Koinonia Marzo 2022


La guerra, che fare?

 

Oggi, 24 febbraio 2022, è un giorno molto triste: i russi hanno iniziato l’invasione dell’Ucraina; non è il momento di riempirsi la bocca con analisi socio-politiche sui torti e le ragioni delle due parti; mi sembrano dettagli privi di senso di fronte alla catastrofe che questa iniziativa sciagurata comporta e comporterà.

La sofferenza di bambini, vecchi, donne e uomini dei due fronti, sono assolutamente irriducibili a cifre economiche o valutazioni territoriali- nazionali.

È l’intera umanità a perderci, a vivere la propria sconfitta, a prendere atto della propria impotenza di fronte all’uso della forza bruta, barbara, irragionevole come strumento di relazione tra popoli, cioè tra esseri umani. Il pensiero non può non andare all’invasione della Polonia da parte di Hitler, nel ‘39, con tutto ciò che ne seguì. E non si può non concludere sconsolatamente che la storia non insegna niente, o meglio il suo insegnamento è valido solo per chi è disposto ad ascoltarlo, e in genere chi è in grado di farlo non ha i mezzi per impedire il ripetersi di simili disastri.

Il fallimento della ragione di fronte alla barbarie lascia il campo all’insensatezza della violenza proporzionale alla sua capacità brutale di nuocere, di lacerare, di scompigliare i progetti di vita degli uomini, dei poveri mortali.

Perché coloro che decidono di farla, la guerra, la vivono ben al riparo nei loro palazzi protetti, lontano dal rumore delle bombe che fa piangere i bambini piccoli e fa tremare i vecchi.

La mia generazione non ha vissuto guerre, almeno così vicine come questa, nel cuore dell’Europa; ha avuto la fortuna di vivere, almeno fino ad oggi, in un’epoca di sostanziale pace e concreto benessere; ora si trova, dopo essere forse uscita da una terribile pandemia, ad affrontare l’incognita di una guerra la cui portata e la cui evoluzione sono assolutamente ignote.

Le potenze occidentali stanno evidenziando la loro sostanziale impotenza e impreparazione di fronte all’atto, non saprei dire quanto inatteso, di chi ritiene di poter risolvere i problemi sbaragliando il tavolo da gioco. Del resto rispondere alla violenza con la violenza sarebbe un gioco mortale e c’è da sperare che chi ha responsabilità di comando ne sia consapevole.

Ma noi, i piccoli, gli esseri umani che si alzano ogni giorno per costruire un segmento della propria esistenza con sacrifici, sogni, sentimenti, desideri, delusioni, aspettative, che possiamo fare? Che dobbiamo fare? Cosa possiamo fare per difendere quel poco di futuro che ci è concesso?

Il nostro essere cristiani, è vero, ha un suo fondamento nella speranza: e la speranza ha occhi rivolti verso il futuro, verso un domani imprevedibile pur nella sua certezza; ma di fronte allo sgretolarsi della “città terrena”, al venir meno dei valori della civiltà occidentale, incapace di dare risposte convincenti alle ferite che sempre più violentemente il materialismo esasperato, la finanza rapace, il liberismo economico che ha come inevitabile corollario la guerra (“l’imperialismo fase suprema del capitalismo!”), imprimono sulle componenti più fragili della comunità umana ma anche, non dimentichiamolo, sulla natura stessa, possiamo limitarci a evocare l’immagine di una “città divina” di là da venire?

È il qui ed ora che richiede il nostro impegno, è la sofferenza concreta, straziante di aggrediti e aggressori (perché anche questi subiscono ferite e muoiono…) che ci chiama e ci impone di essere subito partigiani della pace.

La chiesa militante, la chiesa degli umili, dei poveri, dei «credenti in cammino» deve essere in prima linea nella resistenza al male.

Nel corso del IV secolo l’Europa è ripetutamente devastata dalle incursioni delle popolazioni barbariche. L’Impero romano, quello che ne resta, è ormai in disfacimento: già Ambrogio, vescovo di Milano, nel primo scorcio del secolo aveva descritto le devastazioni, le violenze terribili compiute dai barbari nell’Illirico (parte occidentale della penisola balcanica): l’orrore di quelle vicende colpisce il suo animo di cristiano e di romano.

Di fronte alla ferocia, alla crudeltà dei tempi, la via di salvezza prospettata dai Padri europei consiste nella fuga dal mondo, la rinuncia ai beni materiali e il rifugio nella preghiera: «Chi vuole salvarsi - scrive Ambrogio nel De fuga saeculi - deve librarsi sopra il mondo”.

Negli anni cruciali a cavallo tra il IV e il V secolo che vedono l’apogeo della crisi con il saccheggio di Roma del 410, Paolino di Nola lascia i suoi possedimenti terrieri, le cariche che ricopriva, le comodità e gli studi per ritirarsi nella campagna nolana con la moglie, dedicandosi alla preghiera presso la tomba di S. Felice.

In queste scelte estreme c’è indubbiamente il retaggio delle scuole filosofiche ellenistiche, in particolare lo stoicismo e l’epicureismo, che avevano predicato la “fuga dal mondo”, la rinuncia ai beni terreni, all’ambizione politica, come unica via per la conquista della serenità dell’animo.

Il monachesimo occidentale ebbe a svilupparsi nel contesto drammatico di quei decenni, anche sulla spinta emotiva generata da vicende storiche di portata apocalittica.

S. Girolamo, in una lettera del 399, rievoca l’irruzione degli Unni del 395: “Improvvisamente ecco arrivare da ogni parte messaggeri e tutto l’oriente tremò: dalle terre più lontane, dalla Meotide, tra il Tanais ghiacciato e le selvagge tribù dei Massageti dove le Porte Caspie trattengono dietro le rocce del Caucaso genti barbare, ecco riversarsi orde di Unni. Spostandosi in ogni luogo sui loro cavalli velocissimi hanno riempito tutta la zona di terrore e di morte… che Gesù salvi il popolo romano in futuro da quelle belve! Il loro arrivo giungeva sempre inatteso poiché la loro rapidità superava quella delle notizie; non mostravano rispetto né per la religione né per la classe sociale né per l’età, anzi non provavano compassione neppure per i neonati… fummo costretti ad allestire imbarcazioni e tenerci pronti sulla spiaggia per prevenire l’arrivo dei nemici e pur nell’infuriare dei venti temevamo più i barbari del naufragio…”.

Agostino rappresenta, in questo quadro, una posizione particolare.

È tornato in Africa, dopo il 388, e quindi osserva lo sfacelo dell’impero da una zona periferica, relativamente protetta; il suo contatto più diretto con la rovina di Roma avviene tramite l’incontro con i profughi che giungono in Africa dall’Italia: si tratta di ricchi possidenti che hanno terreni sul suolo africano (che probabilmente non hanno mai visto); nell’imminenza dell’arrivo dei barbari riescono a salpare dal porto di Ostia e raggiungono il loro rifugio in Africa.

Agostino deve confortare, aiutare, recuperare alla fede tanti che, alla prova della storia, hanno visto vacillare, se non crollare, le loro certezze di cristiani.

E lo fa con uno sforzo prodigioso, intanto cercando di dare un senso, un significato a quegli avvenimenti, collocandoli in un processo storico comunque finalizzato alla salvezza della umanità; anche l’evento più sconcertante è comunque parte del progetto di Dio, o al limite non interferisce con esso. Quello che poi propone non è la rinuncia, la segregazione dal mondo, bensì un rinnovato impegno apostolico nella direzione di una diffusione del messaggio cristiano, passando così dall’attesa inerte del ritorno del Cristo, alla preparazione solerte dei Christiana tempora: insomma predisporre il terreno per la parousìa finale, facendo sì che al suo ritorno Gesù possa trovare un popolo che lo attende fiducioso.

Questo credo che sia anche il nostro impegno di oggi; oggi, più che mai, in questo triste giorno di guerra. E l’appuntamento sinodale può essere la coincidenza storica per dare l’impulso e l’orientamento decisivo a tutte le risorse umane della Chiesa in cammino.

 

Ezio Dolfi

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