Koinonia Giugno 2022


FEDE ORIZZONTALE E FEDE VERTICALE

        

In un brano del Fedro platonico si riferisce uno scambio di battute tra il giovane Fedro e Socrate. L’ambiente è quello, ombroso e suggestivo, dove scorreva il fiume Ilisso, a sud di Atene. Si narrava che, in quel luogo, Borea, il vento del nord, avesse rapito Orizia, figlia di un antico re della città. In ricordo di questo evento era stato edificato, poco lontano, un altare. Fedro pone a bruciapelo una domanda al vecchio Maestro: “Dimmi, Socrate, credi ancora che questo mito sia vero?”. Il quesito avrebbe potuto mettere in difficoltà il filosofo, perché contestare le credenze popolari costituiva un segno di insubordinazione nei confronti della polis.    

Socrate, che ha ben compreso il trabocchetto che si nasconde dietro quel quesito, se la cava brillantemente: “Se io non ci credessi, così come non ci credono i sapienti, non sarei lo strano uomo che sono” risponde, facendo capire di non voler appartenere alla congrega di quei “sapienti” che passano il tempo a dare, dei miti, spiegazioni allegoriche di stampo razionalista. “Considero - aggiunge - queste interpretazioni ingegnose, però proprie di un uomo molto esperto, ma non troppo fortunato: se non altro, per il motivo che, dopo questo, diventa per lui necessario raddrizzare la forma degli Ippocentauri, poi quella della Chimera… di tali Gorgoni e Pegasi e di altri esseri straordinari…”. “Ma per queste cose - conclude - non ho tempo libero a mia disposizione. E la ragione di questo, mio caro, è la seguente: Io non sono ancora in grado di conoscere me stesso.”

Questo brano prezioso mette in luce un tema non troppo approfondito: quello dell’atteggiamento degli antichi greci nei confronti dei miti.

A chi ha dedicato un po’ di attenzione alla mitologia greca, infatti, sarà sicuramente sorta la stessa curiosità di Fedro: è mai possibile che un popolo così scaltro e così esperto di questioni filosofiche, possa aver creduto nella veridicità di episodi inverosimili come quelli che venivano attribuiti agli dèi dell’Olimpo? Non solo: come si giustifica il comportamento di divinità che si macchiano di ogni sorta di malvagità, inganni, violenze? Perché mai ad essi è consentito tutto quello che agli uomini è vietato? In breve: come potevano i Greci credere nei loro dèi?

Queste domande, del tutto lecite, diventano ancora più pressanti se si considera l’enorme quantitativo di riti, festività, cerimonie, cortei che arricchivano il calendario dell’epoca, come anche l’altrettanto ricca messe di luoghi di culto, templi, santuari, statue dedicate agli dèi. Quale era la spinta psicologica che muoveva fedeli e scalpellini, poeti e architetti in tanto solerte e diffusa attività?

Una risposta potrebbe venire dal fatto che, in epoca arcaica, non si era ancora arrivati a fornire una spiegazione scientifica di tanti fenomeni naturali. Non solo manifestazioni terrificanti come terremoti, fulmini o eclissi, ma anche l’insorgere di malattie improvvise, immotivati mutamenti del sentire comune, accessi di pazzia… Tutto quello che non è comune sembrava segno di una presenza sovrannaturale, perfino uno starnuto!

Ma la spiegazione più profonda dell’attaccamento dimostrato dai Greci alle molteplici forme di religiosità stava nel fatto che con esse si dimostrava la coesione della polis. Ogni città, infatti, aveva i suoi culti e non parteciparvi era segno di disubbidienza, potenziale pericolosa insubordinazione.

Anche i riti che potrebbero essere considerati “privati” (per una nascita o un lutto) in realtà volevano celebrare l’ingresso, o l’uscita, di un membro dal complesso civile.

Uno dei capi d’imputazione che costarono a Socrate la condanna a morte non fu di “non credere negli dèi”, ma di “non riconoscere gli dèi che la città riconosce e anzi di praticare culti nuovi e diversi”. Il reato che gli costò la vita non era stato commesso contro le divinità, ma contro Atene.

Si può definire questo tipo di fede “orizzontale”, nel senso che il legame che esso stabiliva univa i membri della polis tra loro, più che ciascuno di essi con il dio. Il cittadino stesso (con questo appellativo ci si riferisce ai maschi, liberi e possidenti, escludendo quindi donne, schiavi, stranieri e nullatenenti) partecipava al rito collegialmente con gli altri, mai rivolgendo preghiere o ringraziamenti personali a uno degli dèi (atteggiamento che potrebbe essere definito di fede “verticale”).

Un altro culto, però, quello dei Misteri, che riprese piede sotto Pisistrato (VI secolo), sottostava a regole diversissime dalla religione olimpica. Ai riti misterici, infatti, poteva partecipare chiunque e ciascuno lo faceva solo a titolo personale.

Il Santuario più importante era quello di Eleusi, non lontano da Atene. Due volte l’anno una nutrita folla vi si recava in processione, con manifestazioni di entusiasmo collettivo, cori, danze e fenomeni di trance. I fedeli costituivano un insieme eterogeneo di persone appartenenti a rango, provenienza, età e genere diversi, unito insieme soltanto dalla comune fede nelle divinità misteriche (Demetra, Dioniso e Orfeo). Al termine delle due cerimonie, ciascuno di essi tornava là da dove era venuto.

La partecipazione era totalmente libera e “Liberatore” era detto il dio Dioniso, sempre presente in quei culti. Il fatto che vi partecipassero le donne era fortemente disapprovato dai benpensanti dell’epoca. Riprovevole era considerato anche il comportamento dei partecipanti che, grazie anche all’assunzione di sostanze inebrianti, si lasciava andare ad atteggiamenti tutt’altro che composti (come invece si richiedeva nelle cerimonie tradizionali).

Gli adepti ai Misteri credevano che, una volta superati i riti di Iniziazione, ciascuno di essi potesse accedere ad una nuova vita dopo la morte del corpo: beneficio, questo, che rendeva la partecipazione ancora più sentita e personale.

È degno di nota il fatto che, nel periodo in cui i riti misterici tornarono in auge (VI secolo a. C.) il pensiero sapienziale ai suoi albori (i cosiddetti “presocratici” ionici) aveva messo a fuoco lo statuto esistenziale dell’essere umano, la sua unicità e anche la sua relazione con il cosmo.

Questa coincidenza getta nuova luce sulle ultime parole dette da Socrate a Fedro: “E la ragione di questo, mio caro, è la seguente: Io non sono ancora in grado di conoscere me stesso”.

                              

Anna Marina Storoni Piazza

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