Koinonia Aprile 2022


RIPARTIRE DALLA “PACEM IN TERRIS”

PER VINCERE OGNI UMANA ALIENAZIONE

 

Colpisce tanta retorica di queste settimane sulla guerra. Colpisce perché un’eco ben differente abbiamo udito la scorsa estate dall’Afghanistan. O segnali tanto tenui da non essere nemmeno uditi sono giunti a noi dalle troppe guerre dimenticate in giro per il pianeta. Ora una triste grancassa risuona. Si attacca il movimento pacifista accusandolo di essere equidistante. Ma soprattutto, dopo due anni di pandemia che hanno rivelato la miopia folle dei tagli nel campo del diritto alla salute, pronta e praticamente unanime è stata la decisione di alzare al 2% del PIL la cifra da destinare al riarmo.

Colpiscono le semplificazioni nelle immagini che ci giungono da questa tragedia. È ovvio che esiste un aggressore e un aggredito. È un bene che si predispongano massicce macchine di accoglienza dei profughi, segno che si sta facendo autocritica sulla politica dei muri levati verso i profughi siriani, curdi, afghani... Ancor più incoraggianti sono le voci che ci giungono dalla Corte di giustizia dell’Onu, perché ci parlano di un diritto internazionale che si sta costruendo lentamente ma inesorabilmente. Ma perché sventolare quelle foto di giovani sposi in divisa? Cosa c’è da esultare in un amore celebrato fra le armi? Perché dare risalto entusiastico a giovani ucraini che preparano le molotov quasi fosse una competizione sportiva? Fino poi ad arrivare a una bimba in armi spacciata per icona della resistenza. Ma dove sono finite decennali e condivise campagne di opinione contro l’arruolamento dei bambini soldato?

Ricordo le critiche che travolsero Luigi Pintor quando nelle sue memorie ci parlò del peso avvertito nella sua coscienza quando dovette usare le armi nella Resistenza: quel peso non lo abbandonò mai. Eppure oggi si gioca a risiko in salotto e si preme per inviare armi, senza magari neanche chiedersi come farle arrivare in concreto in una zona di guerra e a chi assegnarle o con quali regole d’uso. Si dileggia ogni atteggiamento problematico e si rispolverano facili manicheismi: chi sostiene un’eroica resistenza e chi si imbosca, vecchia musica, pessima musica. E giù a informarci pure che i soldati del battaglione Azov leggono Kant: l’ennesima prova di ridicolo.

Riscoprire le pratiche della nonviolenza non significa solo affermare che esistono altre vie rispetto al riarmo. Significa ricordare che la guerra è veramente alienum a ratione, come vuole la Pacem in Terris di Giovanni XXIII di cui il prossimo anno ricorrono i 60 anni dalla firma. Sarebbe interessante allora se le comunità ecclesiali - e non solo loro - accompagnassero il proprio impegno per la pace dei prossimi mesi proprio con la rilettura e la discussione collettiva di quel documento capitale nel ripudio della guerra. Ripudio, non semplice rifiuto. Ripudiare, come scrive anche l’articolo 11 della Costituzione. Rifiutare significa scegliere altro, ripiegare, magari preferire che non. Ripudiare è più forte, è gettare nella pattumiera dell’inumano la guerra, perché la ragione e il diritto lasciano sempre aperte alternative di pace. Alternative credibili, percorribili, concrete. Non utopie. Per questo viene facile e necessario dileggiare chi crede nella nonviolenza.

Chiudo con una segnalazione bibliografica al volo. Il movimento nonviolento ha dato alle stampe per le proprie edizioni (www.azionenonviolenta.it) all’inizio del 2022 un agile volumetto del suo presidente onorario, Daniele Lugli, intitolato Giacomo Matteotti obiettore di coscienza. Brevi ma dense pagine per ricostruire il nesso fra pace, lavoro, diritti.

 

Andrea Fedeli

.