

Jeoshua tirò fuori un pacchetto di sigarette quasi  vuoto: “Vuoi?”.

 

Accesero le sigarette, le due ultime del pacchetto, che finì stropicciato nel cassone della spazzatura. Bevvero il tè:

 

“Sei arrivato fin qui senza storie?”

 

“C’è tutto pieno di soldati, e c’è anche un bel po’ di gente, per via della Pasqua, ma non sono più le Pasque di una volta… Brutti tempi…  Mi hanno fermato due volte, ma niente di speciale”.

 

“Non si può più lavorare, ieri mi hanno fermato e mi hanno fatto andare in caserma; due ore e mezza  per vedere se riconoscevo un tale, mai visto né conosciuto, ma il cliente l’ho perso”.

 

La mitraglietta crepitò di nuovo, ma più lontano.

 

Menahem pagò il servizio e si salutarono. Il motocarro sparì nella polvere.

 

Jeoshua arrivò in bottega che Abdel non c’era. Trovò la chiave al solito posto, si lavò e uscì. Non sembrava più lui, trasfigurato, pettinato e profumato com’era per l’occasione. Svoltò più volte nei vicoli, facendosi largo tra i pellegrini che affollavano i negozi di souvenir – pochi pellegrini, ma i negozietti erano così minuscoli e pieni di roba invenduta che sembravano moltissimi – e le camionette della polizia. Mostrò i documenti e li ripose in tasca. Arrivò al circolo che era buio. Il circolo era un posto dove al piano terra c’era un bar (una volta si chiamava il bar dell’asino, poi cambiò padrone e nome, ed era diventato il bar degli amici) e al piano di sopra c’era un salone che serviva per le feste, le cerimonie, le conferenze, secondo le necessità. Sulla porta una pattuglia ferma, che controllava tutti quelli che entravano. Un’altra volta i documenti. Con la pattuglia c’erano anche due in borghese, senza placchette di riconoscimento, una donna sulla camionetta e l’altro, piccoletto e magro, vicino alla porta.

 

Jeoshua salì e nel salone c’erano già quasi tutti.

****

Era una compagnia teatrale, quasi tutta fatta di artigiani e pescatori originari della Galilea - alcuni avevano riscosso le loro quote dalle cooperative di cui facevano parte - che girava il paese con un cartellone molto intrigante. I testi erano scritti a più mani e gli spettacoli erano costruiti molto semplicemente - nessuno aveva titoli accademici, e neppure diplomi di scuole superiori - ma riscuotevano un enorme successo tra la gente. Era praticamente un canovaccio costante, fondamentalmente creato da Jeoshua, che era anche il regista - su cui ciascuno degli attori lavorava liberamente, arricchendo i testi ogni giorno a partire dall’attualità. Dovunque andassero, come appariva la locandina la gente si passava parola e lo spettacolo si svolgeva quasi sempre all’aperto, perché non esistevano sale abbastanza capienti. C’era, in più, il fatto che, tolte le spese vive, i proventi degli spettacoli andavano tutti in beneficenza, e questo aggiungeva credibilità alla compagnia. Le autorità avevano dapprima trascurato la cosa, poi l’avevano rubricata come fatto di costume da non perdere di vista, ma ora ne diffidavano apertamente. Ogni volta mandavano dei loro emissari per controllare e ogni volta ricevevano rapporti poco rassicuranti. Consideravano globalmente la cosa come un fastidioso tarlo che progressivamente corrodeva la coscienza del popolo. L’ordine costituito ne veniva sempre fuori con le ossa rotte.

*****

Il repertorio era molto vario, con brevi scenette dal titolo trasparente per alcuni, misterioso per altri: “Chi ha visto la mia pecora?”, “Una moglie per cinque mariti”, “Non tutto è come appare”, “La sirena e i vecchi onorevoli”, “Semi buoni e terreni cattivi”, “Il club degli Infallibili”...

“Il miracolo” era uno spettacolo che aveva deluso molti devoti delle grandi cerimonie religiose e entusiasmato molti atei convinti perché aveva sorpreso le aspettative degli uni e degli altri, e quando Esther esclamava: “Il miracolo è trovare il coraggio di denunciare chi ami”, il pubblico ammutoliva e quando concludeva: “Il miracolo è l’amore ricambiato” scrosciavano gli applausi, che diventavano polemici nei casi di mancato intervento delle autorità per delitti pubblicamente prevedibili.

 

Molto meno applaudito - e a volte contestato - lo spettacolo “Si fa presto a dire messia”... quando si trattava di denunciare la responsabilità di tutti nell’acquiescenza alle piaghe sociali, in attesa di chi sa quale miracolo sempre annunciato e regolarmene rimandato. La battuta di Jeoshua “Dio siamo noi” mandava in bestia gli ultraortodossi.   

 

Ormai, quando la locandina annunciava gli spettacoli, i negozi chiudevano prima, la gente mangiava per tempo e correva per sistemarsi ai primi posti, portandosi sedie e sgabelli.

 

Il culmine del successo era stato lo spettacolo “Andrà tutto bene?” che fu replicato dieci volte prima di essere vietato per motivi di sicurezza sanitaria, con la scusa che il numero di spettatori era ogni volta superiore alla capienza dei locali (notare che erano all’aperto). In realtà il tema era critico: ambientato in un’ipotetica casa di cura, “il Primario” (Shimon) si scontrava a parole con “Un paziente” (Jeoshua) che rifiutava la terapia a base di farmaci  obbligatoria per legge dimostrando che il ministero era corrotto dalle ditte produttrici e che aveva tutto l’interesse a far dilagare l’epidemia invece di fermarla.  

 

La domenica prima di Pasqua fu un tale trionfo, che Jeoshua fu sollevato a forza, sistemato sulla groppa dell’asinello che aveva recitato nella scena del Samaritano, e portato in trionfo per le strade del centro, tra alcune centinaia di spettatori, entusiasti dell’ultima novità del cartellone, “La cena che andò di traverso a Shimon”, dove l’attore protagonista era appunto Shimon-bar-Jona, il capocomico giocoliere e illusionista dalle mille risorse, per il quale le folle andavano in visibilio, che impersonava un famigerato Shimon, ricco bacchettone insopportabile ficcanaso e confidente della polizia segreta; una nota e un tempo apprezzatissima prostituta recitava da prostituta che chiamava per nome i vecchi clienti e faceva andare di traverso la cena ai bigotti, che ben la conoscevano ma avrebbero preferito non farlo sapere.

******

Molti degli aventi potere avevano deciso che lo scherzo era durato abbastanza, e la miglior cosa era farlo finire al più presto.

 

Questa storia della satira da cabaret aveva superato i confini della prefettura e del distretto: stavano muovendosi dalle province vicine importanti network che volevano riprendere il meccanico e la sua compagnia di guitti, ma anche i loro spettacoli di strada con le loro gag fulminanti. Niente di illegale, addirittura storie tradizionali, favole da bambini, racconti edificanti del repertorio popolare. La storia dei mercanti del tempio avevano dovuto replicarla tre volte perché le piazze non bastavano mai e la polizia aveva negato l’agibilità per motivi di sicurezza. Tutti avevano notato il questore defilato sotto i portici che si divertiva come un matto e questo aveva incoraggiato la compagnia. Non sapevano che stava andando in pensione, e il vicequestore non rideva per niente. La questione dei permessi per le bancarelle dei souvenir e dei vu’comprà era diventata una questione di politica internazionale, con le implicazioni di funzionari corrotti, politici doppiogiochisti, banchieri e ministri di stato imparentati con ministri del culto. Il capocomico era stato convocato per una formalità, - non avevano compilato un questionario sul vilipendio della religione dello Stato, normale amministrazione - ma Shimon fu trattenuto per l’intera mattinata con la scusa che il funzionario era stato chiamato fuori per servizio. Quando fu all’aria aperta si sentì meglio. A sera ne aveva parlato con gli altri.

 

Jeoudah disse che quel funzionario lui lo conosceva, un bravo tipo, ce ne fossero tanti.           

*******

“Brutta aria, questa sera - disse Shimon  - c’è pieno di sbirri.”

 

Natanael aggiunse: “Sembra che abbiano portato dentro uno della guerriglia, quello dell’attentato della settimana scorsa. Un certo Bar Abbas”.

“Un certo Bar Abbas? Tu, Natanael, da dove vieni? Bar Abbas è un pezzo grosso, qui nei vicoli lo conoscono tutti, e se lo hanno portato dentro, sta’ sicuro che non ce lo lasciano a lungo. O lo fanno fuori, o lo mettono fuori”.

 

“Bar Abbas non lo toccano, vedrai. Fanno un po’ di fumo, per distrarre l’opinione pubblica, poi lo fanno sparire, fino alla prossima occasione. Non hanno il coraggio di liquidarlo, salterebbe tutto per aria. Devono negoziare, e per il momento nessuno ha le carte vincenti. Come al solito, cercheranno un capro espiatorio, qualcuno che gli dà noia ma che non serve né a loro né agli altri, perché dà noia a tutt’e due… “.

 

Jeoshua era appena entrato e aveva captato l’ultima frase. Filippo, il greco, che dava le spalle alla porta, avrebbe preferito non averla detta.

 

“Siamo tutti sulla lista, Filippo!” lo rassicurò Jeoshua con una manata sulla spalla. “Tanto vale non prendersela. Qualunque momento è buono, se vogliono tirare la rete”.

 

“Non scherzare, Jeoshua, - disse  intristito Shimon – Quei due che erano qui sotto io li ho già visti. Due ultraortodossi che fanno la spia per i servizi segreti. Con quello che sta capitando in città, non mi piacciono per niente”.

 

“Potrebbero essere venuti a proteggerci. Mi risulta che sanno distinguere molto bene il terrorismo violento dal semplice dissenso. Hanno bisogno di negoziatori credibili, e tu sei uno che può veramente dare una mano per cambiare le cose”.

 

In questi termini Jehudah si era rivolto a Jeoshua con vero entusiasmo, e gli altri lo avevano ascoltato con stupore. Jehudah proseguì accalorandosi: “È tempo che tu esca finalmente allo scoperto, e le cose sono arrivate al punto giusto”.

 

“Per fare che cosa?” lo interrogò Shimon, come se avesse paura di sentigli dire altro.

 

“Per dare un senso a tutto il lavoro che stiamo facendo da tre anni a questa parte! Sanno benissimo che la gente ti seguirebbe proprio perché sei politicamente pulito, e avresti un successo straordinario. Non credere che non siano al corrente, e farebbero carte false per offrirti una candidatura o un posto in televisione. Hanno capito benissimo, finalmente, che non siamo una filodrammatica di beneficenza e neppure una banda di guitti da dopolavoro, ma una realtà importante nel panorama culturale di questo paese e siamo in grado di farci ascoltare dagli uni e dagli altri. Tu solo, oggi come oggi, puoi salvare questa situazione che sta sfuggendo dalle mani a tutti i politici professionisti, tutti arroccati sui loro slogan che non interessano più a nessuno…”.

 

“Come sai queste cose? E perché ne parli soltanto adesso?” disse Jakov, preoccupato e sospettoso.

 

“Ho i miei informatori. Con uno spazio istituzionale preciso, il nostro movimento acquisterebbe un ruolo di primo piano, e inoltre acquisiremmo le risorse necessarie per realizzare un progetto culturale a partire dalle necessità degli ultimi, come si è sempre detto, e per mettere in piedi un sistema che parta finalmente dalla ricostruzione delle coscienze! Se non ora, quando? A me tocca tenere i conti, e vedo che i soldi non bastano mai, la miseria è sempre più nera, profughi, orfani, ospedali che non funzionano, quello che noi possiamo fare è una goccia nel mare… Vi rendete conto di quanto potremmo fare con i fondi statali? Jeoshua, non dici niente?”

 

Jeoshua si era seduto a tavola, come avevano cominciato a fare anche gli altri. Si erano riuniti non solo per festeggiare la Pasqua, anche se in modo alquanto irrituale; dovevano anche provare una recente sceneggiatura sul tema dell’autorità. Jeoshua ascoltava per l’ennesima volta quei discorsi, anche se quella sera Jehudah sembrava molto più convinto e determinato.

 

Degli altri, qualcuno era infastidito dal tono perentorio di quelle parole, altri pensavano che in fondo Jehudah aveva ragione e già si preoccupava dell’organigramma di un futuro partito. “Quando lo facciamo? - chiese ingenuamente Johanan. – Io ci sto, noi ci stiamo, vero Jakov? Siamo stati i primi a seguirti, con Shimon e Andrea, ed è giusto che ci prendiamo le nostre responsabilità al massimo livello…”.

 

“Direi che non bisogna mettere il carro davanti ai buoi, ragazzi. Non è roba da ridere”, interloquì l’altro Jakov.

 

La solita storia che bisogna prendere il potere per poterlo cambiare.

 

Jeoshua taceva. Stava rendendosi conto che in quei tre anni non era riuscito a farsi capire, e che forse non avrebbero mai capito. Era irreale quell’atmosfera, con questa compagnia di attori e attrici che si spalmavano il cerone e si applicavano barbe finte, calcando il trucco e tracciando rughe spropositate.   

“Adesso pensiamo alle cose serie” disse Jeoshua, indossando un vistoso camice, che aveva portato con sé.

Il suo personaggio era ormai caratterizzato da un travestimento inconfondibile, che variava soltanto per qualche particolare a seconda della esigenze del singolo copione, e la sua entrata in scena mozzava il fiato al pubblico. Aveva il carisma dell’attore di mestiere, e la naturalezza dell’uomo della strada. “Il signore della parola” l’aveva definito un tabloid locale; “La parola incarnata” aveva detto un intellettuale che insegnava il greco all’università.

 

“Ricapitoliamo: una voce fuori campo legge le notizie del giorno, il testo lo ha preparato Andrea. Dunque, l’ultima battuta dice: «Il primo ministro ha chiesto i pieni poteri». Natanael batte il pugno sul tavolo e grida: «Sì! Un uomo forte, uno che sappia comandare!». A questo punto io mi metto il camice, dicendo: «Il più importante è il servo di tutti. Non si tratta di saper comandare, ma di saper servire… I potenti della politica comandano, hanno sempre comandato, e il mondo è andato sempre peggio. Proviamo a cambiare sistema. Nessuno comanda, e il più importante è il lustrascarpe». Io tiro fuori la scatola con le spazzole e il lucido, e voi vi sedete in cerchio.  Poi comincio a lustrare le scarpe a tutti…”.

 

Provarono una volta o due. Jeoshua fece l’imitazione del primo ministro, che sembrava di vederlo spiccicato.

 

La scena si costruiva man mano, la parte di Jehudah era drammatica, doveva dire che non sono i potenti a mandare avanti il mondo, ma i miserabili, i senza casa, gli immigrati senza documenti, i lavoratori in nero, le badanti senza contratto… Tutti quelli che fanno girare l’economia sommersa, che è il motore dell’arricchimento dei ricchi. Senza di loro il mondo si fermerebbe subito… Questa è la legge dell’Impero…

 

Arrivò la cena in tavola, ma nessuno osava incominciare. Era usanza leggere le formule dell’antico rituale di Pasqua, con la storia della liberazione dalla schiavitù, e l’elenco dei grandi doni fatti da Dio al suo popolo. Lontano un’esplosione e qualche raffica, poi le sirene della polizia e poi quella di un’ambulanza lacerarono il silenzio. Dalla strada salivano voci.

 

“Il potere, i soldi, i poveri…? Liberarsi dal Faraone per costruire un impero come il suo, che senso ha? La rivoluzione non sta nel prendere il potere, ma nel gestirlo in tutt’altro modo”.

 

In una pausa di silenzio, le voci degli avventori nel negozio di sotto arrivavano più distinte. 

 

“Chi è più importante, il padrone o lo schiavo che gli lustra le scarpe? Voi mi considerate il vostro leader, vero? Ebbene, allora io voglio lustrare le scarpe a tutti, e se diventerete importanti anche voi come me, farete lo stesso. Quando mai vi ho dato l’impressione di voler comandare, a voi o ad altri, come un padrone? Se gli schiavi vogliono fare la rivoluzione per diventare padroni, il mondo non cambierà mai. Il mondo cambierà quando non ci saranno padroni. Solo allora non ci saranno schiavi. La rivoluzione non è che i poveri diventino ricchi, ma che i ricchi diventino poveri… Solo allora non ci saranno poveri, perché nessuno è povero se lo sono tutti: e i poveri saranno sempre con voi, purché voi siate sempre con loro…”.

Il discorso di Jeoshua era caduto come una doccia fredda su quelle teste sudate e ben pettinate. Il caldo macchiava di sudore le camicie pulite. Qualcuno avrebbe preferito trovarsi altrove. Qualcun altro pensò che si stava facendo un po’ troppa ideologia. Consumarono la cena senza allegria, fecero le letture tradizionali, Jeoshua chiamò Jehudah e gli disse qualcosa che ai più vicini parve un invito a fare alla svelta, ma non avevano capito che cosa. Jehudah uscì senza salutare.

 

Una triste Pasqua.

 

Nelle strade la gente era quasi sparita, e nel silenzio il miagolio intermittente delle sirene lontane sembrava più vicino.

 

Quel gruppo di uomini sudati lasciò il circolo ma nessuna pattuglia li aspettava. Qualcuno si sentì meglio.  

***********

Non solo non aveva uno straccio di diploma in materia teatrale, né aveva frequentato corsi regolari presso alcuna scuola di teologia o di altro, ma da autodidatta si permetteva di fare le pulci ai predicatori autorizzati. Il tono arrogante con cui sembrava divertirsi a mettere alla berlina i maestri di dottrina più accreditati lo rendeva simpatico al popolo minuto, che lo considerava un dio, mentre i benpensanti erano convinti che il popolo è solito idolatrare ogni demagogo cabarettista da strapazzo. Aveva radunato attorno a sé una banda di cafoni perdigiorno, alcuni dei quali avevano abbandonato in Galilea un mestiere serio, moglie e figli, per diventare agitatori da fiera, e il peggio era che sapevano intrufolarsi in famiglie per bene mungendo soldi per sedicenti scopi benefici. Molte pie benefattrici della buona società avevano smesso di sostenere le opere di carità istituzionali - spesso coinvolte in scandali finanziari -  per dirottare la loro generosità verso quel branco di bifolchi, per non parlare di alcune “escort” d’alto rango e qualche strozzino pentito che avevano messo in quell’ammucchiata i risultati di anni di attività professionale. Tra gli adepti di quell’uomo c’era di tutto un po’, compresi certi soggetti un tempo notoriamente simpatizzanti per l’estremismo terroristico, da cui non si capiva bene se avevano davvero preso le distanze in modo definitivo. Che Jeoshua fosse un buon artigiano nessuno lo negava, e avrebbe potuto benissimo mantenersi da solo, lui e sua madre – una donna che era stata piuttosto chiacchierata in gioventù - senza bisogno di elemosine né di un secondo lavoro; anzi, se avesse perso meno tempo dietro a quelle deliranti baggianate sovversive, avrebbe potuto fare soldi in buona quantità, e avrebbe anche vinto fior di appalti pubblici se non avesse così ostentatamente sputato nel piatto in cui mangiava; e se i soldi proprio gli facevano schifo, nessuno gli avrebbe impedito di fare molte elemosine. Irritante e insopportabile come tutti i grilli-parlanti pacifisti, che pretendono di far vivere i popoli in un mondo impossibile, godeva anche buona fama come pranoterapista, e si sa che la gente in fatto di salute non bada a spese. Aveva anche - si diceva - doti di ipnotizzatore, il che faceva di lui un personaggio ancor più inquietante. Non aveva una donna sua, pur non essendo un monaco eremita (pare che nell’eremo ci fosse stato davvero per un paio d’anni, come discepolo del famoso santone Johanaan-ben-Zacharias, poi arrestato per vilipendio e morto in carcere in circostanze poco chiare). Questo finiva per rendere credibili certe voci su ambigui rapporti sentimentali all’interno del suo gruppo. A parte che tra la gente di teatro le cose non vanno come nel resto del mondo, o almeno così si crede.

************

 

I religiosi superortodossi rimproveravano a Jeoshua – il nome completo era Jeoshua-ben-Josef, ma lui si firmava Jeoshua-ben-David, un po’ per scherzo e un po’ per megalomania sublimata - la sua mancanza di patriottismo: per lui andavano tutti bene, samaritani, pagani, pubblicani, prostitute, portatori di malattie ereditarie infamanti, adultere e pubblici peccatori. La loro irritazione era al colmo soprattutto perché il suo linguaggio - peraltro molto trasparente e chiaramente percepito da tutti - si mimetizzava nell’azione scenica. Il suo teatro rappresentava la vita di ogni giorno, gli spettatori vi si riconoscevano e riconoscevano i maggiorenti, i bacchettoni e gli alti ufficiali, e li accoglievano con bordate di fischi quando le loro controfigure comparivano caricaturate sulla scena, ma – quel che è peggio - anche quando, in carne ed ossa, attraversavano le piazze e il mercato.

 

“Bisogna che il teatro rappresenti la vita, - diceva spesso Jeoshua - se non si vuole che la vita si riduca a un continuo spettacolo teatrale. Noi dobbiamo mascherarci per poter smascherare voi”. E ancora: “Se volete che noi smettiamo di fare teatro nelle piazze, incominciate voi a farla finita con le sceneggiate e le commedie nei vostri sacri palazzi!”. E non sapevano che cosa rispondergli.

 

Il disprezzo per le corrette tradizioni arrivava al colmo quando, dopo gli spettacoli, l’intera troupe si metteva a tavola in osteria con ogni sorta di gente, e avallava con il proprio silenzio ogni genere di discorsi irriverenti verso le autorità costituite. E mangiavano e bevevano senza complimenti, e si lasciavano strofinare da ogni genere di donne. Il capo carovana, poi, andava al tempio, ma con quel suo tono apparentemente ingenuo e disarmato, in realtà saccente e provocatorio, seminava il discredito per la sacralità di quel luogo e delle cerimonie che vi si celebrano. Era il suo tasto privilegiato, quello di individuare nella religione di Stato il nodo di tutte le ipocrisie e il principio corruttore delle coscienze: ma non era un ateo dichiarato, anzi, dava prova di una raffinata spiritualità e la gente riconosceva in lui senza esitazione lo spirito degli antichi profeti. “Sono tre le trappole in cui la gente onesta si fa catturare: la religione, la politica, il lavoro. O meglio, la trappola è una sola, e queste sono le tre molle che la fanno scattare. La trappola è maledettamente ben studiata, perché l’esca è perfetta: tutti desiderano una religione, tutti sentono il bisogno di organizzarsi con gli altri per vivere insieme, tutti si sentono crescere tra le mani il desiderio di realizzare qualche cosa che sia apprezzato e di scambiarlo con qualcun altro… È su questi tre sacrosanti bisogni che piombano i dogmi, le leggi, il denaro; e la gente viene catturata dalle chiese e dal ritualismo, dagli stati e dai sistemi di potere, dalle banche e dall’interesse composto…  La trappola si chiama ‘la nostra civiltà superiore’ oppure ‘la patria’ e quando la gente ci sta dentro impazzisce ed è pronta ad ammazzare e a farsi ammazzare senza alcuna ragione al mondo…”.

 

Gianfranco Monaca

(1.continua)

.