Koinonia Aprile 2022


TEOLOGIA SOTTO ACCUSA

 

Stiamo descrivendo delle posizioni superate: lo sappiamo bene; ma il dramma di questo nostro postconcilio italiano sta proprio nel durare (e nel voler far durare) una posizione superata. Che accanto a una dottrina cattolica abbiamo posto una teologia tutt’altro che universale è nozione ormai acquisita; e non è affatto il caso di farne uno scandalo. Non c’è in questo nulla di strano e di allarmante. Ogni dottrina ha il substrato teologico dell’area storico-geografica in cui si è sviluppata. Il rischio e lo scandalo comincia quando - resi di questo consapevoli - si voglia imporre a tutti i tempi e a tutte le latitudini, anche una teologia.

È un avvertimento, pure questo, acquisito e non sarebbe il caso di insistervi. Ma se chiara è la sua enunciazione di principio, difficile rimane la sua applicazione, a cominciare dal disinnesco della dottrina dalla teologia. È su questo lavoro, indubbiamente delicato, che si rivolgono le preoccupazioni dell’«esattezza». Sono preoccupazioni legittime, doverose; tuttavia doveroso è anche superare il punto morto rappresentato dall’amalgama della dottrina eterna col prodotto peribile (ed in parte perito) di una civiltà passata da secoli. «Non si può, se si crede all’universalità del cristianesimo, insistere su un certo contesto di categorie che hanno avuto una enorme importanza nella instaurazione della cultura europea, ma di cui oggi si vede tutto il limite storico. Quindi, se la teologia non arriva ad assumere questo senso veramente universale della cultura, resta nella sua incapacità di parlare al mondo contemporaneo <...> su posizioni che restano sul piano teologico soltanto dogmatiche (non parlo del dogma nel senso profondo, religioso della parola, ma nel senso di posizioni che per sé sono rivedibili ma su cui invece si insiste per continuare un certo tipo di tradizione di cui tutti ormai hanno visto la sterilità)» (Pietro Prini, La teologia campo minato su «Rocca», 1 aprile 1967).

Se la Chiesa vorrà tornare a interloquire da protagonista con la cultura odierna, dovrà entrarvi nell’intimo e interpretarla, così come seppe interpretare con una voce validissima altri cicli di storia e di cultura. Per fare questo essa non può limitarsi a tradurre il latino della messa, per esigenze pastorali: deve tradurre il proprio linguaggio mentale, per esigenze teologiche. Non è possibile che grandi fatti del pensiero, quali l’idealismo o il marxismo, restino estranei al suo cammino teologico o vi entrino solo come eresie, come oggetti di confutazione. Ciò che in essi vi è di vitale e di vitalizzante deve essere assunto dalla mentalità, dalla psicologia e infine dalla teologia.

E non è il caso di baloccarsi in slogan di effetto ma di assai scarsa consistenza: di dire che la religione non ha bisogno del marxismo. La religione non aveva bisogno, strettamente parlando, nemmeno del platonismo o dell’aristotelismo; eppure se ne valse. Quei sistemi erano estranei al cristianesimo non meno di molte filosofie moderne. Qualcuno si scandalizzò di quel prestito «laico» e condannò perfino san Tommaso. La storia si ripete melanconicamente e non fa meraviglia se i teologi d’oggi, che cercano altri prestiti in filosofie più attuali, abbiano i loro fastidi. Ciò che importa non è evitare i fastidi, scantonando abilmente dagli spigoli esposti: ciò che importa. è la serietà e la responsabilità di ciascuno: di chi cerca nuovi, diversi e più nostri approfondimenti nel sempre inattingibile mistero e di chi vigila affinché quegli approfondimenti siano accettabili ed anche perché quel senso di mistero non sia affievolito dalle approssimazioni nuove come lo fu forse un poco dalle antiche.

Se consideriamo le difficoltà del lavoro teologico ci sembra sempre più comprensibile l’eventuale errore dei teologi; e non stupisce neanche il richiamo, perfino troppo ripetuto, alla prudenza e alla responsabilità. Ma se giusta è l’esortazione, ingiusto sarebbe il sospetto contro chi, con fatica e con rischio, tenta di meglio intendere un mistero che sempre ci trascende. Il rischio è il retaggio della vita e non possiamo pretendere una teologia viva e sempre sicuramente garantita. Se vogliamo una Chiesa libera dobbiamo accettare gli inconvenienti della libertà.         

Per questo non vorremmo che, in seguito a richiami probabilmente necessari, si gettasse il sospetto su quella che, già faziosamente, è stata detta la «nuova teologia». Coloro che, per vocazione, per temperamento, per struttura mentale, si sentono portati alla difesa di quelle posizioni fin qui ritenute irrevedibili, faranno bene a difenderle in ciò che c’è in esse di essenziale ma non a farsene una roccaforte generica contro generiche aggressioni. Non si generalizza in queste cose: si esamina, con grande serietà e scrupolo, volta per volta, problema per problema, senza lasciarsi prendere la mano né dall’amor del vecchio né dall’amor del nuovo.         

E se qualcuno, portato più alla revisione, può sbagliare spostando troppo indietro il limite del certo e scoprendo alcune verità da ritenere, stiamo attenti - per reazione - a non spostarlo troppo avanti, coprendo con l’usbergo della fede opinioni che sono ancora discutibili. Da un punto di vista pastorale può essere, o parere, condotta più prudente; da un punto di vista teologico si tratta del medesimo errore.

 

Adriana Zarri

in Teologia del probabile, Borla 1967, pp.230-232

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