Koinonia Luglio 2022
DUE TESTIMONI
Sergio Quinzio e David M.Turoldo: è il loro volto che mi si è presentato davanti al momento in cui ero alla ricerca di una testimonianza di fede che avvalorasse quanto fondamentalmente ci stiamo dicendo in questo numero, come urgenza primaria di ritrovare autenticità del credere nella sua assoluta originalità e irriducibilità.
Ci viene incontro Anna Giannatiempo Quinzio con la raccolta di scritti inediti di Sergio Quinzio curata insieme a F.Permunian (L’esilio e la gloria: scritti inediti, 1969-1996) in cui troviamo alcune parole della sua lettera a P.Turoldo e una sua memoria del febbraio 1992 all’indomani della morte di lui.
Il pensiero va alle parole del libro dell’Apocalisse: ”Ma farò in modo che i miei due Testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni” (Ap. 11,3).
Ci siamo visti e parlati poco, e vorrei che non fosse stato così. Eppure, gli incontri più veri - forse si deve tristemente dire: ormai - non sono sempre quelli che si fanno guardandosi negli occhi. Alcune cose mi hanno colpito profondamente nelle tue parole. Anzitutto la marea montante delle domande, che si affollano e si contraddicono: il bisogno di parlare, di esprimere, di dire, ma adesso, insieme, il senso della stanchezza e della vanità di tutta questa fatica, sostenuta un tempo dall’entusiasmo. Il bisogno di esserne liberati. “è dovuto accadere / perché il raccoglimento mi salvasse”. In questo momento, sebbene le pene non manchino, non sto salendo con te il calvario. Non oserei affermare che “pure il male dunque è un bene”, né pensare l’incontro con Dio “fino ad essere insieme perduti”. Ma anch’io costeggio intorno a quei difficili scogli. E insieme mendico una povera restituzione del semplice «bene» che abbiamo umanamente vissuto come tale. Ti ricordo giovane, quando nella chiesa di san Marcellino rievocavi i pascoli del tuo Friuli. Il Signore te li restituisca, asciughi le lacrime dei nostri occhi, ci dia una tenera, umile consolazione. Ti rialzi il Signore dalle soglie ghiacciate dove ti coricavi per amore di Nomadelfia, ci rialzi finalmente.
Sergio Quinzio
Lettera a David Maria Turoldo,
Roma, 30 novembre 1991
Ho incontrato di persona David Maria Turoldo poche volte. L’ultima a Bellinzona, a marzo dell’anno scorso, in occasione di un convegno sul dolore e sulla prospettiva di un suo radicale alleviamento mediante tecniche mediche e psicologiche. Padre Turoldo, che tutti sapevamo malato, aveva sconcertato il pubblico svizzero sostenendo con molta decisione che una società che giungesse ad eliminare la sofferenza sarebbe una società totalmente disumana. Volle farsi fotografare anche con me, come per serbare un ricordo.
Un ricordo che risale fino a tempi lontani, ai tempi di don Zeno e di Nomadelfia, ai tempi in cui collaboravamo entrambi a una dimenticata rivista fiorentina e papiniana - «L’Ultima» -, ai tempi in cui il giovane monaco friulano, alto e biondo, attraeva le folle predicando nella Chiesa romana di San Marcellino.
Ho letto i suoi Canti ultimi, che mi aveva mandato. Li ho letti con partecipazione profonda, per lo sforzo sempre più palese in lui, di accettare, di accettare non solo la malattia e la morte, ma anche il dubbio, e la vanità di tutto quello che l’uomo compie al di qua della morte, al di qua dell’abisso del «Nulla», come lui diceva. Gli avevo scritto due parole fraterne, alle quali non si poteva rispondere se non morendo, precedendomi sulla via.
Sergio Quinzio
Appunti
Roma, 6 febbraio 1992