Koinonia Aprile 2022


IN CONTINUITÀ DI RIFLESSIONE

        

Il ricordo di un incontro di anni fa in qualche convegno mi ha portato ad interessarmi ad un articolo di Paolo Gamberini, che però si è imposto alla mia attenzione per il problema che porta senza mezzi termini in primo piano. Un problema che è nelle cose ma del tutto assente nei discorsi e nella riflessione: e cioè il fatto che “il cattolicesimo cerca di sopravvivere alle bastonate di pandemia e ora guerra in Ucraina riproponendo una mistura di emozioni/poetiche e religione per far fronte ad una vera e propria dissonanza cognitiva con la realtà”. 

La crisi  che il cristianesimo nella sua forma cattolica sta attraversando, si preferisce risolverla, se non occultarla, dando via libera ad espressioni religiose emotive, estetizzanti, entusiaste, trionfalistiche, miracolistiche, spettacolari, con un linguaggio di frasi fatte e ad effetto… Per cui nessuno più si rende conto e si prende cura  di “una vera e propria dissonanza cognitiva con la realtà”. E cioè della mancanza di realismo e di verità.

Paolo Gamberini ci offre una risposta teologica agli interrogativi che lo stato delle cose provoca, e che farebbero pensare alla tentazione di Gesù nel deserto: quella di mettere tutto sul conto e a carico di Dio per aspettarsi da lui la soluzione a tutto. Da parte mia colgo l’opportunità di segnalare in maniera ancora più chiara il relativo problema pastorale, di una chiesa di fatto divisa in blocchi: quella della cosiddetta religiosità popolare e quella o quelle disperse e marginali del pensiero critico, di consonanza cognitiva o meno con la realtà.

Tutto questo sembra avvenire in nome della efficienza e della concretezza, dimenticando che siamo così malati di concretezza da perdere il senso della realtà, come se tutto si dovesse giocare sul momento, e come se tutto fosse già predefinito, quasi da escatologia compiuta. Anche se ad una chiesa orante tutta di cielo fa da contraltare una chiesa tutta di terra, che intende la fede come quadro di riferimento per l’impegno umanitario e sociale, ma che rischia di vanificare ugualmente la fede nella sua peculiarità. Come saldare queste fratture per rinsaldare la “chiesa una” nella sua molteplicità?  Bisognerebbe che il detto classico ricordato da Paolo Gamberini - “Lex orandi statuat legem credendi” - non fosse solo rivelativo di un modo di pregare che ingloba e vanifica il credere, ma fosse normativo di una preghiera della chiesa che esprime e genera fede.

Potremmo dare a tutto questo il nome di “pietà” e chiedersi come coordinare la pietà intrinseca del Popolo di Dio sacerdotale con quella che siamo soliti denominare pietà popolare, dando origine a qualche equivoco. Se questo è il problema, c’è da dire che papa Francesco se lo pone e cerca una convergenza, come ci dimostra nella Evangelii gaudium (nn.122-126), ma anche in alcune sue scelte e proposte, come ad esempio l’atto penitenziale del 25 marzo con relativa consacrazione a Maria, che peraltro ha fatto da cartina di tornasole delle divisioni nella chiesa cattolica e tra le chiese.

Questo si spiega forse col fatto che papa Francesco ha una visione della pietà popolare che gli deriva dalla chiesa dell’America latina, dove è intesa e praticata -  sia pure nei suoi limiti - come derivante da una inculturazione del vangelo o come via di inculturazione del vangelo. Ma da noi le cose stanno diversamente, in quanto abbiamo una forma di pietà popolare lontano surrogato del vangelo, originata all’interno di una chiesa “società perfetta” come spazio marginale di creatività religiosa. Se questo è un problema - se non addirittura il problema - possiamo chiederci quanto è presente nel cammino sinodale della chiesa italiana?

Sono tante le ambiguità a cui si rischia di andare incontro con questo modo di procedere. In effetti, sono state indicate delle procedure. ma senza sapere dove debbano portare: quando si parla di comunione, partecipazione e missione sembra che siano già una pratica in atto, piuttosto che l’obiettivo di una chiesa strutturata diversamente. Forse siamo in presenza di una “questione teologica” da prendere seriamente.

Se Giovanni XXIII auspicava un “magistero a carattere prevalentemente pastorale”, a maggior ragione bisognerebbe pensare ad una teologia che corrisponda a questi requisiti. Di seguito si cerca di chiarire il senso di questo compito di servizio del vangelo e alla chiesa. Una dimensione costante sempre attiva dentro il nostro cammino e nella nostra riflessione, ma forse è anche il momento di esplicitarla: per ora con un ritorno al Padre dell’Ordine dei Predicatori, ma poi anche dando ascolto a testimoni affidabili quali M.Dominique Chenu, Gustavo Gutierrez e Adriana Zarri, dai quali vogliamo ripartire per una prospettiva  e metodo di lavoro.

Prendendo in mano un libro del 1963 di Wilhelm Knevels, pubblicato in Italia da Paideia nel 1966 (Dio è realtà), leggo queste parole finali: “Tutte le affermazioni su Dio debbono  essere verificate sul metro della loro idoneità a far spazio alla realtà della preghiera. Non si può riconoscere come teologia cristiana una teologia che sia insufficiente su questo punto. La preghiera resta infatti il cuore della fede cristiana” (p.302). Purché essa nasca come respiro della fede!

 

Alberto B. Simoni

 

 

“Il beato Domenico voleva i suoi

sempre intenti allo studio,

alla preghiera, parlando con Dio,

o alla predicazione, parlando di Dio”

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