Koinonia Luglio 2022
UNA FEDE PER VIVERE: LA FEDE CRISTIANA
Nell’ottica cristiana la fede, non solo non può prescindere ma è costituita da una relazione peculiare con Gesù Cristo. Per il cristiano non basta credere in Dio: così fanno anche l’ebreo e il mussulmano, oltre a ogni deista nel solco del razionalismo illuministico. Per il cristiano, come dice Pascal, è specifico e determinante credere nel Dio di Gesù Cristo, non nel dio dei filosofi!
Negli scritti neotestamentari è Paolo a svolgere il discorso più ampio in materia di fede cristiana, soprattutto nel suo risvolto di contrapposizione tra la nuda fede in Cristo e un’etica presuntuosa basata sulle opere morali. Ed è interessante e significativo constatare che egli prende le mosse appunto dal caso di Abramo e in specie dal testo citato di Gen 15,6 (unico testo veterotestamentario, insieme a un paio d’altri, che egli cita due volte, e comunque l’unico su cui imbastisce una riflessione di ampio respiro).
In effetti esso sta all’origine di un’ampia argomentazione giocata su tastiere leggermente differenti in due lettere diverse: in Gal 3 (di stampo più cristologico) e in Rm 4 (di stampo più antropologico). In entrambi i casi comunque la figura di Abramo serve come prototipo del credente, e il ragionamento che l’Apostolo vi costruisce sopra tende e sfocia nell’affermazione della totale gratuità della fede in Cristo.
Paolo infatti contrappone la fede alle opere della legge (mosaica) cioè alla mera pratica dei comandamenti. Si ricordi il celebre assioma di Rm 3,28 che letteralmente suona così: «Riteniamo che venga giustificato per fede un uomo, senza opere di legge» (dove, a differenza delle traduzioni correnti, la mancanza di ogni articolo evidenzia l’assolutezza della formulazione e la forza delle idee espresse).
La sua sottolineatura della gratuità della fede si comprende anche sullo sfondo della interpretazione rabbinica del passo genesìaco, secondo cui la fede di Abramo è considerata come un merito a cui corrisponde una ricompensa divina. Al contrario, Paolo libera totalmente l’atto di fede da ogni dimensione di una qualche prestazione morale, e anzi la contrappone alle opere etiche. Soprattutto la fede di cui egli parla è tipicamente cristologica, come denota l’intero contesto di Rm 3,21-4,25, in cui l’affermazione è inserita.
In particolare si veda il commento che egli fa al testo di Gen 15,6 nel passo epistolare di Rm 4,4-5: «A chi lavora, il salario non viene calcolato come dono, ma come debito; a chi invece non lavora, ma crede in Colui che giustifica l’empio, la sua fede gli viene accreditata come giustizia». La prima metà di questa frase potrebbe essere controfirmata da qualunque sindacalista.
Ma la seconda metà è letteralmente sconvolgente perché scompagina ogni logica commerciale basata sul dare e sull’avere. Cioè: il Dio della fede cristiana in prima battuta non è un datore di lavoro che ricompensi poi il lavoro svolto; ma, e soprattutto, non è neppure un giudice che emetta una sentenza di colpevolezza contro chi ha infranto la legge. Al contrario! E questo è vangelo allo stato puro (!): egli in Cristo assolve il reo, il trasgressore, l’empio, il peccatore, il colpevole (che siamo tutti noi).
Si vede qui all’evidenza che il Dio dell’evangelo sta al di là di ogni logica, al punto che logico semmai diventa lo scandalo (cf. 1Cor 1,23: «scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani»). Evidentemente non è il moralismo che conta per Paolo e neppure il devozionismo (che sta anch’esso sul piano delle opere, intese come prestazioni a cui Dio dovrebbe essere obbligato con una qualche ricompensa).
Siamo lontani dal principio enunciato già dal presocratico Eraclito, secondo cui «il démone per l’uomo è il suo ethos» (fr. 91/119): per quanto si intenda questo ethos come indole o carattere, il filosofo sostiene che l’esperienza del trascendente nell’uomo coincide semplicemente con il suo modo d’essere e di agire.
In Paolo invece si tratta del trionfo della libertà assoluta di Dio stesso, dove libertà vuol dire grazia, compassione, comprensione, misericordia, e generosità, disinteresse, magnanimità. Infatti, «in questo si dimostra l’agàpe di Dio, che cioè Cristo è morto per noi mentre ancora eravamo peccatori» (Rm 5,8) e in lui, nel suo sangue, ha emesso una sentenza di assoluzione per i nostri peccati.
L’esempio primo, anzi primario, che può illustrare questo dato è quello del buon ladrone che sulla croce, senza neppure l’ombra di alcun suo merito, ottenne da Gesù la promessa del paradiso (cf. Lc 23,42-43), e questo solo perché ha avuto fiducia in lui, in Gesù stesso. Paradossalmente Søren Kierkegaard scriverà nel suo celebre Diario che quel ladrone è «l’unico cristiano contemporaneo di Cristo»!
In poche parole: ciò che conta non è quello che faccio io, ma è quello che Gesù ha fatto per me (cf. Gal 2,20: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me; dunque non rendo vana la grazia di Dio, poiché se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano»)! Non per nulla questo del ladrone è proprio l’esempio che un Padre della Chiesa, l’intellettuale alessandrino Origene agli inizi del III secolo, adduce nel suo commento alla lettera ai Romani (che fu il primo di una lunga serie di commenti nei secoli successivi).
Da parte sua, invece, Tommaso d’Aquino adduce l’esempio di un battezzato (adulto) che è subito morto e precisa: «La sua fede, cioè essa sola (fides eius, scilicet sola) senza opere esteriori… gli viene computata gratis, come se avesse fatto tutto (reputatur ei gratis, ac si totum fecisset); e l’Apostolo dice che questo computo non avrebbe luogo, se la giustizia fosse dalle opere, ma ha luogo soltanto (solum) per il fatto che è dalla fede». Verrebbe da dire: più chiaro di così! Nemmeno Lutero nel suo commento alla lettera ai Romani si esprimerà in termini così chiari!
Certo si tratta di casi estremi, che però in quanto tali esprimono all’evidenza la sufficienza della fede in quanto non è condizionata (o contaminata?) dall’agire morale dell’uomo. È proprio in questo senso che l’euaggélion è davvero tale, cioè un buon annuncio, una notizia buona, favorevole, che fa piacere ascoltare e accettare, semplicemente perché è vantaggiosa per me, è per il mio bene.
Non per nulla Paolo definisce Dio come il «Dio per noi» (Rm 8,31), quindi non solo «con noi» (v. sopra). La formulazione paolina si differenzia da quest’altra, perché la diversa preposizione («per» invece di «con») evoca non soltanto l’idea della assicurazione di una presenza/assistenza/sostegno magari occasionali, ma, oltre a questa, richiama soprattutto l’idea di una effettiva dedizione voluta e intenzionale, al di là di ogni aspettativa.
Il Dio dell’evangelo non cammina soltanto accanto all’uomo, ma è definito in base a una sua totale dedizione all’uomo stesso, alla sua promozione; sicché, il risvolto negativo umano, a cui egli si indirizza, non è soltanto quello di una solitudine improduttiva, come se senza Dio l’uomo fosse incapace a ottenere gli scopi che autonomamente si prefigge; invece, si tratta di una radicale impreparazione a raggiungere i risultati che Dio stesso, di suo, gli riserva.
Cristiano, secondo l’Apostolo, non è chi diventa giusto ‘insieme’ all’aiuto di Dio, ma chi diventa tale ‘solo’ per grazia di un intervento insperato di lui; il quale, dunque, non solo scaccia la paura, ma dona qualcosa cha va al di là di ogni calcolo. Ebbene la fede non è altro che la risposta di ricezione e accoglienza di questa dichiarazione in quanto destinata a me, alla mia vita, a quello che concretamente sono pur con tutti i miei peccati.
Essa perciò non è solo la risposta intellettiva a una notifica o a un’informazione, ma è l’accettazione gioiosa e riconoscente, che coinvolge tutta la persona, dell’assicurazione di un imprevisto impegno di Dio stesso «per me» e di un impegno totalmente gratuito.
In prima battuta, infatti, l’annuncio evangelico (o kérygma) non usa nessun imperativo, cioè non chiede e non impone nulla, esattamente nulla. La più antica formulazione dell’annuncio evangelico infatti, che è addirittura pre-paolina in quanto ripresa e ritrasmessa da Paolo, dice proprio così: «Vi proclamo il vangelo… dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato; a meno che non abbiate creduto invano. Vi ho trasmesso infatti, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, e che è stato risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,1-5). Come si vede, qui non c’è nessunissima richiesta morale. Anzi, non c’è neppure alcuna dichiarazione sull’identità personale di Cristo come Figlio di Dio o altro. C’è solo la proposizione di alcuni eventi, di cui Cristo è il soggetto, proclamati in quanto soteriologicamente densi.
È come dire che l’iniziativa di Dio in Cristo brilla da sola, senza essere oscurata da condizionamenti umani di sorta, i quali in concreto non sarebbero altro che vanitose presunzioni di meriti o virtù come orgogliose richieste di ricompensa. Il fatto è che Dio già è dalla nostra parte, è «per noi» (Rm 8,31), prima ancora e a prescindere dal fatto che noi vogliamo pretendere qualcosa da Lui.
Risulta perciò che la fede cristiana è comunque teo-centrica in quanto orientata a Dio ma per la mediazione di Gesù Cristo, che il cristiano associa a Lui (con una operazione considerata blasfema da ebrei e da mussulmani, che lasciano la Divinità da sola, disincarnata). Ma proprio questa componente cristologica è ciò che di più distintivo ha il cristianesimo da proporre sul ‘mercato’ delle religioni.
La fede cristiana sa e professa che ormai Dio non è spiegabile senza l’uomo, anzi un Uomo particolare. Mi ha sempre colpito ciò che tra l’altro scriveva poco dopo la metà del II secolo l’apologeta cristiano Teofilo di Antiochia nel suo Ad Autolico (un amico pagano che derideva il cristianesimo): «Se tu mi dicessi “Mostrami il tuo Dio”, io ti direi “Mostrami il tuo uomo e io ti mostrerò il mio Dio» (I,2).
Qui, secondo il contesto, il riferimento all’uomo è di tipo morale, per dire che un uomo peccatore non può adeguatamente vedere Dio in quanto ha gli occhi offuscati dalla malvagità; ma se ne potrebbe fare anche una lettura filosofica, nel senso che per il cristiano non si può parlare di Dio a prescindere dall’uomo, poiché nella definizione di Dio («alla sua destra»!) c’è ormai un Uomo, e questo uomo, si noti bene, si chiama Gesù di Nazaret crocifisso/risuscitato (confessato come Cristo e Signore), non Padre Pio e neppure la madre di Gesù!
Tutto ciò ci conduce a una conclusione aperta. Per sapere chi è questo Gesù intronizzato accanto a Dio e degno della nostra fede, bisogna andare alla sua dimensione storica (visto che il Risorto non è più un soggetto storico). Bisogna indagare concretamente chi è il Gesù storico, quale egli traspare non solo dalle sue parole ma anche dai suoi comportamenti, dalle sue relazioni (soprattutto quelle preferenziali con gli emarginati sociali e religiosi), dalle reazioni scandalose che ha suscitato e che lo hanno condotto a una sentenza di morte.
Infatti, colui che i cristiani venerano come loro Signore è proprio quel Gesù là, quello che è vissuto in carne ed ossa nella terra d’Israele in quegli anni precisi, come uomo del suo tempo eppure anche come uno infinitamente superiore al tempo, essendo Alfa e Omega: infatti, secondo l’Apocalisse, i santi sono esattamente quelli che «custodiscono la fede in Gesù» (14,12).
Romano Penna
http://www.gesusacerdote.org/una-fede-per-vivere-la-fede-cristiana-di-romano-penna/