Koinonia Luglio 2022


VINCENZO SAVIO, UN TESTIMONE DEL NOSTRO TEMPO

 

Aprile 2004. Arrivammo a Belluno in pullman. Eravamo un gruppo di amici fiorentini di Vincenzo Savio. Non gli eravamo stati vicini negli ultimi anni, da quando era stato nominato vescovo della città veneta.  Ma ora che non c’era più (malato di cancro, a soli sessant’anni, era morto dopo una lunga agonia il mattino del 31 marzo) non potevamo mancare di tributargli l’ultimo saluto.

Trovammo una città deserta. Negozi chiusi, pure le edicole (e mi spiacque, dato che non sapevo stare senza un quotidiano); niente autobus in circolazione, ma neppure automobili. A un solitario passante chiesi il motivo di tanto silenzio.

“Non lo sa? È morto il vescovo. Tra poco ci sono i funerali”.

“Certo - pensai - è giusto che sia così, per rispetto a quell’anima grande”.

“Anima grande”: così ho considerato Vincenzo da quando ho cominciato ad apprezzare le sue doti; e non penso tanto alla sua intelligenza, acuta e curiosa, unita a una profonda razionalità, e al suo carattere, mite ma fermo, e alla sua determinazione nel porsi sempre dalla parte dei deboli, degli oppressi, dei diseredati. Penso soprattutto alle sue doti intime, all’empatia che sapeva suscitare attorno a sé. Parlare con lui, o anche semplicemente stargli accanto in silenzio mi dava un senso di pace che non avevo mai avvertito prima con altre persone allo stesso modo.

Per tanti anni aveva diretto l’Istituto salesiano di Alassio. Poi era stato chiamato a promuovere il sinodo di Livorno e successivamente quello di Firenze. Fu in quell’occasione che lo conobbi. Da collaboratore esterno dell’Unità ebbi modo di incontrarlo più volte, nelle riunioni periodiche che teneva con i giornalisti. Sempre cordiale e instancabile. In più di un’occasione ebbi modo di intervistarlo. Scrissi allora svariati articoli sul sinodo fiorentino. Seppi in seguito che erano stati molto apprezzati dal cardinale Piovanelli. Anche al giornale ebbi i miei momenti di gloria. Per quanto burbero e talvolta respingente  il direttore di allora si lasciò sfuggire, in mia presenza: “Qui dentro l’unico che ci capisce di questo benedetto sinodo è il D’Avanzo”.

Una volta, non rammento bene l’anno, e neppure il mese (so solo per certo che era estate), mia moglie e io andammo a trovarlo ad Alassio. Volle che ci fermassimo all’Istituto per alcuni giorni. “Di posto ce n’è quanto ne volete. Ora tutti gli studenti sono in vacanza con le famiglie”. Ci indicò la spiaggia dove andare a fare il bagno. “Ma io non vengo, voi mi capite…” aggiunse, quasi a scusarsi.

Lo vidi più volte nel corso degli anni ‘80 e una volta mi capitò di incontrarlo a Livorno. Vincenzo, allora, era vescovo ausiliare. Lo cercai nel palazzo della curia. Non lo trovai, ma mi dissero che sarebbe stato presto di ritorno. Me lo vidi arrivare, poco dopo, in motorino. Un signore che si era recato in curia non so per cosa, scuoteva il capo in segno di disapprovazione. Appena Vincenzo si allontanò per un istante, quel signore mi si avvicinò per dirmi a voce bassa, per non farsi sentire: “Ma le sembra che sia questo il modo di fare per un vescovo?”. Altri tempi. Oggi in molti non desta meraviglia sapere che papa Francesco, quando era vescovo a Buenos Aires, viaggiava solo con mezzi pubblici.

Tra le mie carte ho trovato un’intervista (L’Unità, 4/8/1993) che gli feci pochi mesi dopo che aveva assunto la carica di vescovo ausiliare della diocesi di Livorno.

 

Bruno D’Avanzo

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